lunedì 15 giugno 2009

La risposta

di Raniero La Valle (su "Rocca" n. 13)


Finalmente la risposta è arrivata. L’ecumene islamica aveva lanciato e chiesto un segnale di pace all’intero mondo cristiano, due anni fa, il 13 ottobre 2007; aveva detto, attraverso i suoi massimi sapienti, in una lettera indirizzata a tutte le Chiese cristiane, che senza la pace tra musulmani e cristiani, i quali insieme formano il 55 per cento della popolazione mondiale, il mondo non può vivere; che l’Islam non ce l’ha con i cristiani, purché essi non si mettano in guerra con i musulmani a causa della loro religione, non li opprimano e non “li privino delle loro case”; e come terrenocomune dell’incontro aveva messo non un dato di natura, accertabile mediante la ragione, ma l’amore di Dio e l’amore del prossimo, riconoscibili come veramente universali mediante la fede.
Era un documento bellissimo; ma anche quasi disperato, perché inerme di fronte a tutta la potenza di fuoco dell’America di Bush scatenata nella sua “guerra perpetua”, debole di fronte alle occupazioni illegali di terre e case arabe da parte di Israele col sostegno di tutto l’Occidente, utopico di fronte a un’Europa che con le sue culture alla Oriana Fallaci e le sue sbracature leghiste cercava nello scontro di civiltà la sua nuova religione civile.
Era però un documento sincero nell’aspettarsi una risposta cristiana; e qui su Rocca dicemmo che la risposta doveva essere comune, e non di ogni Chiesa per conto suo.
Ci sono state invece 66 risposte, di gruppi di base e dignitari di Chiese; c’è stata anche una risposta abbastanza formale del Vaticano, seguita dall’avvio di incontri tra delegazioni; ma fino al 4 giugno scorso una risposta alta, unitaria, credente e profetica non c’era stata.

Ed ecco che la risposta è venuta col discorso del Presidente degli Stati Uniti che dall’antica Università del Cairo, in uno straordinario intreccio di cultura, politica, storia e sapienza cristiana, è andato oltre ciò che era stato chiesto, per offrire “un nuovo inizio” nel rapporto con l’Islam e aprire il cantiere per la costruzione di un mondo finalmente unito.
È molto singolare che la risposta sia venuta da un capo politico, anzi dal capo dell’Impero d’Occidente. Ma viviamo tempi ultimi, e le cose sono più intrecciate di quanto pretendono le nostre filosofie e i codici di laicità dell’Occidente; le supplenze che una volta furono (e spesso vogliono continuare ad essere) delle Chiese rispetto alla politica, possono anche muoversi nella direzione inversa; e se tacciono le Chiese, e qualcosa è urgente da dire, va benissimo che parlino i laici. Anche Costantino era un imperatore, e non era neanche battezzato quando convocò il Concilio di Nicea; però c’era stata la Pentecoste dei pagani.
D’altronde Obama è restato rigorosamente nel limite suo, e ha parlato dei compiti della politica. Ma nella politica c’è che l’America può parlare ai musulmani non come a estranei, perché essa stessa è fatta in gran parte di musulmani, e questa è la vera ricchezza e il guadagno del pluralismo; nella politica c’è che l’Islam è interno alla cultura dell’Occidente, non solo per la bussola, ma perché c’è anch’esso nella genesi del Rinascimento e dell’Illuminismo; nella politica c’è che la libertà religiosa deve fare spazio a ciò che le religioni veramente sono, e non agli stereotipi nei quali esse sono deformate e combattute; nella politica c’è che a decidere dell’eguaglianza o parità delle donne islamiche non è il velo, ma l’accesso all’istruzione; nella politica c’è che bisogna risolvere la catastrofe palestinese non per togliersi un problema di torno, ma perché 60 anni di tormenti per un popolo già bastano, come aveva detto anche il Papa in Terrasanta, e gli insediamenti israeliani non sono solo politicamente inopportuni, ma per l’America sono illegittimi.
È stato un discorso fatto “con verità”, e per questo è un documento di alta cultura, fondativo di una nuova possibilità per la politica, per le relazioni internazionali, per i rapporti tra le religioni e le civiltà. Un discorso fuori del solco machiavellico delle politiche di potenza, non finalizzato al potere del Principe, ma a una convivenza finalmente possibile. Nella versione Obama davvero gli Stati Uniti non vogliono più esportare con la forza il loro modello economico e politico, davvero non vogliono più interessarsi degli Arabi solo per il loro gas e il loro petrolio, davvero si vogliono ritirare dall’Iraq e non mantenervi alcuna base, davvero intendono rovesciare la funesta “strategia della sicurezza nazionale americana” di Bush, che esplicitamente rivendicava un imperio mondiale e la riduzione di tutto il XXI secolo a “un nuovo secolo americano”, una politica che ha prodotto immensi dolori. L’Europa, uscendo dal suo crepuscolo, dovrebbe ora mettersi accanto all’America, e con lei portarsi all’altezza di questa sfida.

Perché queste cose, ammesso che gliele lascino fare, Obama non le può fare da solo.



Raniero La Valle
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mercoledì 10 giugno 2009

Europee 2009: il mio ringraziamento


di Raniero La Valle

Desidero ringraziare gli amici, i sostenitori e gli elettori che mi hanno seguito e aiutato nella campagna per le elezioni europee. Esse si sono concluse con una sconfitta, che però non deve scoraggiare nessuno, perché il futuro è tutto da costruire, e le risorse non sono esaurite.
Come risulta da tutti i documenti via via pubblicati, quattro erano gli obiettivi della mia partecipazione, anche come candidato non di partito nella lista comunista di Rifondazione e dei suoi alleati, alla battaglia per le europee. Il primo obiettivo era quello che si vanificasse la pretesa di Berlusconi di trasformare le elezioni europee in un plebiscito a suo favore, che ne avrebbe consacrato l’impunibilità e l’insindacabilità come sovrano.
Questo obiettivo è stato raggiunto: la Repubblica democratica non si è trasformata in una crepuscolare monarchia libertina, e Berlusconi è avviato al declino.
Il secondo obiettivo era di mandare la Sinistra italiana al Parlamento europeo, togliendola dall’ostracismo extraparlamentare in cui era stata cacciata in Italia dalla legge elettorale iniqua di Calderoli, dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni e dai suoi stessi errori. Il raggiungimento di questo obiettivo richiedeva il superamento della soglia del 4 per cento introdotta anche nelle europee, nella stessa logica della legge Calderoli, dal principale partito di governo e dal principale partito di opposizione. Questo obiettivo non è stato raggiunto. La lista di Rifondazione e dei suoi alleati ha superato il 4 per cento solo nelle due circoscrizioni del Centro (4,5 per cento) e del Sud (4,1), ma non in quelle del Nord e delle Isole. La ragione di questo risultato è del tutto evidente: gli sconfitti del Congresso che aveva passato la leadership da Bertinotti a Ferrero, negandola a Nichi Vendola, usciti dal partito hanno inteso sopprimerlo, sotto accusa di arretratezza, presentandosi improvvisamente alle elezioni europee con la lista alternativa di “Sinistra e libertà”, che ha goduto di una eccezionale e perfino inspiegabile copertura da parte del sistema informativo e mediatico, e dell’avallo del consueto ceto intellettuale di una sinistra sofisticata e volubile. L’esecuzione è riuscita, e la pistola è ancora fumante. Le conseguenti decisioni sul da farsi in quest’area sono ora molto difficili, e qui non vi entriamo.
Il terzo obiettivo era di affermare il valore del pluralismo politico contro la riduzione della politica, e dell’Italia, a due soli partiti. Pur nella caduta della sinistra, questo obiettivo è stato raggiunto; le elezioni hanno segnato una vera e propria fuga degli italiani dal bipartitismo, sia in voti (6.800.000 voti in meno ai due maggiori partiti), sia in percentuali. Il referendum del 21 giugno su quest’onda dovrebbe andare deserto, e risolversi in una secca sconfitta. Purtroppo il solo che è rimasto a sostenerlo col “Sì” è il PD, che mostra in tal modo di essere ancora attestato sulla presunzione di fare tutto da solo e sulla ideologia della “vocazione maggioritaria”, che dalla sua invenzione ad oggi ha devastato l’intero campo della politica italiana, aprendo le dighe a una mai vista inondazione della destra, dopo il fascismo.
Il quarto obiettivo era, nel caso dell’elezione al Parlamento europeo, di promuovere l’adozione da parte dell’Europa di uno “Statuto del lavoro” e di uno “Statuto dell’esule”. Questo obiettivo non è stato raggiunto, ma resta la speranza che altri lo possano perseguire. Certo, se ci si riuscisse, vorrebbe dire che l’Europa è diventata un’altra cosa: altra rispetto a ciò che finora è stata, altra rispetto a ciò che oggi è, a giudicare dalla maggioranza conservatrice che il 7 giugno è stata mandata a Bruxelles.
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Un referendum beffa


Le ragioni per per astenersi e far fallire il referendum elettorale in 50 punti; e tutti i punti si riassumono in uno solo: salvare la democrazia.
"Per questo diciamo no al referendum elettorale, non andando a votare dove si vota solo per il referendum, o rifiutando le schede del referendum se chiamati alle urne per il ballottaggio che si terrà in diversi comuni e province" (punto n. 50)

(a cura di Domenico Gallo)

Prima parte: considerazioni sulla vigente legge elettorale

1. Siamo tutti scontenti della vigente legge elettorale, unanimemente denominata “porcellum” con la quale si è votato nelle ultime due tornate elettorali (2006 e 2008).

2. Due sono i principali aspetti negativi di questa legge: le liste bloccate ed il premio di maggioranza.

3. Questa legge, attraverso le liste bloccate, ha espropriato gli elettori di ogni residua possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, conferendo a una ristrettissima oligarchia di persone (i capi dei partiti politici) il potere di determinare al 100% la composizione delle Assemblee legislative.

4. Con questo sistema elettorale i nomi dei candidati sono persino scomparsi dalla scheda elettorale, con la conseguenza che le scelte dei candidati operate dai capi dei partiti non possono in alcun modo essere censurate, sconfessate o corrette dal corpo elettorale.

5. Di conseguenza tutti i “rappresentanti del popolo” sono stati nominati da oligarchie di partito svincolate da ogni controllo popolare.

6. In questo modo gli eletti, più che rappresentanti del popolo, sono – anche in senso tecnico – dei delegati di partito, anzi del capo politico che li ha nominati, al quale sono legati da un vincolo di fedeltà estremo, restando così fortemente pregiudicato il principio sancito dall’art. 67 della Costituzione che prevede che “ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

7. Il premio di maggioranza è un meccanismo truffaldino che interviene a manipolare la volontà espressa dagli elettori, trasformando – per legge – una minoranza in maggioranza.

8. Un sistema così fortemente distorsivo della volontà popolare non esisteva neppure nella c.d. “legge truffa” del 1953, che prevedeva che, per ottenere il premio di maggioranza, occorresse ottenere almeno la maggioranza dei voti popolari.

9. Con la legge truffa per conseguire il premio di maggioranza, che mirava a rendere più stabile il governo, occorreva godere del consenso della maggioranza degli elettori; la legge vigente, invece, trasforma una minoranza in maggioranza (attribuendole per legge il 54% dei seggi alla Camera) e sancisce il principio che per governare non occorre il consenso della maggioranza degli elettori.

10. La vigente legge elettorale ha introdotto delle soglie di sbarramento per l’accesso alla Camera ed al Senato che, se appaiono ragionevoli per i partiti che si riuniscono in coalizione (2% alla Camera e 4% al Senato), sono del tutto irragionevoli per i partiti esclusi dalle coalizioni (4% alla Camera e 8% al Senato). In questo modo milioni di elettori vengono esclusi dalla possibilità di essere rappresentati in Parlamento.

11. Infine la vigente legge elettorale, con l’indicazione sulla scheda del candidato alla presidenza del Consiglio, introduce una sorta di investitura popolare del Capo politico, mortificando il ruolo del Presidente della Repubblica a cui la Costituzione assegna il compito di nominare il Presidente del Consiglio.

Seconda Parte: quali modifiche introduce il referendum, con quali conseguenze

12. Il referendum proposto non corregge nessuno dei difetti del “porcellum” ma, al contrario, li aggrava, esaltandone le conseguenze negative.

13. Il referendum non restituisce agli elettori il potere di scelta dei propri rappresentanti politici, che la legge vigente ha sequestrato per conferirlo nella mani dei partiti, conservando le liste bloccate.

14. Il referendum propone sostanzialmente due modifiche della vigente legge elettorale: a) attribuisce il premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre liste concorrenti, abrogando la possibilità che il premio venga attribuito ad una coalizione di partiti; b) determina il raddoppio delle soglie di sbarramento confermando per tutti la soglia del 4% alla Camera dei Deputati e dell’8% al Senato (che la legge attuale impone soltanto ai partiti non coalizzati)

15. Le conseguenze che verrebbero fuori dalla legge elettorale modificata dal referendum sarebbero nefaste per la democrazia e ne sovvertirebbero il metodo basilare per il quale le decisioni si prendono a maggioranza.

16. La nuova disciplina elettorale sancirebbe il principio che il potere di governo spetta ad una minoranza e deve essere consegnato nelle mani di un solo partito, a prescindere dal livello del consenso popolare ricevuto

17. Infatti, attribuire il premio di maggioranza ad una sola lista determina un incremento esponenziale del premio stesso, sovvertendo il rapporto fra i voti espressi ed i seggi ottenuti.

18. Nelle elezioni del 2006, a fronte di una ampia coalizione di forze politiche, che ottenne alla Camera il 49,8 %, il premio di maggioranza è stato del 4 %. Nelle elezioni del 2008, a fronte di una coalizione meno ampia, che ottenne il 46,8%, il premio di maggioranza è stato del 7%. Se si fosse votato nel 2008 con il sistema elettorale proposto dai referendari, la lista più votata (il PdL) con il 37,4% dei voti, avrebbe ottenuto il 54% dei seggi, cioè si sarebbe giovata di un premio di maggioranza del 16,6%. Vale a dire a un solo partito sarebbe stata attribuita dalla legge elettorale quasi il 50% in più della rappresentanza che gli sarebbe spettata in base ai voti ricevuti dagli elettori (cioè gli sarebbero spettati oltre 100 seggi in più rispetto ai voti ricevuti) .

19. Con questo sistema viene attribuito ad una singola lista un premio di maggioranza di proporzioni inusitate, che può consentire ad un singolo partito di ottenere in Parlamento una rappresentanza doppia rispetto al consenso ricevuto, a danno di tutti gli altri partiti e di tutti gli altri elettori.

20. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 15/2008, pur dichiarando ammissibile il referendum elettorale, ha adombrato un pesante sospetto di incostituzionalità segnalando al Parlamento: “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi.”

21. Attraverso questo spropositato premio di maggioranza resta pregiudicato il principio costituzionale che il voto è uguale per tutti. Non tutti i cittadini saranno uguali nel voto perché il voto di taluni varrà il doppio rispetto al voto degli altri, tanto da consentire a una minoranza di diventare ex lege maggioranza e di fondare il governo non più sul consenso della maggioranza, ma su quello di una minoranza del corpo elettorale.

22. L’ulteriore effetto negativo è quello della riduzione forzata del pluralismo politico dovuta all’effetto combinato dell’incremento del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento.

23. Il corpo elettorale, proprio per la presenza di un così grave e destabilizzante premio di maggioranza, sarà costretto ad orientare le sue scelte sulle due principali liste in competizione. Ciò indebolirà tutti gli altri partiti, rendendo ancora più difficile superare lo sbarramento delle soglie raddoppiate dalla disciplina risultante dal referendum.

24. In questo modo dal bipolarismo forzato si passerà a un bipartitismo forzato, non determinato da scelte genuine del corpo elettorale, ma imposto dalle costrizioni del sistema elettorale

25. Questa situazione mortificherà ulteriormente la rappresentanza, riducendo la possibilità che il corpo elettorale possa ottenere che nel sistema politico siano rappresentati i bisogni, le esigenze, le culture ed i valori presenti nel popolo italiano.

26. In questo modo verrà introdotta, di fatto, una sorta di democrazia dell’investitura al posto della democrazia fondata sulla rappresentanza e la partecipazione dei cittadini come prevista dalla Costituzione.

27. La riduzione del pluralismo politico nelle assemblee legislative e la posizione di rendita assicurata a un solo partito politico, metterà a rischio la Costituzione, consegnandone il destino nelle mani di una sola parte politica.

28. L’attuale maggioranza politica, infatti, non può modificare a suo piacimento la Costituzione perché non dispone della maggioranza dei due terzi richiesta per escludere il referendum sulle leggi di modifica della Costituzione.

29. Se si fosse applicata alle elezioni del 2008 la legge elettorale con le modifiche proposte dai referendari, con lo stesso numero di voti, le forze politiche della attuale maggioranza (PDL + Lega) disporrebbero di circa il 62% dei seggi alla Camera. Con un piccolo sforzo potrebbero ottenere la maggioranza di due terzi necessaria per cambiare la Costituzione senza dover affrontare il giudizio del popolo italiano attraverso il referendum.

30. In questo modo si realizzerebbe una sorta di dittatura della minoranza, in quanto un solo partito, senza avere il consenso della maggioranza del popolo italiano, avrebbe nelle sue mani il controllo del Governo e la possibilità di eleggere – da solo – il Presidente della Repubblica, mentre una sola parte politica (cioè il partito beneficiato dal premio di maggioranza più i suoi alleati) avrebbe la possibilità di nominare i giudici della Corte Costituzionale e di modificare a suo piacimento la Costituzione.

31. Gli effetti che il referendum produrrebbe sul sistema politico sono stati già parzialmente sperimentati nelle elezioni politiche del 2008, quando i capi dei due principali partiti in competizione hanno deciso di restringere le coalizioni, limitandole ad una alleanza fra due soli partiti. In questo modo i partiti esclusi dalla possibilità di competere per il premio di maggioranza hanno perso una parte del loro genuino consenso elettorale e sono stati stroncati dal raddoppio delle soglie di sbarramento alla Camera ed al Senato.

32. In conseguenza di questa interpretazione delle legge elettorale sulla scia del modello proposto dal referendum, circa tre milioni di persone hanno perso ogni forma di rappresentanza in Parlamento, sono stati, pertanto, esclusi dal circuito della democrazia, mentre il tasso di astensionismo è cresciuto, essendo diminuita la partecipazione al voto dall’83,6% (2006) all’80,5% (2008).

33. Questa situazione di espulsione dal circuito democratico di milioni di persone, che abbiamo già sperimentato nelle elezioni del 2008, non sarebbe corretta dalle conseguenze del referendum, al contrario essa sarebbe ulteriormente aggravata perché le soglie di sbarramento raddoppiate varrebbero in ogni caso e per tutti i partiti.

34. Il sistema elettorale prefigurato dal referendum non esiste in nessun ordinamento di democrazia occidentale ma non rappresenta una novità assoluta nel nostro paese. Esso infatti si ispira alla legge “Acerbo” voluta da Mussolini, ed è stato già sperimentato nella storia d’Italia con le elezioni del 1924 che, schiacciando l’opposizione e le minoranze, aprirono la strada alla dittatura fascista.

35. Tuttavia la legge Acerbo era più democratica della disciplina che viene fuori dal referendum. Essa, infatti prevedeva che per accedere al premio di maggioranza, la lista più votata dovesse comunque superare la soglia del 25% dei voti e non imponeva soglie di sbarramento.

36. Per questo nel Parlamento del 1924 ebbero accesso – sia pure a ranghi ridotti - tutte le forze d’opposizione, mentre nel Parlamento repubblicano eletto nel 2008 con il metodo referendario, le opposizioni sono state drasticamente falcidiate.

37. Una situazione simile a quella del 1924 si produrrebbe di nuovo in Italia se venisse approvato il referendum.

38. Il principio democratico della rappresentanza verrebbe colpito a morte perché non vi è rappresentanza senza pluralismo e senza la libertà del corpo elettorale di scegliere le persone e le forze politiche da cui farsi rappresentare. Di conseguenza verrebbe meno il carattere democratico della forma di Governo.

39. Si produrrebbe quindi, attraverso la riforma elettorale, una riforma di fatto della Costituzione.

40. Il modello di democrazia, concepito dai padri costituenti, fondato sul pluralismo, sulla centralità del Parlamento e sulla partecipazione popolare dei cittadini associati in partiti, verrebbe definitivamente stravolto e sostituito da un ordinamento oligarchico.

Terza parte: come opporsi al referendum beffa

41. Per non tornare al 1924 bisogna respingere il referendum, utilizzando gli strumenti che la Costituzione ha messo a disposizione del corpo elettorale.

42. I Costituenti hanno previsto che i proponenti del referendum abrogativo devono superare una doppia soglia di consenso per poter raggiungere lo scopo dell’abrogazione delle norme prese di mira. Per questo la Costituzione prevede che la proposta è approvata soltanto se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

43. A differenza che nelle elezioni politiche, che mirano al rinnovo di assemblee politiche le quali devono necessariamente essere rinnovate, nel referendum il voto non è un dovere civico, in quanto la proposta di abrogazione non deve necessariamente essere approvata o respinta. Nel referendum gli elettori scelgono liberamente se andare o non andare a votare, a seconda dei risultati che vogliono conseguire.

44. Questa volta la chiamata degli elettori alle urne per il referendum nasconde un inganno: essa sfrutta l’insoddisfazione generale che tutti noi nutriamo verso questa legge elettorale (il porcellum) per spingerci ad un voto che, qualunque sia il risultato, non può avere altro effetto che quello di rafforzare il porcellum.

45. Infatti, se prevalessero i no, l’effetto sarebbe quello paradossale di offrire ai fautori dell’attuale legge elettorale imposta dalle oligarchie il destro di dire che la legge avrebbe avuto l’avallo di un voto popolare.


46. Se prevalessero i si, l’effetto sarebbe quello di blindare l’attuale legge elettorale, nella versione peggiorata proposta dai referendari. Il parlamento difficilmente potrebbe metterci mano per effettuare delle modifiche, sia perché gli si potrebbe obiettare di essere vincolato dalla volontà popolare espressa attraverso il voto referendario, sia perché la legge così modificata piacerebbe ancora di più alla maggioranza che vuole restringere gli spazi e le opportunità della democrazia.

47. Per questo si tratta di un referendum beffa: chiama alle urne dicendo di voler ammazzare il porcellum, ma in realtà lo ingrassa e lo rende intoccabile, qualunque sia la risposta al quesito referendario.

48. L’unico modo per non essere beffati, per dire NO alla proposta referendaria, è quello di disubbidire alla chiamata alle urne che i proponenti vogliono imporre al popolo italiano.

49. E’ questa l’unica strada per lasciare aperta la possibilità di una riforma elettorale che restituisca agli elettori i poteri che sono stati loro confiscati con il porcellum.

50. Per questo diciamo No al referendum elettorale, non andando a votare, dove si vota solo per il referendum, e rifiutando le schede del referendum, se chiamati alle urne per il ballottaggio che si terrà in diversi comuni e province.

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SEMPRE PIU’ POVERI BUSSERANNO ALLA TUA PORTA


di Raniero La Valle

Questo articolo uscirà sul prossimo n. 6 di “Presbyteri”, rivista di spiritualità pastorale, dedicato al tema: “In una economia di possesso, la rivoluzione del dono”.


Non solo sempre più poveri busseranno alla tua porta, ma a sempre più poveri sarà impedito perfino di arrivare alla tua porta, di bussare, di chiedere asilo politico. I poveri sono fatti morire in mare, purché non arrivino sulle coste smeralde dell’Europa, non sbarchino, non si disperdano tra tutti i Paesi e le città europee, non si integrino con gli altri poveri e con i molti ricchi. Il ministro Maroni li fa intercettare nel Mediterraneo, le navi della Marina militare fanno finta di salvarli, loro vengono da giorni di navigazione e di paura, non hanno con sé nemmeno le valige di cartone con cui i nostri emigranti andavano in America o in Australia, hanno solo quello che hanno indosso, cioè niente, sono esseri umani spauriti e in fuga, donne incinte, bambini; ma le navi che dovrebbero salvarli li rigettano negli inferni da cui sono venuti, “ordine infame” è definito dagli stessi marinai quello che devono eseguire. Il ministro si gloria, la Lega aumenta i suoi voti al Nord, il decreto sicurezza toglie agli stranieri senza permesso ogni diritto umano, non possono nemmeno nascere, se non apolidi e clandestini, non possono farsi curare e partorire in ospedale, dalla scuola vengono respinti (si fa eccezione per i bambini, perché almeno questo è impopolare) non possono affittare una casa; talvolta, in qualche città del Nord, non possono nemmeno sedersi sulle panchine (si fa eccezione per gli ultrasettantenni, perché vietarlo anche ai vecchi sarebbe impopolare). L’Europa, con il trattato di Dublino e le direttive comunitarie, dice che ogni Paese in cui gli emigranti sbarcano – cioè quelli sul mare, Italia, Grecia, Cipro, Malta – se la deve cavare da solo, gli altri non c’entrano; né c’è modo per i migranti di entrare direttamente negli altri Paesi europei, perché ai vettori è proibito imbarcarli sulle navi e sugli aerei, se non hanno il visto d’ingresso dei Paesi di destinazione. L’Europa non è più una città aperta sul mare, è una fortezza sigillata; così ci illudiamo di salvare quel poco che abbiamo delle nostre sicurezze e del nostro benessere. E non ci sono solo i migranti; secondo la competente agenzia delle Nazioni Unite i profughi nel mondo nel 2007 erano 37,4 milioni; nel 2050 si potrebbe arrivare a 200 milioni di esuli. A quali porte potranno bussare?
Dunque c’è anche proibito di dare il dono della nostra accoglienza e della nostra ospitalità. Se lo facciamo, commettiamo un reato, ti possono prendere la casa. Inutilmente dice il Siracide che l’elemosina espia i peccati, come l’acqua spegne un fuoco acceso. L’elemosina non basta, e nemmeno è permessa.

Come la crisi del ‘29

Il peccato, se c’è, è strutturale, come la Chiesa ha imparato a dire a partire da Medellin e dalla teologia della liberazione in poi. C’è una questione economica globale. E c’è una crisi che investe ogni economia. Parlandone a Verona, il 16 aprile scorso, il segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, mons. Crepaldi, ha sentito il bisogno di citare addirittura l’enciclica Quadragesimo Anno che Pio XI scrisse nel 1931, in piena depressione economica seguita alla famosa crisi del 1929. Pio XI spiegava che si era costituita una “dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”. Secondo Pio XI ciò aveva distrutto lo stesso mercato, a cui era “subentrata la egemonia economica, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui la patria è dove si sta bene”. Tre erano, secondo quel Papa, i motivi della crisi: il primo, la bramosia dei facili guadagni sicché costoro “con la sfrenata speculazione fanno salire ed abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro”, il secondo, le leggi a favore del capitale che “ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza”, sicché “sotto la coperta difesa di una società che chiamano ‘anonima’ si commettono le peggiori ingiustizie e frodi”; il terzo, “una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna”.
“Una lettura molto istruttiva anche per noi”, ha detto mons. Crepaldi. Ma è legittimo paragonare la crisi attuale con quella del ’29? Lo è. Ha detto Allen Sinai, uno dei maggiori economisti di Wall Street: “Guardiamo alla realtà di oggi. La crisi è così immensa, così grave, così simile a quella degli anni ’30, che non escludo che si stia andando incontro a una nuova grande depressione. Non è detto che vada a finire così, ma le possibilità crescono ogni giorno. Tutti gli indicatori sono in caduta verticale: posti di lavoro, redditi personali, produzione industriale, prezzi delle materie prime. E Borse, inevitabilmente. Oggi i mercati si trovano brutalmente davanti a questo rischio. E forse è qualcosa di più di un rischio”.
La novità è che in America quella che è andata in crisi è proprio la “middle class”, il ceto medio che è il vero depositario del “sogno americano”. Senza questo non si sarebbe verificato il miracolo della vittoria di Obama, che oggi si presenta al mondo (soprattutto dopo il discorso del 4 giugno al Cairo) come la nuova voce profetica di questo inizio di millennio. Ma la crisi non investe solo l’America. Anche le nuove economie, che erano in ascesa, sono in affanno. L’una o l’altra delle “tigri asiatiche” forse diventerà solo una lince, o forse un gatto, che sono felini assai meno prestanti. Una volta, agli investitori occidentali che non sapevano dove mettere il loro denaro, si diceva di andare in Asia, di investire a Mumbay, a Shangai o a Dubai. Oggi non lo si dice più.
La sofferenza, la fame, le malattie, la miseria dell’Africa, del III e del IV mondo, non si sono arrestate, almeno 10 milioni di bambini all’anno muoiono di fame e di malattie curabilissime, ma nessuno ne parla più perché ormai tutti si occupano della crisi economica e finanziaria del I mondo e dell’Occidente L’ultimo rapporto della FAO che sommessamente si intitola: “Lo stato della insicurezza alimentare nel mondo nel 2008” in realtà è il grido di una tragedia: i curvati dalla fame nel mondo sono 963 milioni, 40 milioni in più del 2007 e 115 milioni in più del triennio 2003-2005. questo vuol dire che lungi dal ridursi alla metà, come era stato promesso dai vertici della FAO per il 2015, essa di anno in anno aumenta; negli ultimi anni anzi si è avuto un peggioramento strutturale della situazione, perché c’è stato un aumento del prezzo dei generi alimentari e delle sementi. Solo nella regione dell’America Latina e dei Caraibi che nel 2007 aveva registrato i maggiori passi avanti nella riduzione della fame prima dell’impennata dei prezzi alimentari, il numero degli affamati è salito a 51 milioni. Nel Vicino Oriente e nel Nord Africa il numero dei sottonutriti è salito dai 15 milioni del biennio 1990-92 a 37 milioni nel 2007. Nella geografia della fame l’Africa subsahariana è al primo posto, con 236 milioni di persone senza cibo, seguita dall’Asia-Pacifico (156 milioni) e dalla Cina (142 milioni). Secondo la FAO la crisi ha colpito soprattutto i più poveri, i senza terra e i nuclei familiari con donne capofamiglia. E la crisi c’è anche in Italia, dove i poveri sono legione, il lavoro se ne va e il PIL diminuisce, anche se solo per il governo essa non esiste e l’Italia sta benissimo, le banche sono in fiore.
In questa spaccatura dell’umanità tra ricchi e poveri si inseriscono elementi paradossali che sono messi in luce da una Nota del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace, approvata dalla Segreteria di Stato in vista della conferenza di Doha sul finanziamento allo sviluppo, tenutasi dal 29 novembre al 2 dicembre dell’anno scorso. Il primo paradosso sta nel fatto che nell’attuale sistema globale “sono i paesi poveri a finanziare i paesi ricchi che ricevono risorse provenienti sia dalle fughe di capitale privato, sia dalle decisioni governative di accantonare riserve ufficiali sotto forma di attività finanziarie ‘sicure’ collocate nei mercati finanziariamente evoluti o nei mercati offshore”. Il secondo sta nel fatto che “le rimesse degli emigrati comportano un afflusso di risorse che a livello macro superano largamente i flussi di aiuto pubblico allo sviluppo. È come dire che i poveri del Sud finanziano i ricchi del Nord e gli stessi poveri del Sud devono emigrare e lavorare al Nord per sostenere le loro famiglie al Sud”. Secondo questo rapporto della Santa Sede la crisi finanziaria in atto “è l’esito di una prassi quotidiana che aveva il suo caposaldo nell’assoluta priorità del capitale rispetto al lavoro – incluso il lavoro alienato degli stessi operatori finanziari (ore di lavoro lunghissime e stressanti, orizzonte temporale di riferimento per le decisioni cortissimo)”. In tal modo sui mercati finanziari di ogni tipo si è dispiegata “una trama di pratiche economiche e finanziarie dissennate: fughe di capitali di proporzioni gigantesche, flussi ‘legali’ motivati da obiettivi di evasione fiscale e incanalati anche attraverso la sovra/sottofatturazione dei flussi commerciali internazionali, riciclaggio dei proventi di attività illegali”. E ora, “con la crisi, è venuta meno la fiducia fideistica riposta nel mercato, inteso come meccanismo capace di autoregolarsi e di generare sviluppo per tutti”.

Tutto il potere al Mercato

Sotto accusa c’è dunque il mercato. Allora il mercato è cattivo? No, ma è cattiva la sua raggiunta, pretesa onnipotenza. Non eravamo abituati a considerarlo come un Potere. La storia dell’Occidente, dall’XI secolo in poi, è stata tutta intessuta del conflitto tra Chiesa e Stato, nel tentativo, sempre fallito per ambedue, di appropriarsi in modo esclusivo del monopolio del potere. Ora c’è un libro di Paolo Prodi (terzo di una trilogia di cui già ci siamo occupati su Presbyteri a proposito del secondo, “Una storia della giustizia”) che introduce in questa storia l’insorgere di un altro potere, il Mercato, non il minore in questa gara. In questo libro (“Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”[1]) si mostra come il Mercato si sia fatto spazio tra i due, lo Stato e la Chiesa, fino a giungere all’attuale supremazia, sopravanzando l’uno e l’altra. Il Mercato esclude tutto ciò che non è oggetto di scambio, e non dà valore alle cose se non attraverso lo scambio; perciò il furto, appropriazione senza scambio, ne è la specifica violazione (condannato dalla Chiesa come peccato, dal Mercato come colpa, dal diritto positivo come reato) e la gratuità ne è esclusa.
Niente di male, se il mercato non è tutto. Il problema è che via via si sono incluse nella logica dello scambio, del do ut des, del mercato, aree della vita e della realtà umana che con il mercato non hanno nulla a che fare (il simbolo estremo ne è la simonia, ma anche la prostituzione). Secondo Carl Schmitt il dividere, l’appropriarsi, il produrre, che sono le funzioni tipiche del mercato, sono alla radice stessa del nomos dell’Occidente (“nomos” viene dal verbo “nemein”, spartire, dividere), cioè della sua civiltà. L’universale pervasività del Mercato è un fenomeno tuttavia relativamente recente, non sempre esso ha invaso tutta la realtà e tutta la vita. Il mercato stava in una parte del villaggio, della città; si andava al mercato. Uno nasceva fuori del mercato, viveva, acquisiva talenti, coltivava il suo campo, lavorava e prendeva un salario e poi, con quello che aveva, andava al mercato a scambiarlo con altre cose di cui aveva bisogno e che altri vi avevano portato. Le risorse si formavano fuori del mercato e si scambiavano nel mercato. E nel mercato si scambiavano le merci, ma si incontravano le persone, si incrociavano le parole, si manifestavano sentimenti. Ancora oggi quello che resta delle vecchie campagne elettorali persona a persona, si fa nei mercati. Le donne avevano una grande parte nel mercato. Si potrebbe dire che nella maggior parte delle società il mercato era soprattutto femminile. Marianella, la giovane donna martire dei diritti umani, con mons. Romero, nel Salvador, aveva cominciato la sua rivoluzione per i diritti, contro le oligarchie e i poteri dittatoriali del suo Paese, “coscientizzando” e organizzando le donne dei mercati.
Ora invece succede che il mercato è tutto, e fuori del mercato non c’è nulla, e le persone non ci sono più. Di conseguenza tutto è merce. Il denaro stesso, che serviva a scambiare le merci, è diventato una merce, la merce superiore a tutte le altre merci, con cui si guadagna di più. Perciò si è smesso di investire nella produzione, e si sono investiti tutti i denari nel denaro e in quelle volatili tracce elettroniche che sui computer rappresentano il denaro. Così è venuta la bolla speculativa, così l’economia ha preso le distanze dalle cose, dalla vita reale; e anche da quelle cose che ingiustamente erano considerate merci, a cominciare dal lavoro. Ridotto il lavoro a merce, e la merce a denaro, il Mercato si è mangiato tutto, e ora che il Mercato è entrato in crisi, trascina tutto con sé nella crisi.
La gratuità è un’alternativa?

Tuttavia il Mercato non ha rinunciato alla sua onnipotenza, anche nel momento della sua massima debolezza. Può la gratuità essere un’alternativa? Possiamo parlare di un’economia del dono? Se nell’economia piantiamo il pungolo della gratuità certamente vi apriamo una contraddizione, ma non riusciamo a costruire un’altra economia. La gratuità è il principio di un altro ordine, che non è quello economico; un ordine che sta tra il già e il non ancora. Non a caso i Padri della Chiesa per nominare un ordine del tutto alternativo all’ordine mondano hanno coniato un ossimoro, e parlato di “economia della grazia”. L’economia della grazia giudica l’economia del contraccambio, ma non la sostituisce. Nell’economia dello scambio, nel Mercato diventato onnivoro, la gratuità non solo è bandita, ma è screditata ed irrisa; sicché essa si deve rifugiare in nicchie da cui, pur mantenendo la sua forza critica e “profetica” sostanzialmente non disturba l’ordine economico dato (il commercio equo e solidale, i bilanci familiari, le aziende no profit, gli aiuti allo sviluppo e altre meritevolissime iniziative che si appellano alla diversità ma lasciano le cose come stanno).
Tuttavia il cuneo della gratuità, della condivisione, del bene comune, piantato nel cuore dell’ordine del profitto, nel momento della sua crisi, può dirigere questa crisi verso esiti più umani, soprattutto se la critica del sistema del contraccambio e del profitto si svolge non solo sul piano dell’antagonismo pragmatico e politico, ma riesce ad articolarsi sul piano della teoria economica, delle dottrine politiche e della stessa antropologia.
Ciò dice quanto il compito sia arduo, e non possa essere surrogato né da pur generosi volontarismi, né dal puro e semplice annuncio evangelico della superiorità, e anzi dell’avvento, dell’ordine della gratuità e della grazia oltre l’ordine della retribuzione e della legge.
La critica e il superamento dell’ordine economico dato è un’alta impresa teorica, che pur avendo raggiunto vette assai alte nella modernità come nel tentativo marxiano (con qualche spunto anche nella cosiddetta dottrina sociale cristiana), non è riuscita finora ad andare a buon fine. Anche teorici di formazione marxista che hanno dato ragione del fallimento del marxismo sia come teoria della crisi che come teoria della rivoluzione, pur avendo aperto nuove piste non sono riusciti ad andare molto più lontano, e hanno lasciato la consegna di “cercare ancora”: è il caso, in Italia, di Claudio Napoleoni, che ha azzardato l’utopia di una economia intesa non più come “scienza della scarsità”, quale la definiscono gli economisti classici, ma come scienza della libera e solidale fruizione da parte di tutti gli uomini dei beni della terra[2].
Essendo questo lo stato dell’arte non si possono oggi avanzare teorie che delineino un ordine economico veramente diverso e alternativo rispetto al (dis)ordine esistente. Ed è proprio questa mancanza di ricette razionalmente persuasive per un cambiamento, che spiega la débacle della sinistra politica nei punti avanzati dello sviluppo (come si è visto or ora in Europa), e che rende apparentemente invincibile l’attuale capitalismo realizzato in modalità globale, anche se esso è caduto in una gravissima crisi ed è sotto giudizio in quanto non atto ad assicurare nemmeno la continuità della vita sulla terra.
Ciò che si può fare, fino a quando e perché maturi una vera alternativa, è di comprendere meglio la situazione esistente, di innestarvi intanto correttivi, limiti e comportamenti virtuosi ispirati a una coscienza morale, e individuare qualche linea sulle quali possa essere pensato un superamento.

Crisi di tutto l’ordine economico e politico

Per poter fare questo, occorre comprendere come la crisi di oggi non è solo una crisi economica, ma una crisi di tutto l’ordine economico e politico in cui viene in qualche modo a concludersi l’intero ciclo storico dell’Occidente. In questo senso la crisi viene da ancor prima della società capitalistica; già nel 1951 Giuseppe Dossetti la diagnosticava come la crisi dell’intero “organon” dell’Occidente, e il già citato Claudio Napoleoni, trent’anni dopo, interrogandosi sulle ragioni del fallimento di Marx, rispondeva che Marx aveva criticato il capitalismo, ma non si era accorto che il male criticato nel capitalismo c’era anche prima; e questo male originario era l’alienazione. Non solo l’alienazione degli operai al processo produttivo, non solo la riduzione del lavoro a merce, che è l’alienazione specifica del capitalismo, ma un’alienazione ancora più originaria, che era l’alienazione dell’uomo stesso al prodotto, alla cosa, in un sistema in cui tutto può essere prodotto, tutto è ridotto a cosa, tutto può essere comprato e venduto, tutto può essere appropriato. E se tutto può essere appropriato, anche l’essere umano è appropriato, alienato, spossessato di sé. Sicché, concludeva Napoleoni, “perché la liberazione sia possibile il compito che si pone è di guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo, diverso cioè da quello stabilito dalla prospettiva della produzione, appropriazione, dominazione”.
Qui l’accento è messo sull’appropriazione. Secondo uno dei più importanti ecologisti italiani, Giorgio Nebbia, “la crisi ecologica è sostanzialmente crisi del bene collettivo; alcuni traggono benefici senza alcun costo; tengono, per esempio, pulita la propria casa, il proprio oikos, scaricando i rifiuti all’esterno, nell’ambiente, in una più vasta casa d’altri. La salvezza va allora cercata mettendo in discussione i principi stessi della proprietà privata, ricuperando il carattere pubblico dei beni come l’aria o il mare o le acque e introducendo il principio di delitto per chi tali beni viola o rapina o sporca. Gli obiettivi dell’economia finanziaria e quelli dell’economia sociale non possono coincidere; la proprietà collettiva delle fonti di energia, dalle regioni montagnose dove i fiumi nascono, fino ai più remoti pozzi di petrolio, è la sola garanzia per un uso e una conservazione efficace”[3]. Torna di attualità il socialismo, o come lo chiama Nebbia, “l’inevitabilità di un comunismo di base”? Senza ipotecare il futuro, si può dire intanto che il presidente americano Obama ha rotto il tabù della assoluta autonomia dell’economico dal politico, della inviolabilità delle sacre leggi della concorrenza (che sono i tabù di Maastricht) mettendo soldi pubblici nelle banche e acquistando allo Stato il 60 per cento delle azioni della General Motors. Tornano, e dove!, le Partecipazione Statali.

I beni comuni

Ma allora si può ricominciare sottraendo intanto all’appropriazione beni che non sono ancora appropriati, o che sono stati appropriati ingiustamente. Si può cominciare con lo stabilire che ci sono dei beni che non possono essere spartiti. E non perché sono beni di nessuno (“res nullius”, che era il pretesto con cui i conquistatori spagnoli si presero tutti i beni degli Indiani americani appena “scoperti”), ma perché sono beni di tutti, sono beni “comuni”. Si tratta infatti di beni che appartengono all’intera umanità, e non a una sola generazione umana, ma al succedersi delle generazioni, ai padri ed ai figli; e sono beni che servono all’utilità comune; questi beni sono la terra, l’aria, il clima, l’acqua, le foreste, i fondi marini, i corpi celesti, le orbite spaziali e i satelliti che ci si possono mettere sopra, le bande elettromagnetiche, le frequenze radiotelevisive (quelle regalate, col potere, da Craxi a Berlusconi); e se poi passiamo dai beni materiali ai beni immateriali, beni comuni sono il diritto, e perciò i diritti fondamentali (che non si possono dare e togliere agli stranieri a piacere), il patrimonio spirituale dell’umanità, le lingue, le culture, le religioni, fino al bene più comune e più universale di tutti che è Dio stesso, che da nessuno può essere sequestrato, appropriato, tenuto come un possesso esclusivo, reso “sacro” e perciò separato e messo da parte per alcuni, nemmeno da alcuna religione e da alcuna Chiesa (è stata questa la grande scoperta e la grande proclamazione del Concilio).
Quando i beni comuni vengono rapinati, appropriati, rivendicati come esclusivamente propri, si rompe la convivenza umana, e la vita diventa impossibile. E’ la storia raccontata da Ieramac, la donna di Chico Mendes, l’eroe che in Brasile aveva difeso dai latifondisti la foresta amazzonica, la vita dei seringeuiros (i raccoglitori di caucciù), il fiume. Per dodici volte avevano tentato di ammazzarlo, la tredicesima ci riuscirono. Dopo di allora, dice la sua compagna, “il potere dei forti si è indurito ancora di più. Ora viene da lontano. Ha nomi stranieri, potenti in ogni parte del mondo. Le imprese transnazionali sono penetrate nell’Acre brasiliano con la forza e l’arroganza che nemmeno il più incallito latifondista aveva mai osato esibire. Questi mostri finanziari uccidono la foresta per una brama di profitto, la trivellano per succhiare petrolio, aprono squarci enormi tra gli alberi, mettono in subbuglio l’ecosistema, ammalano i contadini. E mettono mano sul Rio, sul fiume sacro per tutti noi che lo abitiamo. L’ultima frontiera è l’accaparramento dell’acqua. Vogliono rubarci l’acqua, impossessarsi delle sorgenti, imporci la tassa per bere”. E dice a sua volta dona Flor, la protagonista del libro di Jorge Amado, che vive a San Salvador in un barrio costruito sulle palafitte: “Viviamo immersi nell’acqua, ma non abbiamo acqua da bere”. Come scriveva Taylor Coleridge: “Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere” [4]. E’ lo stesso lamento che fanno i palestinesi: gli israeliani si prendono l’acqua del Giordano, prima che arrivi nei territori palestinesi. Così ai palestinesi è negata l’acqua dolce del lago di Tiberiade, e resta solo l’acqua amara del Mar Morto.
Nei beni comuni, riconosciuti come comuni, senza discriminazione tra ricchi e poveri, senza ragioni di scambio, extra commercium, fuori del Mercato, c’è allora forse il principio e il punto di partenza di una nuova economia.
È a queste profondità, e con queste implicazioni politiche, economiche, religiose e antropologiche, che si pone la questione della gratuità.

Raniero La Valle
raniero.lavalle@tiscali.it


[1] Paolo Prodi. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Il Mulino, Bologna, 2009.
[2] Claudio Napoleoni, Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma, 1990
[3] Giorgio Nebbia, I tre mondi del XXI secolo, e-mail dell’11 dicembre 2008.
[4] V. Francesco Comina, Sulle strade dell’acqua, Dramma in due atti e in quattro continenti, Il Margine, Trento, 2008.

Continua...

giovedì 4 giugno 2009

"Con l'Islam un nuovo inizio"

di BARACK OBAMA

Ecco la traduzione integrale del discorso del presidente americano Barack Obama all'Università del Cairo.

SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università del Cairo è la culla del progresso dell'Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso.
Sono grato di questa ospitalità e dell'accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum. Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l'Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell'Islam.
Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l'Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell'America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze.
Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l'odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.
Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basi sull'interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.
Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell'arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l'uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: "Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità". Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l'importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.
In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell'azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.
Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell'Islam. Fu l'Islam infatti - in istituzioni come l'Università Al-Azhar - a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all'Illuminismo. Fu l'innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l'algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l'Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l'eguaglianza tra le razze.
So anche che l'Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell'ordine dei musulmani". Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - custodiva nella sua biblioteca personale.
Ho pertanto conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso possa affiorare.
Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell'America da parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l'America non corrisponde a quell'approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. "Da molti, uno solo".
Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.
E ancora: la libertà in America è tutt'uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all'interno dei nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l'hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo.
Non c'è dubbio alcuno, pertanto: l'Islam è parte integrante dell'America. E io credo che l'America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.
Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l'inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione vuole dotarsi di un'arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano.
Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l'una all'altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all'insuccesso.
Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso.
Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme.
Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l'America non è - e non sarà mai - in guerra con l'Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l'uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.
La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell'America, e la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell'11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.
Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l'America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l'ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così.
Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l'impegno dell'America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l'Islam stesso.
Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L'Islam non è parte del problema nella lotta all'estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.
Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.
Permettetemi ora di affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: "Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo".
Oggi l'America ha una duplice responsabilità: aiutare l'Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l'America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l'accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq entro il 2012. Aiuteremo l'Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da partner, non da dominatori.
E infine, proprio come l'America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L'11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d'azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l'ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell'anno venturo.
L'America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch'esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro.
La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile.
Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l'antisemitismo in Europa è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all'intera popolazione odierna di Israele.
Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l'odio. Minacciare Israele di distruzione - o ripetere vili stereotipi sugli ebrei - è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita.
D'altra parte è innegabile che il popolo palestinese - formato da cristiani e musulmani - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all'essere sfollati. Molti vivono nell'attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all'occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.
Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all'interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall'altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.
Questa soluzione è nell'interesse di Israele, nell'interesse della Palestina, nell'interesse dell'America e nell'interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l'impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro - e noi tutti con loro - facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l'umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell'America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all'Asia meridionale, dall'Europa dell'Est all'Indonesia. Questa storia ha un'unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l'autorità morale: questo è il modo col quale l'autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.
È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L'Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.
Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino.
Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l'incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.
Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l'Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l'attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l'incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.
L'America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.
Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera. Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l'Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l'Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l'Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.
Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell'interesse dell'America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.
Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l'impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni - Iran incluso - dovrebbero avere accesso all'energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo.
Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un'altra.
Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L'America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un'equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.
La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L'America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.
Quest'ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l'unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia. Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L'Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell'Andalusia e di Cordoba durante l'Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.
Tra alcuni musulmani predomina un'inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.
Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l'ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo.
È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia Saudita e la leadership turca nell'Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all'azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale. Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l'opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo "meno uguale". So però che negare l'istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell'eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l'Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.
Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani - uomini e donne - di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere il diritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un'occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.
Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni - compresa la mia - questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.
So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l'economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all'avanguardia nell'innovazione e nell'istruzione.
Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un'enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l'istruzione e l'innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l'America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.
Dal punto di vista dell'istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull'insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.
Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest'anno un summit sull'imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro "verdi", monitorare i successi, l'acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute infantile e delle puerpere. Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.
I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l'energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.
So che molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d'accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: "Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo".
Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo - un lungo e impegnativo sforzo - per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.
È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C'è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.
Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: "Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri". Nel Talmud si legge: "La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace". E la Sacra Bibbia dice: "Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio".
Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi.


(Traduzione di Anna Bissanti)
Continua...

martedì 2 giugno 2009

L'Europa patria del mondo

di Raniero La Valle

È stato detto che nella campagna per le elezioni europee di tutto si è parlato tranne che dell’Europa: si è parlato della tragica figura di Berlusconi, che rischia di essere travolto dalle sue ricchezze e dalla loro intrinseca forza di corruzione; si è parlato della deriva del Partito democratico, che dice di voler essere grande per combattere la destra ma si ostina a voler restare nel suo piccolo per correre da solo, fino all’assurda decisione di votare “sì” al referendum del 21 giugno; si è parlato della sinistra divisa, o meglio della sinistra “nuova” e suicida che per vivere si è proposta di distruggere (di “buttare”) la sinistra vecchia da cui era uscita; ma non si è parlato di che cosa andare a fare in Europa. Questo però non è del tutto vero. È vero per quanto della politica appare dalla TV e dai giornali, che però rappresentano sempre meno la politica del Paese. Ma non è vero per molti altri protagonisti e dibattiti che in queste settimane hanno attraversato il Paese reale; e non è stato vero per me, che ho suggerito tre cose. La prima è che l’Europa ponga termine alla fase introversa della sua costruzione come mercato interno e come spazio chiuso di comunitari contro extra-comunitari, e vada alle nozze col mondo. Non come le mitiche nozze con Giove da cui fu rapita, ma come scelta politica e libera. Ripudiata la guerra, l’Europa deve sposare la terra. Lì è la sua origine, e lì è il suo destino, che non è solo suo, ma è comune con tutti. L’Europa non è una “città sul monte”, come i Padri fondatori degli Stati Uniti vollero fare dell’America, per dare lezioni a tutti i popoli; l’Europa è una città sul mare, e il mare è una via, senza mura, per la quale si va e si viene.

Dal mare, sconosciuti, arrivarono Enea e i Fenici; perseguitati e naufraghi arrivarono Pietro e Paolo; per mare sono partiti Marco Polo, Cristoforo Colombo, Vasco da Gama; per mare le lingue d’Europa si sono sparse sulla terra nella ultima Pentecoste che è la Pentecoste dei pagani. Se l’Europa non si fa patria del mondo, e non riconosce il mondo come sua patria, essa è finita.
La seconda è che l’Europa faccia uno Statuto del lavoro, come in Italia si fece uno Statuto dei lavoratori. Quello significò per l’Italia estirpare il lavoro dal regime privatistico nel quale era gestito come merce, e immetterlo in uno spazio pubblico nel quale i diritti erano messi in salvo, il conflitto sociale era tutelato e una vita accettabile doveva essere garantita per tutti. Non a caso oggi è sotto attacco. Uno Statuto del lavoro in Europea significherebbe togliere il lavoro dall’occhio del ciclone della crisi, e assicurare diritti di base e un reddito minimo per tutti, lavoratori fissi e precari, cittadini e stranieri, anche forzando le legislazioni nazionali; e vorrebbe dire riconoscere il diritto al lavoro come innato e appartenente all’essere umano come persona.
Sarebbe bella un’Europa “fondata sul lavoro”, come l’Italia è nella nostra Costituzione; sarebbe davvero un modo di andare alle radici cristiane dell’Europa, se l’evento fondatore del cristianesimo è stato un Dio che si è fatto uomo, si è fatto servo, e perciò ha assunto e reso divino il lavoro, che era l’opera propria ed esclusiva del servo. Allora il primo articolo della Costituzione europea potrebbe essere: “L’Europa è una comunità democratica di persone e di Nazioni unite, fondata sul lavoro”.
La terza cosa è’ uno “Statuto dell’esule”. Anche qui le “radici cristiane” dovrebbero farci ricordare che anche noi siamo stati esuli in ogni Paese, come lo furono gli Ebrei in Egitto; dovrebbero far pensare l’Europa come a una “città di rifugio”, simile a quelle istituite nella terra di Canaan perché i fuggiaschi vi potessero trovare riparo sottraendosi ai “vendicatori del sangue”; dovrebbero suggerire di fare dell’Europa la sperata “casa di accoglienza per tutti i popoli”.
E il primo articolo di questo Statuto dovrebbe dire così: “Nessun esule deve annegare nel Mediterraneo”.

Raniero La Valle
Continua...