In ogni caso “No, non è la fine”, come dice il mio libro appena uscito in edizione
Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna. |
A SINISTRA DA CRISTIANI
In ogni caso “No, non è la fine”, come dice il mio libro appena uscito in edizione
Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna. |
Ora che Trump se n’è andato e Francesco invece è
rimasto, si può valutare la portata della simultanea presenza di questi due
grandi leader sulla scena mondiale. Sotto il velo di un rapporto politicamente
corretto (non tanto però se Bannon è venuto a insidiare la Chiesa fin sotto il
soglio di Pietro) si è trattato di un grande conflitto tra unù potere temporale
e un potere spirituale, come ai bei tempi delle Investiture. La differenza
rispetto a quel precedente era che l’uno non era capo dell’Impero e l’altro non
aveva una “Cristianità”, di cui
pretendesse di essere il capo.
Ci sono stati dei momenti e delle partite in cui il
conflitto si è manifestato con particolare potenza. Uno è stato il conflitto
sul Medio Oriente e sulla Siria, che il papa ha difeso con particolare calore
(fin dal momento, nel settembre 2013, in cui impedì con la forza della grande
veglia in piazza san Pietro la guerra alla Siria) e che Trump voleva invece
assoggettare e insanguinare fino a ordinare, come lui stesso ha rivelato nel
settembre scorso, di uccidere Assad.
Un’altra contrapposizione frontale c’è stata sulla
cura della Terra e del clima, quando Trump ha scelto il business e l’abuso ed
ha ritirato la firma dagli accordi di Parigi, e Francesco con la Laudato Sì ha
fatto appello a tutti gli abitanti del pianeta perché si facessero responsabili
della Terra e non la facessero depredare.
L’altra epocale rappresentazione del contrasto si è
avuta con la reazione alla pandemia, quando Trump ha preso la guida dei negazionisti,
causando 400.000 morti solo in America, tanti quanti sono stati gli americani
morti nella II guerra mondiale, mentre papa Francesco ha preso su di sé tutto
il dolore del mondo nella solitudine di piazza san Pietro, e ha legittimato le
restrizioni anche più severe e i comandi delle autorità civili, obbedendo ad
essi per primo, e con lui tutta la Chiesa.
Ancora il conflitto si è manifestato
sull’immigrazione, quando papa Francesco è salito a predicare fin sul muro che
separa gli Stati Uniti dal Sud dell’America e del mondo, prima che Trump lo
alzasse fino al cielo.
Su tutti i fronti le cause di Trump sono state
sconfitte. Il Medio Oriente martoriato è ancora in cerca d’autore, e ora il
papa va in Iraq fino a Ninive, la proverbiale città che Dio salvò dalla
distruzione annunciata, per consegnare al mondo un messaggio antiapocalittico.
Gli Stati Uniti rientrano nell’accordo sul clima. La costruzione del muro al confine col Messico è bloccata, è avviato
il ricongiungimento delle famiglie, promessa l’integrazione degli immigrati,
abolito il divieto di ingresso in America dai Paesi a maggioranza musulmana.
Ma soprattutto ha vinto la grande parola d’ordine
della cura, la cura del creato, la cura del prossimo come fratello, che papa
Francesco ha messo nel cuore delle sue due encicliche e del suo ministero, e
che ha rilanciato al sorgere di questo nuovo anno: “tutto comincia da qui, dal
prendersi cura degli altri, del mondo, del creato. Oltre al vaccino del corpo
serve il vaccino per il cuore: e questo vaccino è la cura. Sarà un buon anno se
ci prenderemo cura degli altri…” Ed ecco che negli Stati Uniti, il Paese in cui
la sanità pubblica era osteggiata dai ricchi e scartava i poveri, vengono ora
pianificati entro i prossimi 100 giorni 100 milioni di vaccini, il che vuol
dire che conservare in vita ogni singola persona diventa una priorità della
politica; ci vorrà una mobilitazione e una pianificazione della produzione pari
a quelle richieste da una guerra, tanto che si farà ricorso al Defence
Production Act, la legge varata per la guerra di Corea; si scambia la guerra
con la cura. E per quanto possano sopravvivere le nefaste
pulsioni al razzismo, alle discriminazioni e agli scarti è chiaro che saranno vaccinati i neri come i
bianchi, nonché portoricani, ispano-americani, immigrati, stranieri e
cittadini, senza distinzioni.
RIPARTIRE DA NINIVE CONTRO LA LOGICA DELL' APOCALISSE
La crisi della democrazia americana, che ha appena svelato come vi sia un fascismo in agguato negli stessi Stati Uniti, mostra ancora una volta quanto sia necessario ed urgente istituire un ordinamento costituzionale mondiale che salvaguardi la Terra e proclami e tuteli con efficaci garanzie i diritti fondamentali di tutti gli abitanti del Pianeta. In effetti la democrazia americana (una democrazia senza diritti fondamentali: non per i condannati a morte, non per i senza cure, non per i sacrificati alla ragion di Stato americana in ogni Paese) ha dato spettacolo. Ma noi qui vogliamo solo prendere atto, evangelicamente, di come siano dispersi i superbi nel pensiero del loro cuore; lo si vede se pensiamo che così finisce la pretesa conclamata agli inizi di questo secolo dalla destra americana, di fare del 2000 “il nuovo secolo americano”, concepito come un ordine imperiale ben munito di armi spaziali e nucleari. E di tale ordine, come abbiamo imparato durante questa crisi, lo spartiacque universale, il criterio del bene, anche per i capipopolo, sarebbe stato tra ciò che è “american” e ciò che è “unamerican” (non conforme all’uso americano).
Sul prossimo viaggio del papa in Iraq vogliamo segnalare un
prezioso articolo di Antonio Spadaro sull’ultimo numero (il 4093) della Civiltà Cattolica. Spadaro conosce le
motivazioni del papa, e qui la motivazione riferita del viaggio in Iraq è
davvero fondamentale, essa sta nel “Ripartire da Bagdad”, per andare “oltre
l’Apocalisse”. L’Apocalisse è come si sa quel genere letterario presente nella
Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, che ispira la “logica che combatte contro il mondo,
perché crede che questo sia l’opposto di
Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine
del tempo”. Questa, come vediamo ogni giorno, non è la logica di papa
Francesco. Il mondo non è opposto a Dio, ciò che il cristiano attende no, non è
la sua fine, e non è idolatrare il mondo amarlo, fare di tutto per salvarlo,
fino a dare la vita per esso (Dio ha dato suo figlio).
Questo in verità è il nuovo annunzio, fuori di ogni ambiguità è
questo il vangelo. Ed è di grande significato l’osservazione della Civiltà Cattolica, che questo annuncio
riparta da Bagdad. È questo il cuore dell’Iraq, il Paese culla della civiltà
antica, che cominciò a essere martoriato trent’anni fa perché fosse
ripristinato nel mondo lo strumento universale della guerra, caduto in disuso a causa del terrore
suscitato dall’atomica, e ripristinato a fine secolo dopo la rimozione del muro
di Berlino. Ma recarsi in Iraq vuol dire anche andare nella piana di Ur, legata
alla memoria di Abramo, andare a Mosul, nella piana di Ninive, bombardata nella
guerra del Golfo, vuol dire andare alla “grande città” legata alla storia di Giona (quando Dio si
pentì di avere fatto annunziare la distruzione della città, così piena com’era
di abitanti e di animali, e la salvò). Ma la piana di Ninive è anche quella che
era stata occupata dal cosiddetto Stato islamico tra il 2014 e il 2017, e così
Ur, luogo di origine delle tre religioni abramitiche, ebraismo, cristianesimo e
Islam.
Questo è dunque uscire dalla logica – e dalla teologia –
dell’apocalisse. Dopo gli eterni conflitti, dopo l’inimicizia, dopo le guerre,
dopo le violenze e le competizioni
religiose, dopo la pandemia abbattutasi sulla Terra ammalata, andare
“oltre” l’apocalisse vuol dire ripartire dalla fraternità, ripartire dalla
prossimità, dal considerarsi tutti “una sola carne”. C’è un filo, dice padre
Spadaro, che lega piazza san Pietro dove Francesco ha pregato da solo per il
mondo in piena pandemia, e i luoghi della Mesopotamia profanata dalle
violenze dello Stato islamico, dai
conflitti regionali e internazionali, dalle persecuzioni dei cristiani e dagli
esodi di massa in fuga dalla disperazione. E papa Francesco l’ha detta così:
“Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana,
come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la
ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce,
tutti fratelli”: Fratelli Tutti.
IL DIO CINICO NON ESISTE
Continua...
Forse poteva stupire che il papa, così attento nell’amore, nel riguardo e nella delicatezza per l’altro, chiedesse ai due cardinali più importanti del collegio (il decano e il segretario di Stato) di non usare parole proprie nelle liturgie di passaggio all’anno nuovo in san Pietro, ma di leggere le omelie preparate da lui, impedito a pronunciarle dai dolori della sciatalgia. Doveva esserci una ragione seria. Se il 2020 fosse stato un anno normale, sarebbe stato diverso. Ma era stato l’anno dell’universale dolore, l’anno della pandemia, l’anno da tutti esecrato e bollato come da non doversi ripetere mai più: come accreditarlo a Dio cantando il Te Deum? Nel decidere se e come darne lode o farne carico a Dio ne andava del cristianesimo. Quale responsabilità maggiore per un papa chiamato ad essere custode della fede e a confermare nella fede i fratelli (che come ormai sappiamo da “Fratelli tutti” e altri innumerevoli atti pastorali sono tutti gli uomini e le donne senza eccezione e scarto alcuno)?
Papa Francesco aveva già spiegato, anche qui in innumerevoli interventi pastorali, come si dovesse prendere la pandemia, se si dovesse chiederne conto a Dio, come sistemarla nell’universo delle nostre angosce, delle nostre domande di senso. C’era stato il grande pericolo che degli zelanti la spiegassero come la Grande Punizione per un mondo in via di perdizione, che si usassero gli argomenti degli amici di Giobbe (te la sei voluta!) oppure che si piantasse la domanda micidiale per la fede: perché Dio permette, o addirittura provoca, il dolore innocente, sottopone il giusto a prove strazianti, negli affetti più cari, nei figli, nei beni, nel lavoro? Insomma era il problema della teodicea: il termine è nuovo, inventato da Leibnitz nel ‘700, ma la questione è antica, viene dalla Bibbia, passa per Qumram, i Manichei, sant’Agostino, attraversa la Chiesa, arriva a Paolo VI che si lamenta con Dio perché non ha salvato Moro, «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico»: essa scuote la coscienza credente, che all’ora della prova o smette di credere o «riesce a credere attraverso ciò che sperimenta, anche se non lo capisce, anche se non lo vuole, anche se continua a sembrargli assurdo e ingiusto», come si legge su “Rocca”, la rivista di Assisi, che proprio in questi giorni come tanti altri si era interrogata su «la malattia e la risposta religiosa»; e la domanda è: perché il male? Che ci sta a fare Dio con tutto questo male, ci salva o dobbiamo salvarci da soli o salvezza non c’è?
Dal primo giorno in cui è papa, Francesco si è dedito a smontare le immagini idolatriche di Dio, di un Dio costruito secondo i sentimenti umani, secondo le umane filosofie, le logiche del mondo, un Dio associato agli istinti del giustizialismo e della retribuzione; giorno dopo giorno egli ha preso le distanze dal Dio secondo ragione di tante teodicee e non ha fatto altro invece che raccontare un Dio di misericordia, riaprendo nella modernità, sulla frontiera stessa del kerigma, la questione di Dio. Ma, pur nella popolarità di cui gode, questa vera novità non era stata seriamente avvertita, su altri terreni di riforma ecclesiale era stato atteso al varco; nessuno del resto mette in gioco la propria precomprensione della fede, non c’è l’idea che la predicazione, sia pure di un papa, non sia fatta di prevedibili stereotipi, che possa cogliere di sorpresa, come fa l’irrompere nella routine informativa di una vera notizia, di una cosa nuova. Ed ecco che nelle omelie di fine ed inizio d’anno in forma quasi lapidaria, con la forza di tutta l’esperienza di dolore della pandemia e la chiarezza di una informazione ormai certa, è data la buona notizia, giunge la risposta sul Dio in cui credere, e il dio invece da lasciare: il Dio cinico non esiste. «Non potevamo immaginare un Dio simile, che nasce da donna e rivoluziona la storia con la tenerezza», ha letto dai fogli papali il cardinale Parolin nella Messa di Capodanno; e nei Vespri di fine d’anno il cardinale Re con le parole di Francesco ha infranto la pretesa sofistica della teodicea che pretende tutto spiegare dei misteri di Dio: «Qual è il senso di un dramma come questo? Non dobbiamo avere fretta di dare risposta a tale interrogativo. Ai nostri ‘perché’ più angosciosi nemmeno Dio risponde facendo ricorso a ‘ragioni superiori’. La risposta di Dio percorre la strada dell’incarnazione, come canterà tra poco l’Antifona al Magnificat: ‘Per il grande amore con il quale ci ha amati, Dio mandò il suo Figlio in una carne di peccato’.
«Un Dio che sacrificasse gli esseri umani per un grande disegno, fosse pure il migliore possibile, non è certo il Dio che ci ha rivelato Gesù Cristo. – dice Francesco - Dio è padre, ‘eterno Padre’, e se il suo Figlio si è fatto uomo, è per l’immensa compassione del cuore del Padre. Dio è Padre ed è pastore, e quale pastore darebbe per persa anche una sola pecora, pensando che intanto gliene restano molte? No, questo dio cinico e spietato non esiste. Non è questo il Dio che noi ‘lodiamo’ e ‘proclamiamo Signore’.
«Il buon samaritano, quando incontrò quel poveretto mezzo morto sul bordo della strada, non gli fece un discorso per spiegargli il senso di quanto gli era accaduto, magari per convincerlo che in fondo era per lui un bene. Il samaritano, mosso da compassione, si chinò su quell’estraneo trattandolo come un fratello e si prese cura di lui facendo tutto quanto era nelle sue possibilità (cfr Lc 10,25-37).
«Qui, sì, forse possiamo trovare un “senso” di questo dramma che è la pandemia, come di altri flagelli che colpiscono l’umanità: quello di suscitare in noi la compassione e provocare atteggiamenti e gesti di vicinanza, di cura, di solidarietà, di affetto. È ciò che è successo e succede anche a Roma, in questi mesi,,,,»
Così il papa. Non c’è un grande disegno, non c’è nessun disegno per il quale sacrificare esseri umani: non c’è per Dio, tanto meno può esserci per noi, per la ragion di Stato, per le guerre umanitarie, per il pareggio di bilancio, per i sacrificatori di ogni setta, cultura e religione: «Questo Dio cinico e spietato non esiste»; «Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge» aveva scritto Francesco nella bolla d’indizione dell’anno della misericordia, non sarebbe neanche un Dio. Perciò davanti all’uomo gettato ai bordi della strada e della vita non c’è da argomentare sul bene che “in fondo” gliene può venire (per esempio salvarsi l’anima, come predicava l’Inquisizione), ma bisogna chinarsi su di lui e prenderne cura.
Questa, di ripetere l’azione messianica di svelare la vera “natura di Dio”, è la riforma di papa Francesco. Ma, come osserva padre Alberto Simoni nella sua strenua proposta di una vera “koinonia”, ciò è vano se non diventa una proposta pastorale di tutta la Chiesa. Cioè se tutta la Chiesa non fa suo questo annuncio, se non si limita a farlo fare testualmente da due cardinali incaricati, o lo fa svogliatamente o non lo fa per nulla dai pulpiti domenicali.
La verità è che nella Chiesa, la cui stessa sopravvivenza secondo il Corriere della Sera è in prognosi riservata, ha bisogno oggi di una grande rivoluzione nel suo rapporto col mondo, come aveva intuito il Concilio Vaticano II, ma questa rivoluzione va oltre le buone maniere imposte dalla modernità, ha bisogno della stessa radicalità che «ha percorso la strada dell’incarnazione» . Questo vuol dire che per raccontare al mondo un Dio così, occorre aggiornare le sacre biblioteche, rinnovare i linguaggi e forse cominciare col ripensare e riscrivere i libri liturgici, rifare la scelta delle letture bibliche per i cicli triennali dell’anno liturgico, ristudiare le connessioni tra le letture dell’Antico e Nuovo Testamento, non lasciare nel gorgo del fraintendimento pagine bibliche gravide di un Dio geloso e vindice, che nel contesto storico di oggi, così come sono (non più in latino ma in volgare) suonano come un controannuncio rispetto alla pazienza e misericordia di Dio, insomma riprendere la grande riforma liturgica intrapresa dal Concilio e che fu fatta interrompere al cardinale Lercaro.
.L’impresa è ardua, ma per un Dio così ne vale la pena.
IL CENSIMENTO
Al
sopraggiungere di quest’anno 2021, quando Biden, Dio sa come, è presidente
degli Stati Uniti, Conte è fortunosamente presidente del Consiglio in Italia, Johnson
è il disastroso premier del Regno Unito e Angela Merkel, la donna tra i potenti
che piange sui morti, è cancelliera della
Germania federale, si deve fare un
censimento di tutta la Terra, per dare a tutti il vaccino che li salvi dalla
pandemia. È come il censimento che, secondo il racconto di Luca, Cesare Augusto
ordinò che si facesse in tutto l’Impero,
quando Quirino era governatore della
Siria e nacque Gesù. Ma c’è una differenza. Quello di Augusto fu fatto per discriminare
i cittadini non romani rispetto ai romani, mentre questo deve includere tutti. In
quel tempo si pagava caro non essere cittadini romani: per esempio a Gesù costò
essere giustiziato mediante la croce, supplizio a cui erano sottratti i Romani
perché considerato troppo infamante per loro; a Paolo invece essere civis romanus fruttò potersi appellare a
Cesare ed essere tradotto a Roma per esservi giudicato, anche se poi quella non
apparve una così grande garanzia, se a Roma egli fu tenuto prigioniero e ucciso
alla prima persecuzione utile.
Il fatto è che c’è censimento e censimento; a
David fu rimproverato il suo perché era fatto
solo per sapere di quanti uomini armati egli disponesse per la guerra,
la Schindler list servì a salvare quanti più Ebrei dai lager, le liste
anagrafiche sono usate spesso per escludere i poveri e negare il permesso agli stranieri, le mailing
list rubate sul web servono ad ammassare consumatori.
Il
censimento da fare oggi è invece sacrosanto, per la prima volta si deve fare in
tutta la Terra per raggiungere tutti gli uomini e le donne di cui è preziosa la
vita minacciata dal virus. Poveri e ricchi, come ha detto il papa, che il
mercato sia d’accordo o no. Questo è stato il messaggio di Natale: “Gesù, è ‘nato per
noi’: un noi senza confini, senza privilegi né esclusioni”. Contro il virus
dell’individualismo, ha detto il papa, vaccini per tutti. “Non posso mettere me
stesso prima degli altri, mettendo le leggi del mercato e dei brevetti di invenzione
sopra le leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Chiedo a tutti: ai
responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali, di
promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per
tutti: vaccini per tutti, specialmente per i più vulnerabili e bisognosi di
tutte le regioni del Pianeta. Al primo posto, i più vulnerabili e bisognosi!”
Mai c’è stato, in tutto il messaggio natalizio, una distinzione
tra chi fosse cristiano e chi cristiano non è, mai un minimo indizio che il
papa pensasse ai “suoi”, o almeno ai credenti, e non a tutti. Queste “luci di
speranza”, come egli ha chiamato i vaccini, “devono stare a disposizione di
tutti”. Ormai il papa, che è conosciuto come il capo di una “cristianità”, sa
di non essere mandato a una parte, a una selezione, a una Chiesa, sa che la sua
udienza è per tutti, anche quando in piazza san Pietro o nell’Aula delle
Benedizioni non c’è nessuno, in odio al contagio; ma sa anche perché, sa perché
l’udienza deserta diventa comunione
universale. La ragione è antica, ma la
sua presentazione è nuova, mai si è predicato così, questa è la riforma della
Chiesa e anzi delle religioni: è che il Padre ha reso tutti fratelli, tutti figli nel Figlio: “grazie a
questo Bambino, tutti possiamo chiamarci ed essere realmente fratelli: di ogni
continente, di qualsiasi lingua e cultura, con le nostre identità e diversità,
eppure tutti fratelli e sorelle”; ma, ha aggiunto il papa, deve essere “una fraternità basata sull’amore
reale, capace di incontrare l’altro diverso da me, di con-patire le sue
sofferenze, di avvicinarsi e prendersene cura anche se non è della mia
famiglia, della mia etnia, della mia religione; è diverso da me ma è mio
fratello, è mia sorella. E questo vale anche nei rapporti tra i popoli e le
nazioni: fratelli tutti!”. Anche se non è della mia religione. E se la
fraternità non arriva a tutti, perché si ferma sulla porta di Caino, occorre
andare oltre e riconoscere l’altro come prossimo, e qui non ci sono più
frontiere perché il prossimo, come lo identifica Isaia e poi il Samaritano fino
all’enciclica “Fratelli tutti”, è colui
che è “della mia stessa carne”: “una caro”,
come tra l’uomo e la donna. L’unità umana, voluta dal Padre, scende dalle
alture spiritualistiche, si fa nella carne.
Perciò il vaccino deve essere per tutti: ma può esserlo solo come
un bene comune, come l’aria, l’acqua, il sole, non una merce che produrrebbe
ricchezze sconfinate a pochi, e lascerebbe fuori milioni di censiti in tutta la
Terra. Il papa ha osato dirlo, attentando al principio supremo del profitto, e
subito il Corriere della Sera col suo
Ernesto Galli della Loggia ha superato ogni remora, ha decretato che la Chiesa
è finita, col suo Francesco non andrà
lontano, non ha più ragione di esistere.
Per contro proprio a questo dovrebbe provvedere una Costituzione
della Terra che riconosca il diritto universale alla salute e lo munisca di
garanzie e di istituzioni operative efficaci. Se ci fosse voluta ancora una
prova per dimostrare quanto questo nuovo passo della civiltà e del diritto sia
necessario ed urgente, la pandemia l’ha fornita. Ma intanto, mancando ancora tali istituzioni, la
fornitura dei vaccini a tutti deve avvenire per decisione unanime degli attuali
poteri economici e politici. Lo faranno?
Anche se questo accadrà, quando l’ultimo vaccino sarà stato portato
dall’esercito, resteranno da raggiungere le persone reali, non un corpo che
scompare dal video, non un viso travisato da una maschera, non un distanziato
sociale, ma un volto da riconoscere, da carezzare, da amare.
ALLARME PARLAMENTO
Mentre siamo tutti immersi in
questo tempo di Natale nel dolore personale e collettivo della pandemia a cui
giustamente sono rivolte tutte le
attenzioni e discussioni, non possiamo
passare sotto silenzio una notizia che sembra gravida di cattivi presagi e
pericoli per il futuro. Si tratta del pericolo che corrono le nostre
istituzioni è in modo specifico il Parlamento. Per due giorni di seguito al
Senato abbiamo assistito a un ricorso alla violenza fisica per impedire che esso
adempisse al suo compito e che il governo mettesse la fiducia sul decreto legge
che modificava (senza peraltro ahimé
abrogare) i decreti Salvini contro i migranti.
La nostra esperienza ci rende
molto avvertiti nel riconoscere i segni e cogliere i sintomi del fascismo, e sappiamo che la manifestazione
più chiara e minacciosa della sua identità sta nella volontà di impedire con la violenza l'attività
parlamentare e distruggere lo stesso Parlamento. Purtroppo in Italia il
Parlamento è da tempo sotto schiaffo per una serie ripetuta di azioni
demolitrici e infamanti nei suoi
confronti: dall'attacco ai parlamentari bollati come casta, alla diffamazione
del reddito del loro lavoro, qualificato
come furto e se differito dopo il
mandato dileggiato come “malloppo”, dalla proposizione di referendum devastanti e addirittura distruttivi del
Senato, per fortuna falliti. a quella di un referendum (questo purtroppo riuscito) volto a dimezzare
il numero dei parlamentari, forse come
prima fase di una desiderata integrale bonifica soppressiva.
In seguito all'esito di
quest'ultimo referendum la rappresentanza parlamentare in carica, vittima apparentemente di pulsioni
suicide, si è affrettata a varare la
nuova configurazione dei collegi elettorali per rendere immediatamente
possibili le elezioni senza però modificare la legge elettorale rimasta
seccamente maggioritaria e tale da snaturare ancora di più e svilire la
rappresentanza. Falcidia dei parlamentari, nuove circoscrizioni elettorali e
legge maggioritaria formano infatti un
composto destinato a produrre con alta probabilità una maggioranza assoluta
delle forze anti parlamentari anti europee e sovraniste della destra. Gli eventi
di questi giorni in Senato hanno per l’appunto mostrato la presenza nell'opposizione
parlamentare di larghe frange fasciste, giunte a compiere azioni squadristiche
all'interno dell' emiciclo parlamentare e capaci di egemonizzare e farsi
seguire da altre forze dell'opposizione che fasciste non sono. Ciò può avvenire
anche nel futuro Parlamento.
È dunque necessario riconoscere uno stato di
allarme e di pericolo per il Parlamento e la nostra democrazia rappresentativa. Sarebbe
paradossale che nel momento in cui si cerca di promuovere una Costituzione e
una regola democratica per la convivenza mondiale perdessimo la democrazia e il Parlamento in
Italia.
Ma non possiamo fermarci qui. Quello
che è accaduto e di cui la pandemia è stata l'elemento catalizzatore e
rivelatore è che la povertà e l’incultura
della destra all’opposizione e di gran parte delle stesse forze di maggioranza hanno fatto sì
che esse anziché fare della crisi sanitaria e globale l'occasione di un
profondo rinnovamento come da tutti auspicato se non addirittura previsto, abbiano invece agito con grettezza gettando
tutto nel crogiuolo della competizione per il consenso ed il potere. È evidente
che questa grave situazione non può restare senza risposta da parte di chi
intende salvaguardare la democrazia e le istituzioni per metterle al servizio
di grandi progetti e ideali di vita associata non solo per il nostro Paese ma
per l'intera comunità mondiale. A questo fine sono certo utilissime le
iniziative che stanno fiorendo da varie parti per elaborare progetti e indicare
percorsi di rinnovamento politico, ecologico ed economico-sociale. Tuttavia in
molti di questi tentativi si può vedere un limite che consiste nella
sottovalutazione del problema di chi detiene il potere e in una snobistica
presa di distanza da un coinvolgimento
nelle alternative durissime in gioco nelle prossime scadenze elettorali. Eppure è proprio lì che la democrazia si
conserva o cade.
Non a caso la più vistosa
espressione dell’attacco della destra al Parlamento si è avuta in occasione del voto
per la riforma dei decreti Salvini. Hanno avuto buon gioco i leghisti
nell'accusare i 5 stelle di avere anch'essi a suo tempo votato quei decreti. Ma appunto si trattava di una lesione
gravissima dei principi democratici di cui è legittimo e altamente meritorio
ravvedersi. La questione del rapporto con la tragedia dei migranti è diventata
in effetti la cartina di tornasole della qualità di uno Stato di diritto e di una
comunità nazionale democratica. Né si
deve pensare che la prova sia superata nel momento in cui i migranti vengono
soccorsi raccolti dalle acque e fatti sbarcare. La vera espressione di uno Stato
democratico e di una comunità accogliente sta nel modo in cui i nuovi arrivati
vengono ricevuti, provvisti di un tetto, immessi nel lavoro e integrati in una
convivenza accettabile. Questo è ben lontano dell'avvenire. E perché la
questione dei migranti non resti confinata
nelle statistiche che ignorano le
persone reali, è bene leggere alcune
brevi biografie di ordinario sfruttamento di lavoratori stranieri inseriti nel
sistema dei lavori agricoli e vittime di caporali e di mafie, tratte da una
inchiesta coordinata da Francesco Carchedi per il sindacato Flai-CGI. Si
possono trovare sul sito www.costituenteterra.it e sul sito www.chiesadituttichiesadeipoveri.it , che hanno
cominciato a pubblicarle a partire dalle storie raccolte in interviste sul
campo nel civilissimo Veneto.
RITORNO ALL’UMANO
C’è una buona notizia che può diventare il preannunzio di un mondo diverso,
umano. La seconda cosa che farà il presidente Biden una volta insediato alla
Casa Bianca, sarà di bloccare la costruzione del muro al confine col Messico e mettere
fine al "travel ban" (divieto di ingresso) da alcuni Paesi musulmani
negli Stati Uniti, voluto dalla presidenza inumana di Donald Trump.
Ci sarà anche il blocco dei rimpatri forzati per almeno cento giorni e
l'istituzione di una task force per riunire le famiglie di immigrati. Insieme
al segretario per l'Homeland Security Alejandro Mayorkas, il primo ispanico a
ricoprire quel ruolo, Biden invierà poi al Congresso una legge che indichi un
percorso di cittadinanza per 11 milioni
di immigrati irregolari e un provvedimento per rafforzare il programma per i
Dreamer (migranti entrati negli Stati Uniti illegalmente quando erano bambini).
La prima cosa invece che Biden farà (sta già facendo) è la lotta contro la
pandemia di coronavirus, mediante l’abbandono delle mendaci politiche
negazioniste e un attivo intervento di prevenzione e di cura.
La buona notizia consiste soprattutto nel fatto che la
seconda cosa viene insieme alla prima. Essa dice che non si può combattere e
vincere la malattia pandemica che colpisce indiscriminatamente tutta l’umanità,
se nello stesso tempo non si combatte e non si ripudia la politica che
discrimina respinge e distrugge volutamente una gran parte di questa stessa umanità
nel momento della sua massima debolezza, che è quello della migrazione, della
fuga, dello sradicamento, ma è anche l’inverosimile momento della speranza,
nonostante tutto, in una futura vita migliore.
Lotta alla pandemia e lotta alla negazione dei diritti,
al rifiuto dell’accoglienza e dell’asilo sono una cosa sola, l’una non riesce
senza l’altra, perché il mondo è uno. Se cade sui confini del Messico un muro
più vergognoso del muro di Berlino, non può che seguirne lo stesso esito che
ebbe la rimozione , sacrosanta, del muro
in Europa: come allora ne seguì inevitabilmente la riunificazione della
Germania, così oggi al blocco della costruzione del muro tra il Nord e il Sud
dell’America deve seguire la riunificazione del mondo, cioè il riconoscimento
del fatto (almeno alla speculazione
finanziaria già noto) che l’umanità è una, uno solo è il soggetto multilingue
innumerevole e meraviglioso che abita la Terra. E perciò il ritorno
dell’America a pratiche di umanità e di mitezza (papa Francesco non ha
predicato invano) può voler dire un cambio di passo: non solo quel muro deve
cadere, ma tutti i muri che frantumano
il mondo e che sono il vero distanziamento sociale che lo porta alla crisi e
alla fine.
Questo vuol dire allora che adesso i primi chiamati ad
abbattere i loro muri di apartheid, di frontiere e porti chiusi e di sfruttamento
in patria della manodopera straniera sans papier e senza diritti, sono i Paesi europei che hanno adottato politiche
di esclusione e di persecuzione, illudendosi
di chiudersi nella loro isola di felicità. Mentre l’Europa dimostra una
nuova sensibilità nel rispondere alla crisi del Covid 19, il vero MES, la vera
questione aperta, è che, al di là dell’emergenza attuale, l’Europa accetti
l’unità col mondo, l’unità con l’altro, con i fuggiaschi e con i poveri,
l’unità che consiste nell’essere tutti prossimo l’uno all’altro. E che
nell’unità stabilisca un nuovo patto con la Turchia e con Israele; perché anche
per loro non ci siano più popoli negati, armeni, siriani, palestinesi che siano,
che anche quei muri siano rimossi, eretti perfino nella città del Natale. Comincerebbe da qui il mondo nuovo, il mondo governato
da una Costituzione della Terra, nostro
progetto e speranza.
L’ENIGMA? I POVERI
Il sito “ChiesadituttiChiesadeipoveri” ha pubblicato
una recensione critica, per quanto assai gentile, di Vittorio Bellavite,
coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, a un libro di Massimo Franco che dà per
consumata nell’insuccesso la cosiddetta “parabola” del pontificato di
Bergoglio.
Come nota la
recensione, più che di un libro, di cui si riconosce peraltro la ricca
informazione, si tratta di un’operazione editoriale e culturale di grande
portata che il “Corriere della Sera”, giornale a cui Massimo Franco appartiene,
ha compiuto distribuendo il libro insieme al quotidiano nelle edicole e
cercando di far passare nel pubblico l’idea inquietante di un “enigma
Bergoglio”, come ai tempi di papa
Giovanni XXIII si parlò, ma con ben diversa intenzione, di un “mistero
Roncalli”.
Il nostro
riferimento a papa Roncalli non è
casuale, perché anche nei confronti di quel papa il “Corriere della Sera” si
produsse in un’azione demolitoria, che quella volta fu affidata a un altro
giornalista di rango, Indro Montanelli, che si prestò a dar voce alle posizioni
antigiovannee della Curia di allora, anche se poi scrisse di essersene pentito.
Resta da
chiedersi che cosa ci sia di così grave, nell’uno e nell’altro, il Roncalli
della “Pacem in Terris” e il Bergoglio della “Fratelli tutti”, per cui un
giornale “moderato” (inteso come virtù) e generalmente conosciuto come fautore
di legge e ordine, attacchi, fino a desiderarne la caduta, due papi così
popolari per la loro bontà e mitezza. Non deve trattarsi di un allarme
suscitato dalla loro insistenza sulla Trinità, rimessa al centro del messaggio
cristiano, perché è improbabile che osservatori esterni che non entrano nella
logica di ciò che giudicano, colgano la portata rivoluzionaria di una fede
inclusiva che ricapitola tutto nella
misericordia del Padre. E allora perché?
La domanda
potrebbe essere trasferita dal giornale alla borghesia, lombarda o padana, che
esso rappresenta o pensa di interpretare. Che è come chiedersi perché ce
l’hanno con papi come Roncalli e Bergoglio quel genere di personaggi che un
mitico polemista dell’”Unità”, Fortebraccio, chiamava “Lorsignori”, o quei
prepotenti tanto numerosi da non poterli chiamare per nome, che a Milano
discendono in linea retta da quell’ Innominato, non ancora convertito,
raccontato dal Manzoni.
Che cosa
hanno in comune di sgradevole, per
questi signori, questi due papi (e solo loro, gli altri “santi subito!”)? Quello che hanno in comune è che sono dalla
parte dei poveri. Papa Giovanni aprì il Concilio dicendo di volere una “Chiesa
di tutti e soprattutto dei poveri”: e ha ragione di ricordarlo il sito che
proprio da questo ha preso il suo nome. E Francesco ha aperto il suo
pontificato dicendo: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Non
la vuole affatto invece quella piccola borghesia minuta,
formalista, credente della domenica, sparsa un po' ovunque in Italia, che si
sente anch'essa minacciata nelle sue piuttosto recenti conquiste economiche e
sociali dai poveri, soprattutto dai poveri non italiani.
La conferma,
che di questo si tratta, viene da un altro giornale che su papa Francesco ha un diverso
atteggiamento, “La Repubblica”, che ieri, sabato 14 novembre, riferendo di un
sondaggio di Demos secondo il quale tra il 2016 e il 2018 la popolarità di
Francesco sarebbe leggermente diminuita, dall’82 al 72 per cento, ne
attribuisce la causa al sostegno dichiarato e ripetuto di Francesco a favore
dei “poveri del mondo”, in particolare gli
immigrati che varcano i nostri
confini.
Dunque
questa è la soluzione dell’ “enigma”: papa Francesco, come già papa Giovanni,
non piace alla borghesia perché. a dover scegliere, essi scelgono la parte dei
poveri.