venerdì 29 marzo 2013

IL MESSAGGIO E’ IL FINE di Raniero La Valle


Un governo ci vuole. Ma intanto la cosa da fare, fino a quando il nuovo presidente della Repubblica con tutti i suoi poteri, compreso quello di sciogliere le Camere, potrà rimettere in marcia la politica nazionale, è di legiferare. Non è affatto vero che senza un governo in piena funzione le Camere non possono fare le leggi: il loro è un potere autonomo, e anzi sarebbe bene che finalmente si legiferasse non per via di decreti-legge fatti dal governo, ma con leggi veramente generate dal Parlamento. Per questo occorrerebbe che tutti i gruppi parlamentari si mettessero alla stanga, che lavorassero sei giorni alla settimana e in pochissimo tempo dessero al Paese le leggi di cui il Paese ha urgente bisogno, e che non è qui il caso di ricordare. Come hanno scritto i “Comitati Dossetti” ai parlamentari del centrosinistra esortandoli a questa scelta, ben prima che Grillo ne proponesse una variante sovversiva (“meglio stare senza governo”) ciò “farebbe per la prima volta del Parlamento il luogo privilegiato e più d’ogni altro visibile della politica e della vita democratica”.
Ma intanto bisogna pensare a che cosa veramente è successo  Con il gran rifiuto del Movimento 5 stelle ad adottare un’etica di responsabilità verso il Paese, la Prima Repubblica veramente finisce. Non finì quando squadre di guastatori e di untori tolsero di mezzo la sinistra, ripudiarono le preferenze, licenziarono la proporzionale, imposero il bipolarismo, irrisero all’unità nazionale, intronizzarono il danaro, prostituirono la politica e incapsularono il potere del popolo sovrano nel potere d’acquisto del nuovo sovrano del popolo. Nonostante tutto, per venti anni le istituzioni hanno retto alla sfida. Adesso la devastazione è compiuta. Il riso beffardo di Berlusconi che, con o senza occhiali neri, assapora la sua vendetta contro tutto il sistema politico che aveva osato denunciarlo e deporlo, è la maschera tragica che deturpa il volto della Repubblica nell’ora della sua agonia. E non importa se questa vendetta ancora una volta è stata propiziata da una corruzione: perchè tale è stata la promessa che l’ex premier, mettendo le mani nelle casse dello Stato, aveva fatto agli elettori di una immediata dazione in denaro contante da 200 a 1000 euro a ciascuno corrispondenti all’ammontare dell’IMU pagata nel 2012. Senza questa corruzione – e la complicità dei corrotti: “il corrotto non ha amici, ma complici”, aveva detto Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires - la destra sconfitta, e data per finita nei sondaggi,  non avrebbe avuto nessuna rimonta e non potrebbe oggi cantare vittoria contro i democratici.
La Repubblica finisce per la crisi di tutte le sue istituzioni. Se ne dovrebbe fare l’analisi, ma qui ci limitiamo a solo quattro titoli.
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mercoledì 20 marzo 2013

Il pontefice del sogno conciliare



(dal Manifesto 20/03/2013)

Non ha fatto il “discorso dell’incoronazione” come si diceva una volta del Papa che salendo sul trono enunciava il programma del suo pontificato; e non lo ha fatto semplicemente perché non c’è corona e non c’è trono, di cui sono ormai caduti anche gli ultimi orpelli. Non che il successore di Pietro, ha detto Francesco nella sua omelia, non riceva con la sua elezione anche un potere; ma è il potere di pascere, cioè soprattutto di nutrire, e custodire, il gregge di Dio, fino a dare la vita per lui; e questo potere non si può declinare in nessun altro modo che come servizio.
Messe così le cose, papa Francesco non ha voluto fare del suo discorso in piazza San Pietro, dinanzi a una comunità diocesana sempre più pronta all’ascolto, dinanzi a fedeli giunti da tutto il mondo, dinanzi al Patriarca di Costantinopoli, ai vescovi ed esponenti di molte Chiese e ai potenti della terra, il “pezzo forte” di questi primi giorni del suo pontificato. Ha fatto semplicemente l’omelia della Messa. Ha spiegato il Vangelo, raccogliendo idealmente la consegna del suo predecessore, Giovanni XXIII, che nel “Giornale dell’anima” aveva scritto: ”Al di sopra di tutte le opinioni e i partiti, che agitano e travagliano la società e l’umanità intera, è il Vangelo che si leva. Il Papa lo legge, e coi vescovi lo commenta…” e che morendo aveva detto: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio…” .
Tra le cose che cominciamo a comprendere meglio, ce ne sono due profondissime che Francesco ha voluto dirci. La prima è che dobbiamo custodire la terra, con tutte le sue creature. E questo lo aveva capito anche San Francesco. Ma questa custodia precede l’essere credenti di qualsivoglia religione, è un compito dell’umanità come tale, il che, nella cultura di un papa vuol dire che Dio ha messo l’opera delle sue mani nelle mani degli uomini e delle donne come tali, e non solo di quanti credono in lui. Il mondo precede la Chiesa.
E la seconda cosa è che bisogna non avere paura dell’amore e della tenerezza che lo esprime. Come mai, per prima cosa, il nuovo papa ha fatto questa esortazione che sembra così bizzarra? Noi abbiamo paura della cattiveria, dell’odio, delle divisioni, delle minacce, dell’inimicizia da cui cerchiamo di difenderci in tutti i modi, ma chi ha mai pensato che si potesse avere paura della bontà, dell’amore? Invece è proprio così. Moltissimi ne hanno paura. Perché l’amore è un lavoro, un cimento, l’amore va osato. Esso non è un dono innocuo. Ti mette in questione, ti impegna, ti cattura, ti cambia. E siamo in molti che non vogliamo essere cambiati. Cambiare è una fatica. Cambiare abitudini forse è facile. Cambiare vita è ancora possibile. Ma cambiare mente – che è poi una conversione -  è la cosa più difficile. Così queste parole di papa Francesco ci rassicurano, perché vuol dire che conosce l’animo umano.
In tal modo si sta completando il disegno di quello che potrà essere questo pontificato. Il sogno di una Chiesa povera e per i poveri lo ricollega al sogno di una “Chiesa di tutti e specialmente Chiesa dei poveri”, che papa Giovanni proclamò nel suo radiomessaggio un mese prima del Concilio. Si tratta di un sogno, non di un progetto che il papa può eseguire, perché non basta un papa a fare la Chiesa. La vera povertà, non nel senso pauperistico o dei rigorismi petulanti degli zelanti, ma nel senso della spoliazione dalla “mondanità spirituale”, non è un papa da solo che la può dare alla Chiesa, è tutta la Chiesa, ognuno per la sua parte, che la deve abbracciare. Certo il Papato deve metterci del suo, perché nella riforma della Chiesa è necessaria anche un’autoriforma del Papato, che in tutto il secondo millennio aveva tentato di costruirsi come il supremo potere terreno, dalla rivendicazione di Gregorio VII del potere di deporre imperatori e vescovi, alla lotta antimodernista di Pio X; ed è a causa di questo che la Chiesa ha mancato il suo appuntamento con la modernità, e si è trovata in una situazione critica di autismo e di incomunicabilità con gli uomini del nostro tempo. Per questo si fece il Concilio del Novecento; da allora sono passati cinquant’anni nei quali quel Concilio ha subito una sorta di quarantena e ha conosciuto i conflitti, le mormorazioni, le infedeltà, le frustrazioni di una traversata nel deserto.
Però questo tempo che ci separa dal Concilio non è stato vissuto nello stesso modo nelle stanche Chiese europee e nella Chiesa dell’America Latina, che è la Chiesa di mons. Romero, della teologia della liberazione, di padre Ellacuria e degli altri 47 gesuiti caduti sotto la violenza per la loro testimonianza alla fede, la Chiesa dei contadini poveri che si “coscientizzavano” leggendo il vangelo sotto gli alberi, senza neanche un prete,  la Chiesa che talvolta è stata debole nella fede e nella resistenza ai tiranni, ma che ha prodotto quella straordinaria preghiera di pentimento e di denuncia della “violenza contro le libertà, nella tortura e nelle delazioni”, che il vescovo Bergoglio ha fatto pronunciare il 10 settembre del 2000 a tutti i vescovi argentini.   
Ma ora un tempo finisce, e un altro comincia. Ed ecco vediamo che l’arco di tempo che ora si chiude, poggia su due pilastri identici, che si richiamano e si confermano l’un l’altro, e sono i pilastri del privilegio dei poveri: la Chiesa dei poveri invocata da Giovanni XXIII, la Chiesa povera e per i poveri sognata da papa Francesco. Si tratta del sogno di un nuovo destino per i poveri di tutta la terra che non solo un papa, non solo una Chiesa, non solo i grandi presenti a quella messa, ma tutti i custodi, non impauriti dall’amore, sono chiamati a realizzare.
                                                                                                              Raniero La Valle
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domenica 17 marzo 2013

UN VESCOVO DELL’ALTRO MONDO?


Chiamatemi Francesco

E che cos’altro deve essere un papa se non un confessore della fede? Questo ha detto Francesco nella sua prima omelia ai cardinali nella cappella Sistina: di essere tutti lì, vescovi, preti, cardinali, papa, per nient’altro che per professare la fede in Cristo, e questo crocefisso. Ed ecco allora che si scompaginano tutte le previsioni e le speculazioni della vigilia, su ciò che avrebbe scelto il Conclave, se un papa dell’una o dell’altra fazione della Curia, se un papa diplomatico o politico, uno che avrebbe riportato la disciplina nel clero o che avrebbe risolto il problema dello IOR. Ecco che arriva un papa che di fronte a una Chiesa tormentata ed in crisi, e dopo tante riforme sognate e fallite dice: ricominciamo dalla fede.
Ed allora si capisce perché si è presentato al balcone non come il nuovo Sommo Pontefice dato al mondo, ma come il nuovo Vescovo dato alla comunità diocesana di Roma, si capisce perché ha indicato, come suo primo collaboratore, il cardinale vicario di Roma e non il segretario di Stato; si capisce perché al papa che lo aveva preceduto si è rivolto come al “vescovo emerito” di Roma, e si capisce perché prima di benedire il suo popolo, ha chiesto al suo popolo di benedirlo, e si è inchinato davanti a lui: un gesto che poteva pure essere mostrato per televisione in tutto il mondo, ma che raggiungeva la sua verità solo in quel silenzio, in quel guardarsi, in quel rapporto fisico immediato, in quella piazza, in quella città, del vescovo con i fedeli della sua Chiesa. Perché se il problema è la fede, ebbene la fede ha bisogno di un rapporto tra le persone, reale e non virtuale, ha bisogno di gesti condivisi e comuni, non si può trasmettere per procura, o riempiendo piazze straniere e fuggendo subito dopo, o scrivendo libri ed encicliche. Certo, anche Paolo scriveva le lettere. Ma poi andava a visitare e a confermare le Chiese, e per tornare a Gerusalemme ci ha messo quattordici anni. Per questo il papa non è un vescovo titolare dell’universo mondo, ma è il vescovo di Roma, ed è mediante tale Chiesa che presiede nella carità alle altre Chiese.
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venerdì 15 marzo 2013

CHIAMATEMI FRANCESCO


dal Manifesto 15 marzo 2013

Un papa che si fa chiamare Francesco suscita prima di tutto un moto d’incredulità: no, non è possibile che sia un Francesco. Infatti nessun papa prima si era fatto chiamare così, e ciò perché a partire da quando era ancora in vita Francesco d’Assisi, Francesco e il papa hanno rappresentato due archetipi, due figure diverse dell’essere cristiano. Da quando il papa, a partire dalla “rivoluzione papale”  dell’XI secolo, è stato costruito dalla tradizione romana come sostituto di Dio e supremo signore terreno, a cui dovesse essere “sottomessa ogni umana creatura”, nessun successore di Pietro avrebbe potuto osare chiamarsi Francesco.
Non era solo questione di un Francesco povero e di un papa ricco. Era questione che la povertà di Francesco era teologale, era il Vangelo stesso “sine glossa”, che raccontava di un Dio che da ricco si era fatto povero, di un onnipotente che si era fatto servo, di un eterno che era finito crocefisso. Le insegne imperiali ereditate da Costantino e ancora presenti nella mozzetta rossa fino a ieri indossata dal papa, erano invece il simbolo di un potere terreno sublimato in potere religioso, che non poteva essere affare di un papa per il quale Francesco fosse non solo un nome, ma una scelta e un programma.
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giovedì 14 marzo 2013

E' morta Teresa Mattei


E' morta a 92 anni anni, Teresa Mattei.
Ho conosciuto Teresa Mattei e ho fatto un comizio con lei a Pisa nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del giugno 2006, quando la destra berlusconiana voleva far scempio della Costituzione e non vi riuscì. Teresa Mattei aveva già 85 anni, ma la Costituzione la voleva difendere, perché ne era madre; era stata a 24 anni deputata comunista alla Costituente, una delle ventuno donne sui 556 deputati che avevano fatto parte di quell’assemblea.
Era la più giovane di tutti, e per questo Vittorio Emanuele Orlando che, essendo invece il più anziano, aprì la prima seduta del 25 giugno 1946 (“L’Italia non ha ancora finito di essere l’Italia – disse – e come italiani noi abbiamo ancora qualche compito assegnato a noi nella storia del mondo”) la chiamò a salire sugli scranni alti come segretaria di Presidenza. In questa veste, con una delegazione dell’Assemblea, il 27 dicembre 1947 presentò al Capo provvisorio dello Stato il testo della Costituzione da firmare: “una ragazzina – come ricorda – che per la foto con De Nicola alla consegna della Costituzione aveva addosso il vestito di sua madre e le scarpe scalcagnate”.
I deputati alla Costituente, nell’Italia povera del dopoguerra, erano infatti poveri; per questo ad esempio – e fu una benedizione – i cosiddetti “professorini” – Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira – non potendo permettersi altro, andarono a vivere tutti insieme nella casa delle signorine Portoghesi in via della Chiesa Nuova 14, formando quel singolare sodalizio che si chiamò poi, per celia, “comunità del Porcellino”. Che restassero poveri, ci aveva pensato la stessa Teresa Mattei, perché come segretaria della Presidenza fu tra quelli che dovevano stabilire i criteri per lo stipendio dei costituenti. Insieme con Giuseppe Di Vittorio andò allora su una vecchia macchina della CGIL in giro per fabbriche ed uffici per vedere quale fosse il salario medio degli operai e degli impiegati di allora, e propose che per non allontanarsene l’indennità parlamentare fosse di 42.000 lire al mese. Questa proposta non fu molto popolare tra gli onorevoli e alla fine – ma con non minore sobrietà – il salario dei deputati fu fissato a 80.000 lire.
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venerdì 1 marzo 2013

GESTI MODERNI DI UN PAPA ANTICO


di Raniero La Valle - (dall’Unità del 1 marzo 2013)

 Il Papa che ieri sera se ne è andato modernamente in elicottero, secondo il medievalista Jacques Le Goff, ha compiuto con le sue dimissioni un gesto di rifiuto della modernità. Abdicando egli se ne è ritirato, quasi a dire che la Chiesa non è compatibile con la modernità se non al prezzo di snaturarsi, o che in ogni caso egli non aveva più le forze come papa di reggere la sfida di un’età moderna da lui globalmente inscritta nel girone del relativismo. Se questo era il suo giudizio, se questo era il problema che egli voleva lasciare aperto alla Chiesa, giustamente se ne è andato: perché un papa deve essere contemporaneo alla sua Chiesa, non può essere amoderno o premoderno. Un papa del terzo millennio non può prendere in mano una Chiesa  a cui consideri avversi i “segni del tempo”, e guidarla come se il Concilio non ci fosse stato, o peggio come se esso avesse devastato la Chiesa attraverso la manipolazione dei media, come ha sostenuto nell’ultimo suo discorso al clero romano.
Il disagio del Prefetto Ratzinger prima, e del Papa Benedetto poi, rispetto al Concilio Vaticano II, la contraddizione irrisolta che forse lo ha portato all’abbandono, si sono giocati proprio sul rapporto del Concilio con la modernità. Il Papa ha riconosciuto nel suo primo discorso alla curia del Natale 2005,  che su quel punto nel Vaticano II si era prodotta una vera discontinuità; ma questo riconoscimento entrava in conflitto con lo schema dell’interpretazione del Concilio sotto il segno della continuità, contro l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che in quello stesso discorso Benedetto XVI prescriveva come unico canone di interpretazione ammissibile.
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