giovedì 18 luglio 2013

Dal foglio e dalla matita

di Raniero La Valle
Se l'Italia è ancora un Paese normale, se la magistratura non è politicizzata, se la Cassazione non è più quel "porto delle nebbie" che fu durante il regime democristiano e se la legge è uguale per tutti, il 30 luglio la Suprema Corte confermerà il verdetto pronunciato nei primi due gradi di giudizio contro Berlusconi. Non che la Cassazione condanni Berlusconi: essa dirà che il suo processo è stato regolare, che i suoi giudici sono stati fedeli al diritto. Non ci sarebbe nulla di strano e sconvolgente: è quello che la Cassazione fa in una miriade di altri casi, e l'argomento che questa volta il reo può vantare otto milioni di voti (che del resto non sono suoi ma della destra), non è un argomento migliore di quello per cui Mussolini poteva contare su otto milioni di baionette per vincere la sua personale guerra contro le grandi democrazie.
Dunque se questa ipotesi si avvera, con la sentenza della Cassazione passerà  in giudicato il fatto che quel capo politico che aveva promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani, ha loro sottratto milioni di euro di tasse trafugate, e quel che è peggio -sul piano non giudiziario ma politico - dopo vent'anni della sua cura li lascia non solo spogliati e impoveriti, e con un debito pubblico giunto a 2074 miliardi, ma anche frastornati e incapaci di reagire.
Sarebbe, questa, la fine politica di Berlusconi, causata non dalla magistratura (che non crea i fatti, ma li rivela e ne "dice" il diritto, onde il nome di "giurisdizione"), ma causata da lui stesso, dalla sua sconfitta politica finalmente non graziata da mani amiche e non scongiurata da una profusione di denaro privato e pubblico, speso in corruzione  di giudici, di senatori, di personale politico e di cittadini elettori cui è stata più volte promessa la Caporetto del fisco in cambio dei voti (e il governo è ancora fermo lì, impiccato a un'IMU che non può né "restituire " né "superare").
È chiaro che questa fine politica di Berlusconi ci sarà fatta pagare, con scenate e pantomime di cui la recente vita politica italiana non è avara.
Ma sarà bene non indugiarvi troppo e passare subito all'opera più necessaria dopo il disastro: la ricostruzione. Non c'è da illudersi che sia facile, né si può pensare  che basti mettere mano al restauro della facciata della politica. Occorre ripartire dalle fondamenta, perché i guasti sono stati profondi. Istituzioni, partiti, fisco, culture, linguaggi, modelli etici, obblighi di verità, abitudini di rispetto reciproco e di convivenza, tutto è stato travolto da un imbarbarimento della lotta politica venduto come bipolarismo, dall'innalzamento del potere a unico altare, dalla divisione della società tra privilegiati ed esuberi, dalla globalizzazione della diseguaglianza prima ancora che dell'indifferenza.   
Si teme che il governo Letta non possa sopravvivere alla crisi; in realtà il suo venir meno sarebbe il primo passo della ricostruzione, che non può non partire dal ripudio di alleanze incestuose e dall'interruzione di quella congiura contro l'ordinamento costituzionale che ha già ottenuto il primo voto al Senato nel silenzio del Paese.
Ripartire dai fondamenti vuol dire prendere in mano un foglio una matita e un libro, come  Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana ferita dai Talebani perché andava a scuola, ha avuto il coraggio di dire rivendicando nella sede dell'ONU il diritto universale all'alfabetizzazione. Per noi ripartire da matita e libro vuol dire prendere in mano la Costituzione, perché è questa l'alfabetizzazione che ci manca. C'è anzi un analfabetismo di ritorno, perché nei giovani anni della nostra Repubblica la Costituzione è stata il sogno di una cosa, e insieme la grammatica per la realizzazione di quel sogno e di quella cosa. Perciò essa è stata odiata e combattuta dalla Trilaterale, dalla P 2, dalle agenzie di rating ed è oggi tenuta in forte sospetto dai poteri che coniano l'Euro, dalla Morgan e dai partiti, di ogni tradizione, divenuti funzionari della Ragione economica e della dittatura del tabulato. E a neutralizzare le nostre difese, ci sono piombati addosso i corsi di analfabetismo fondati sull'orrore per le "ideologie", ossia per le idee, sul rifiuto delle dottrine politiche, e ci sono state imposte le scuole serali delle TV (non solo quelle commerciali) con la falsa par condicio e i talk show e le tavole rotonde dove tutti hanno ragione e tutti hanno torto, ma il vero persuasore e "dominus"ideologico è il conduttore e l'editore che gli sta dietro.
Ripartire dal libro e dalla matita vuol dire ripartire dalla Costituzione e dai diritti, dal religioso rispetto per l'avversario, dal culto della politica esercitata "con disciplina ed onore", dalla conversione della mentalità e della cultura della polizia, il settore pubblico più esposto alla contaminazione del fascismo, dalla interdizione della tortura, delle espulsioni, dei respingimenti e dell'ergastolo, e da una restituzione a tutti del diritto e della gioia di guadagnarsi il pane col lavoro e di non pagare il prezzo della moneta scarsa, che per decisione politica dei grandi poteri sottrae ai cittadini la giusta partecipazione alla ricchezza della nazione.

                           Raniero La Valle
Continua...

lunedì 8 luglio 2013

LAMPEDUSA


di Raniero La Valle

Non era affatto facile andare a Lampedusa. L’aveva detto qualche giorno prima papa Francesco in un’omelia a Santa Marta, parlando dei modi per raggiungere Dio: non serve un corso di aggiornamento, aveva detto, “per toccare il Dio vivo bisogna uscire per la strada, andando a cercare, a trovare, ad accostarsi alle piaghe di chi è povero, debole, emarginato. Una cosa non semplice, né naturale”.
No, non era semplice, né naturale, come primo viaggio fuori diocesi prendere la strada del mare, solcare con i pescatori quelle acque divenute tomba dei poveri, spargervi i fiori della pietà, sbarcare al molo Favarolo, incontrare quei migranti, quei superstiti che per molti non dovrebbero nemmeno esistere: per le leggi dello Stato italiano, gestite da quel ministro degli interni che voleva andare a pavoneggiarsi a Lampedusa accanto al papa, si tratta di “clandestini”, contro cui è in corso “una lotta”, per gestire la quale è stata creata apposta una “direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera”; si tratta di gente che viene ad arenarsi sul bagnasciuga di quell’ultimo lembo di terra su cui l’Europa è attestata per difendere il suo privilegio, si tratta di profughi, del popolo delle barche, di disperati che fuggono i tormenti dei loro Paesi, che si affidano al ricatto dei battellieri, che si aggrappano a un gommone, e che se sopravvivono sono salvati per essere tradotti in quei campi di detenzione che prima abbiamo chiamato “centri di permanenza temporanea” e poi, con la chiarezza tipica del linguaggio della Lega, “centri di identificazione e di espulsione”: i respingimenti, altro che andare a baciare le piaghe del povero.
Perciò ha fatto bene il papa a non volere né governo, né ammiragli, né altre autorità  a far da corona alla sua trasferta; non solo perché i viaggi papali devono tornare ad essere visite pastorali di un vescovo, e non visite di Stato e vetrine di potenti, ma anche perché noi e il nostro Stato non siamo innocenti di quelle vittime e di quelle piaghe.
Ma che sta facendo il papa? Sta cambiando il papato e di conseguenza, data l’invasività di questa istituzione, sta cambiando la Chiesa, prima ancora di metter mano alla sua riforma. E lo fa rendendo visibile il Vangelo; questa è la sua specificità o, se si vuole, il suo carisma; altri predicano il Vangelo, ne fanno l’esegesi; quello che fa Francesco è che il Vangelo ce lo fa vedere. Ce lo fa vedere a Roma, ce lo fa vedere a Lampedusa. Non è una novità, anche Gesù faceva così, e se uno era cieco, ecco che lo guariva perché vedesse anche lui. Ma nello stesso tempo quella che fa Francesco è una cosa modernissima: ha capito che la parola da sola non crea l’evento, è il gesto che porta la parola; l’icona non parla, ma rivela, il mezzo è il messaggio. Del resto proprio questo è lo statuto, “l’economia della rivelazione”, come la chiama la Costituzione “Dei Verbum”del Concilio: essa comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che gli eventi, operati da Dio nella storia della salvezza, manifestano e confermano le parole, mentre le parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
I “gesti” così ammirati di papa Francesco, da quel suo primo apparire senza orpelli e senza insegne al balcone di San Pietro, non sono le immagini del cambiamento, e le parole non ne sono la didascalia: sono essi il cambiamento, ne sono la teologia. Quando il papa dice, in quell’omelia a Santa Marta, che il Dio cristiano non possiamo trovarlo attraverso la strada della meditazione, e di una sempre più alta meditazione, e che anzi molti “si sono persi” in quel cammino; e nemmeno lo possono trovare quelli che per arrivarci pensano di essere “mortificati, austeri, e hanno scelto la strada della penitenza, del digiuno”; e nemmeno lo si trova facendo una fondazione filantropica, ma arrivi a Dio se trovi le piaghe di Gesù nel corpo – e sottolinea “il corpo” – “del tuo fratello piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale”o, possiamo ora aggiungere, perché sta nei “centri di espulsione” di Trapani o di Brindisi, papa Francesco trascende la legge dell’etica, della perfezione, della mortificazione, e rende visibile la fede.
Non a caso, nei giorni stessi in cui preparava il viaggio a Lampedusa, papa Bergoglio riprendeva l’eredità dell’enciclica sulla fede che aveva preparato Benedetto XVI, e la pubblicava col suo nome, in una nuova sintesi di cui è difficile dire che cosa sia di Benedetto che cosa sia di Francesco. Di certo la fede che balza fuori da questa enciclica non è la fede passata attraverso la glaciazione dell’ellenismo, ma è la fede del Concilio, inteso finalmente come “un Concilio sulla fede”, è la fede che non è solo professione di una verità, la quale da sola “diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”, ma è inseparabile dall’amore; è una fede che “non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro” e non guarda solo alla città futura, ma anche all’edificazione, alla preparazione “di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri”, dove si costruiscano la giustizia, il diritto e la pace. Anche a Lampedusa? Sì, se si crede, con l’enciclica, che “il Dio affidabile dona agli uomini una città affidabile”.
  Raniero La Valle

Continua...