mercoledì 20 ottobre 2021

 DEMOCRAZIA FUTURA

Il problema della “Prima Repubblica”, che poi precipitò nella strategia della tensione, il terrorismo e l'uccisione di Moro, fu la democrazia incompiuta per la quale un terzo dell'elettorato era escluso dalla decisione politica perché votava per il partito comunista, e pertanto reso ininfluente dall'anticomunismo ideologico di tutto il sistema. Il problema di oggi, giunto alle prime avvisaglie di piazze eversive, è la democrazia regressiva, per la quale più della metà dell'elettorato (è accaduto domenica scorsa) si astiene dal voto, perché le sue opzioni politiche non trovano alcun posto in un sistema bipolare di due aggregazioni elettoralmente forzate, una delle quali inquinata da una destra estremista e grottesca, l'altra da un servilismo alla falsa neutralità della competenza nel mercato capitalistico globale,
La risposta di Letta che persegue larghe alleanze mediante la fusione degli elettorati non è la soluzione ma il problema: le alleanze democratiche, e non le ammucchiate, si fanno tra le rappresentanze politiche portatrici di credibili e specifiche istanze, capaci di portare alla dignità della decisione comune in Parlamento le differenze felicemente presenti nel vissuto e nelle culture del popolo sovrano.
L'adeguata risposta è pertanto una democrazia pluralista realizzata mediante una legge elettorale proporzionale, in grado di riconoscere le vere priorità per l'Italia. Queste sono oggi quelle di una riforma mondiale che includa la libertà di migrazione (e quindi per noi la rapida introduzione dello “ius soli”) il disarmo nucleare (e quindi per noi l'immediata adesione al trattato per la proibizione delle armi nucleari e il loro allontanamento dalle nostre basi) e un ordinamento universale di doveri e diritti garantiti da un costituzionalismo mondiale.
È venuta a proposito domenica scorsa la trasmissione “Atlantide” della 7 che ha documentato come, dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945 e la capitolazione del Giappone, due team americani andarono a verificare sul posto gli effetti delle bombe. I membri della missione furono inorriditi di quello che trovarono, e constatarono che gli scienziati che avevano costruito le atomiche (alcuni dei quali partecipi della verifica) non avevano minimamente previsto quello che sarebbe avvenuto. Le foto e i documenti che ne ricavarono furono classificati come segreti e sparirono negli archivi per la condanna che la loro pubblicazione avrebbe fatto ricadere sui costruttori della bomba e sugli Stati Uniti che l'avevano sperimentata sulle carni vive delle città giapponesi votate allo sterminio; come ha testimoniato Furio Colombo che come giornalista negli anni immediatamente successivi ne prese diretta conoscenza in America, la rievocazione di quell'evento suscitava negli Stati Uniti un enorme imbarazzo, nessuno ne voleva parlare e quando si entrava in argomento esso era subito chiuso. Dunque l' "età atomica" è cominciata senza che coloro che le hanno dato inizio immaginassero che cosa effettivamente stavano facendo, e in modo tale che lo sgomento per quanto era stato compiuto impediva perfino di parlarne.
Ma oggi sappiamo tutto, non solo quello che è accaduto allora, ma tutto quello che ne è seguito nei decenni successivi per gli effetti a lungo termine delle radiazioni, sappiamo delle vittime, dei loro inenarrabili dolori, e tutto ciò dobbiamo moltiplicare per migliaia di volte quanto si sono moltiplicati il ​​numero e la crudeltà devastante delle armi nucleari nel frattempo costruite, potenziate, arricchite, ammassate negli arsenali, disseminate e pronte all'uso in tutto il mondo e contro tutto il mondo. Allora gli Stati Uniti non sapevano e non immaginavano; molte persone, anche scienziati e protagonisti dell'impresa a cose fatte si posero problemi morali, l'improbabile segreto provò a coprire imbarazzo, vergogna e forse pentimento. Allora si poteva ignorare che le armi nucleari mettevano nelle mani dell'uomo la decisione sulla fine del mondo. Ora gli Stati Uniti lo sanno, ma è come se non lo sapessero, e invano lo sanno gli Stati che tali armi hanno costruito e accumulato dopo di loro, lo sanno la Russia, la Gran Bretagna, la Francia, la Cina, l’India, il Pakistan, Israele, la Corea del Nord e invano lo sa l’Italia che le armi nucleari ospita nelle sue basi e si dota degli aerei per usarle, e così tutti gli altri Paesi che sono della partita.
Il mondo ci ha provato a fermarsi, il papa che nel 2019 è andato apposta ad Hiroshima e Nagasaki non fa che chiederlo con tutte le religioni; dalla “Pacem in terris” in poi sulla questione della guerra è cambiata l'immagine di Dio; il 22 gennaio con la ratifica di 51 Stati è entrato in vigore il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, firmato da 86 Paesi; un Trattato che l'Italia non ha firmato e come lei nessun Paese della NATO.
Fino a quando le potenze nucleari non entreranno nella logica del disarmo e non accetteranno di aderire al Trattato la visione di un mondo libero dalle armi nucleari e non violento che pure fu avanzata dall'Unione Sovietica di Gorbaciov e dall'India di Raijv Gandhi nella Dichiarazione di Nuova Delhi del 1986 sarà frustrata, e non si può nemmeno immaginare che la comunità umana sia salvaguardata nella sua pace e nei diritti di tutti i suoi membri da un ordinamento e una Costituzione a dimensioni mondiali, che è l'oggetto della nostra speranza.
Pasquale Iannamorelli, Giuseppe Staccia e altri 27
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martedì 12 ottobre 2021

INVECE DEL MURO

 L’assalto vandalico alla sede della CGIL e la sfida della piazza fin sulla soglia dei palazzi del potere sono un campanello d’allarme e dicono che una società non può a lungo essere esposta all’eclissi della politica, all’irruenza di forze politiche sovraniste, a superficiali unanimismi di governo senza cadere nell’anarchismo e rischiare il fascismo. La politica non è pura tecnica, il cui unico requisito sia la competenza, come presume Calenda lamentandosi per la sua sconfitta romana, ma anche sentimento e visione come gli hanno giustamente spiegato le sardine. Se si fosse riconosciuta questa qualità più alta della politica, il governo non avrebbe ignorato che la vaccinazione universale obbligatoria non è un problema di efficienza ma un problema di solidarietà e di consenso e la polizia si sarebbe accorta che una folla arrabbiata di manifestanti non si muove da una piazza del Popolo gremita verso Porta Pinciana per una passeggiata a Villa Borghese ma per portare la protesta fino al santuario del mitico sindacato della sinistra.

Mentre accadevano tali cose altri eventi cruciali ci mettevano di fronte due proposte alternative per il futuro del mondo. La prima, formulata dalla Grecia e altri undici Paesi schierati sul confine orientale dell’Europa, è quella di chiuderne le frontiere, alzarvi muri e fili spinati e farne un’aggregazione di Stati confliggenti tra loro e con gli altri, l’altra è quella avanzata davanti al Colosseo il 7 ottobre nell’incontro tra le diverse fedi religiose e poi nel Sinodo cattolico inauguratosi sabato ed è quella di “religioni sorelle e popoli fratelli” per fare un mondo unito e prendersene cura: un mondo, non lo dimentichiamo, condannato a una prematura apocalisse se la crisi ecologica non sarà rovesciata e devastato ora da un virus che solo in poche aree più ricche è arginato dai vaccini.
Atene e Roma è il vecchio binomio che eravamo abituati a identificare con le radici dell’Europa e a considerare come grembo di culture universali. Quella universalità non ha retto alla prova della storia, i simboli si sono rovesciati. A Roma il Colosseo (citazione di papa Francesco) fu “luogo di brutali divertimenti di massa, messa in scena di uno spettacolo fratricida, di un gioco mortale fatto con la vita di molti”, cosa che continua ancor oggi nella successione di guerre e violenze; il “Dio ignoto” predicato sull’acropoli di Atene per unificare le genti ha dato luogo invece a una Chiesa che ha interpretato la missione come proselitismo e si è concepita come unica via di salvezza; e l’universalità del nomos dell’Occidente è stata pensata e gestita come superiorità su tutte le culture e come dominio sugli altri popoli.
L’Europa, che pur ha molto da farsi perdonare dalla Grecia, a cui non molti anni fa ha imposto in nome del danaro pesi inammissibili, giustamente ha ora rifiutato la sua proposta protezionista volta a respingere i migranti e a isolarla dal mondo; ma ciò vuol dire che bisogna inventarsi una politica alternativa, ridefinire in termini positivi la proposta dell’unità e dell’universalismo. La formula dell’Imam Ali ibn Abi Talib, genero di Maometto, rilanciata dal papa a Roma: “Le persone sono di due tipi: o tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità” è adeguata. Ciò vuol dire unità nel pluralismo, riconoscendosi fratelli “ciascuno con la propria identità religiosa”, come ha ribadito il papa nell’incontro al Colosseo; ma vuol dire anche non fare di questa identità un’esclusiva, e fare i conti con l’idea teologica di “elezione”, un solo Dio, un solo popolo, una sola terra, una sola legge, una sola fede. Una lettura fondamentalista di questa idea è stata la malattia infantile del monoteismo, un’infanzia peraltro durata fino ad ora, che per la Chiesa ha preso le forme della cristianità, che voleva dire incorporarsi il mondo, e che secondo lo storico Heer si è risolta nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. Come ha ricordato il papa al popolo della sua diocesi romana, sono stati i profeti stessi di Israele che hanno corretto il concetto di elezione, che non discrimina in nome di Dio, che non può essere imprigionato nell’idea di una esclusività, di un privilegio, ma deve essere un dono che qualcuno riceve per tutti, un dono per cui la salvezza di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità. Novità di interpretazione che nel cristianesimo è stata promossa da Paolo, ciò di cui gli ebrei si risentono, come ha mostrato la recente polemica dei rabbini, ma che l’ebreo Jacob Taubes gli ha riconosciuto come merito: Paolo è infatti l’antitesi dell’idea di selezione che riserva a pochi la realizzazione dell’umano e che nella modernità sarà teorizzata da Nieztsche; per Paolo, dice Taubes, il non-uomo diventa uomo, il non-popolo diventa popolo, la debolezza diventa forza. Ed è su questa linea che papa Francesco vuole mettere la Chiesa, non per fare un’altra Chiesa, come diceva Congar, ma “una Chiesa diversa”, non più la Chiesa dei grandi numeri (la Sala Nervi, detta aula Paolo VI, fu costruita perché san Pietro sembrava troppo piccola), non la missione come proselitismo e nemmeno la conventicola del 3, 4 o 5 per cento che frequenta e la pensa allo stesso modo, ma una Chiesa aperta che serve tutti, cammina insieme a tutti, “coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà”: e qui il vero sinodo, che significa appunto camminare insieme, sembra andare oltre l’ambito religioso, e proporsi piuttosto come quello dei popoli verso il diritto la giustizia e la pace.
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