domenica 20 settembre 2009

Come ti nego i diritti di cittadinanza

DI DOMENICO GALLO

Unicuique suum: a ciascuno il suo. E’ questo il motto che potrebbe essere applicato al c.d. “pacchetto sicurezza”, approvato con la legge n. 94/2009 , entrata in vigore l’8 agosto.Questa legge è un coacervo di misure discriminatorie e persecutorie nei confronti dei gruppi sociali più deboli. Se hanno suscitato qualche protesta le misure persecutorie più assurde nei confronti degli immigrati irregolari (come il reato di clandestinità, il divieto di matrimonio ed il divieto per le madri di riconoscere i propri figli), poca attenzione è stata rivolta alle norme discriminatorie riservate ad altri gruppi sociali. In realtà, per quanto possano apparire disomogenee le materie trattate, c’è un filo conduttore che organizza le disposizioni in materia di sicurezza pubblica. C’è unalogica in questa follia: tutto gravita intorno al principio delle discriminazione dei soggetti deboli. Se gli immigrati (regolari o irregolari) sono particolarmente vessati, non per questo il legislatore leghista si è dimenticato dei Rom, dei senza casa, e dei poveri in genere, ed ha dato a ciascuno il suo.Per quanto riguarda il popolo Rom, a parte le misure penali di aggravamento dei reati connessi alla povertà, nel pacchetto sicurezza vi è una specifica disposizione discriminatoria, passata quasi inosservata. Si tratta della norma relativa alle iscrizioni anagrafiche (art. 1, comma 18).Questa norma, nella sua versione originaria, in pratica, impediva ai poveri di ottenere l’iscrizione nei registri dell’anagrafe, subordinando l’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intendeva fissare la propria residenza. In questo modo decine di migliaia di famiglie povere avrebbero perso – automaticamente - il diritto alla residenza. Si pensi, per es. alle migliaia di famiglie che ancora vivono nei “bassi” in una città come Napoli.Ciò avrebbe comportato qualche problema con l’opinione pubblica, specie in quelle fasce sociali, più umili, che vivono ancora nel mito del berlusconismo.Per questo la norma è stata cambiata alla Camera, con l’emendamento sul quale il Governo ha posto la fiducia. Nella nuova versione i comuni non devono più accertare la sussistenza del requisito igienico sanitario dell’immobile, tuttavia “l’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica da parte dei competenti uffici comunali delle condizioni igienico sanitarie dell’immobile”.Insomma ogni comune è libero – a sua discrezione – di non iscrivere nei registri anagrafici quelle persone che abitano in alloggi inadeguati. Quindi ogni comune è libero di scegliere quali poveri tenersi e quali buttare via.In questo modo si è realizzata la quadratura del cerchio. Il requisito igienico sanitario dell’alloggio diventerà un ottimo strumento politico per selezionare le minoranze indesiderabili ed escluderle dal circuito della cittadinanza, senza mettere a rischio il consenso politico di cui gode l’attuale maggioranza.Ci vuol poco a capire che questa minoranze indesiderabili per i cittadini del Bel Paese sono soprattutto, se non esclusivamente, i Rom. Chi vive in un campo nomadi è difficile che disponga di un alloggio dotato dei requisiti igienico-sanitari richiesti dalla norme vigenti. Conseguentemente costoro – a discrezione dei sindaci – possono perdere il diritto ad essere iscritti nell’anagrafe delle persone residenti.Senonchè l’iscrizione nell’anagrafe delle persone residenti è presupposto indispensabile per l’esercizio dei diritti di cittadinanza. A partire dall’esercizio del diritto di voto, per finire all’iscrizione al Servizio Sanitario nazionale, alla scelta del medico di base ed all’iscrizione dei propri figli alla scuola dell’obbligo. In conclusione, invece di rimuoverli, come impone l’art. 3 della Costituzione, la legge utilizza gli ostacoli di ordine economico e sociale come pretesto per limitare - di diritto - la libertà e l’eguaglianza delle persone ed escludere dalla cittadinanza quelle minoranze destinate ad essere discriminate.
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lunedì 14 settembre 2009

COME SE DIO NON CI FOSSE

DI RANIERO LA VALLE

A Mantova al Festival della Letteratura 10 settembre 2009, in Piazza Sordello


Come è noto, la formula del “politicamente corretto”, nel nostro Occidente, è fare “come se Dio non ci fosse”.“Come se Dio non ci fosse” è la formula di un Dio facoltativo. Se ti serve lo prendi, se ti incomoda, lo lasci. Dio come optional. Alla base non c’è l’idea biblica di servire Dio, ma l’idea “politica” di servirsi di Dio. Lo licenzio e lo richiamo in servizio, lo ignoro e lo uso. Un Dio utensile, un Dio tappabuchi, come lo chiamava Bonhoeffer.

È un Dio con cui si può fare quello che si vuole. Per esempio lo si rifiuta per sé, ma lo si mette sulle spalle degli altri. Io faccio quello che voglio, ma siccome Dio c’è, la proprietà è sacra. Io uccido, ma chi mi uccide è maledetto da Dio. Io rubo, ma se lo Stato mi mette le mani in tasca col fisco, mi appello al comandamento divino che dice “non rubare”. Io mi professo ateo, però voglio che il Papa difenda la società cristiana. Io sono pieno di amanti e prostitute, ma se arriva un musulmano con tre mogli, è un affronto alla nostra cultura. Io faccio come se Dio non ci fosse, però mi fa comodo che la Chiesa ci sia, perché insegna le buone maniere e assicura l’ordine sociale, e così si risparmia con la polizia. Io sono un mafioso, ma voglio la mia messa privata nel covo; sono un libertino, ma devoto. Questa si potrebbe chiamare la religione della convenzione: si conviene che… Non si tratta di decidere se Dio c’è o non c’è, si tratta di mettersi d’accordo su che cosa fare di lui. La società laica moderna si basa sull’accordo di fare a meno di Dio, anzi di non parlarne nemmeno. Ufficialmente non dice che Dio non c’è, e lascia la cosa al disbrigo privato. Se dicesse che Dio non c’è, sarebbe atea; ma tra società laica e società atea non corre buon sangue, e anzi nel Novecento esse si sono aspramente combattute, democrazie teiste contro comunismo ateo. La religione del come se, contro la religione del non c’è. La religione della convenzione, che lascia Dio come ipotesi, contrasta con la religione della rivelazione, che dà Dio per certo in quanto si è rivelato. La religione della convenzione pertanto è relativista, perché il “come se” non descrive una realtà, ma la finge. La religione della rivelazione è invece assoluta, perché dice che Dio è, e perciò non finge una realtà, ma la afferma. È abbastanza paradossale che la religione della rivelazione chieda soccorso alla religione della convenzione. È quello che fa la Chiesa quando chiede che gli uomini facciano per finzione ciò che non credono per fede. Lo ha fatto il cardinale Ratzinger nel discorso di Subiaco, poco prima di essere eletto papa: egli ha cercato di rovesciare il “come se” a favore della sua causa, e agli uomini moderni ha detto: se non credete in Dio, fate almeno come se Dio ci fosse. La sua idea era che ciò per gli uomini fosse comunque un guadagno; però in tal modo faceva suo il relativismo criticato negli altri, e riportava la Chiesa a ragionare, come ai tempi ottocenteschi, in termini di “tesi” e “ipotesi”. Questa idea, tutta moderna, di non credere ma fingere che Dio ci sia, non è affatto una rarità: sono in molti a praticarla, soprattutto tra i membri delle classi dirigenti, che siano esponenti dell’esecutivo o ex presidenti del Senato, e sono tutti quelli che vorrebbero una religione civile: radici cristiane, legge e ordine.Ora a me pare – e per questo ho scritto il libro “Se questo è un Dio”– che siamo giunti a un punto critico, per il quale è necessario abbandonare ogni religione del come se: sia quella del come se Dio non ci fosse, sia quella del come se Dio ci fosse; e una buona ragione è che queste non sono fedi, ma sono ideologie (non che le ideologie siano un male, ma lo sono se si pretendono religioni), e l’una è l’eguale e il rovescio dell’altra.Se si crede che Dio non c’è, e che la società non debba impicciarsi di lui, è molto meglio fare l’opzione atea; è una opzione perfettamente legittima che ha piena dignità intellettuale e non sminuisce in alcun modo la stima dovuta a chi la fa; nei Salmi si dice che “è stolto chi dice che Dio non c’è”; invece il papa Giovanni XXIII, nell’enciclica “Pacem in terris”, diceva che nel non credente è presente la luce della ragione e l’onestà naturale, e l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per quanto mi riguarda, attraversando la seconda metà del Novecento, spesso ho trovato più fede e più amore negli atei, o che si definivano tali, che negli osservanti. Se invece si pensa che Dio c’è, non lo si può introdurre di contrabbando, per esempio facendo appello a una legge naturale che sarebbe obbligatoria per tutti e dovrebbe essere imposta a tutti attraverso le vie del potere che non sono le vie di Dio. Ogni doppiezza nei riguardi di Dio deve essere esclusa. Dio è una cosa semplice, non è una cosa complicata o contorta; il linguaggio che lo riguarda è quello del sì sì, no no; ciò che resta oscuro di Lui è un problema di fede, non una questione enigmistica. Soprattutto i giovani hanno bisogno di chiarezza nei discorsi che riguardano Dio. Già troppo li abbiamo gettati in un mondo di incertezza, di precarietà, di false rappresentazioni, di ipocrisie; un mondo in cui la reality è in verità una fiction, il virtuale si mangia il reale, l’immagine travisa la visione, la visione sostituisce l’esperienza. Li abbiamo messi in una rete di comunicazioni, di messaggi, di codici cifrati, si può in tempo reale raggiungere chiunque e comunicare qualsiasi cosa. Ma dov’è la cosa da comunicare? Quali sono i loro maestri? Siamo stati capaci di dar loro libri da comodino, che non si lasciano, libri da leggere perfino in bagno, come noi facevamo? Perché li costringiamo a cercare guru esotici, ad andare in India, a uscire fuori di sé per trovare qualcosa di sé?I giovani salgono sull’onda, sono nel turbine, si piegano al vento, ma hanno bisogno di qualche sponda, di qualche affidamento, di qualche punto fermo. Se hanno un amico devono poter contare su di lui, se hanno un amore, che almeno non troppo presto finisca. Se hanno un lavoro, che non lo perdano domani. Non possono mettere anche Dio nella loro instabilità, nel vuoto delle risposte che non vengono date. Non possiamo parlare loro di un Dio che c’è ma facciamo finta che non ci sia, che non c’è ma facciamo finta che ci sia. Il vero problema non è il “se”, ma il “come” di Dio. Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio? Quale è il racconto che lo narra? Quale è il Dio di cui vale la pena che i giovani decidano se prenderlo o lasciarlo? Anche il papa dice che non ogni Dio è degno di fede. Ebbene, quale è il Dio di cui si possa dire: “Questo è un Dio”?Non si tratta di una domanda nuova. Sono almeno quattro secoli che questa domanda preme sulle frontiere della cristianità, è la domanda che non ha avuto soddisfacente risposta, e su questa domanda inevasa si è costruita la modernità. Perché la modernità ha detto alle Chiese e ai principi cristiani che si facevano le guerre religiose in Europa: se questo è il vostro Dio, allora facciamo come se Dio non ci fosse. Se Dio presidia i troni, se invade l’Impero per stabilirvi il potere temporale dei Papi, se istituisce censure e inquisizioni e nega libertà alle coscienze, allora facciamo come se Dio non ci fosse. E oggi si potrebbe dire alla Chiesa: se “chi è l’uomo?” lo chiedi alla biologia invece che al Vangelo, se cadi nel feticismo dell’embrione, se chiami il feto persona e gli sacrifichi la madre, se Dio sta nelle staminali e non nelle speranze di vita dei malati, se Dio preferisce una vita fisica inerte e incosciente attaccata alle macchine invece della “vita vera” nella casa del Padre, allora facciamo come se Dio non ci fosse.E d’altra parte, nella ricerca di ciò che Dio potrebbe essere per l’uomo, la società del XVI e XVII secolo ha detto alle Chiese: se Dio non si compiace della umana ricerca del vero, se non ci incoraggia nella nostra impresa di costruire l’età moderna e il futuro, se non ci stimola alle scoperte della scienza, se non presidia la nostra libertà quando rovesciamo i potenti dai troni e mettiamo le fondamenta al diritto, se non ci conferma quando alla giustizia offriamo gli strumenti della certezza giuridica e del diritto positivo, allora facciamo come se Dio non ci fosse.È da quattro secoli che la modernità sta su questo fronte, e per quattro secoli la cristianità non ha dato risposte, non ha aperto varchi alla critica; ancora nell’8oo la Chiesa cattolica lanciava col Sillabo l’anatema contro gli “errori” moderni, a cominciare dalla libertà; e solo nel Novecento, col Concilio, la Chiesa ha smesso di pronunciare condanne e ha cominciato a dare una risposta nuova a quella domanda. Dunque quella ipotesi, quella finzione, “facciamo come se Dio non ci fosse”, “etsi daremus non esse Deum”, si è rivelata una potente molla del progresso storico, ma anche una potente spinta alla conversione della Chiesa, e ad una qualificazione e purificazione del discorso su Dio.È interessante notare che questa formula potente che ha dato avvio alla modernità e ha sottoposto la Chiesa al pungolo della profezia, viene dalla letteratura, viene da un libro, e si potrebbe quindi assumere non solo come simbolo di un passaggio epocale, ma anche come simbolo della potenza della letteratura.L’espressione “anche nella blasfema ipotesi che Dio non esista o che Egli non si occupi dell’umanità”, figurava infatti nella Introduzione di un libro del 1625, in cui per la prima volta si cercava di stabilire un diritto della guerra e della pace. Ne era autore un cristianissimo giusnaturalista olandese, Ugo Grozio, che per costruire il suo edificio giuridico, autonomo e capace di funzionare da sé, sentì il bisogno di mettere Dio tra parentesi. Questa formula letteraria, come abbiamo visto, ha avuto una grandissima fortuna; e oggi ci permette di dire che la laicità moderna, che appunto fa come se Dio non ci fosse, ha avuto il suo rivestimento linguistico, all’inizio, non da un illuminista ateo, ma da un giusnaturalista cristiano.È inutile discutere adesso se era proprio necessario, allora, per entrare nella modernità, mettere Dio alla porta e fare come se Dio non ci fosse. Se è andata così, vuol dire che storicamente non hanno potuto affermarsi altre alternative. Ma se oggi ne parliamo è perché, a mio giudizio, la questione, bloccata da quattro secoli, si è in qualche modo riaperta; e a riaprirla non è stata la cultura laica, che su questa materia non ha prodotto un nuovo pensiero, ma è stata proprio la Chiesa; e ciò ha fatto col Concilio Vaticano II.Il Concilio ha rimesso in discussione la finzione pubblica “facciamo come se Dio non ci fosse”, e non lo ha fatto mettendosi ancora una volta su un piano controversistico ed apologetico, ma riaprendo il discorso su Dio. Finalmente, col Concilio, la Chiesa ha sentito il bisogno di rispondere alla domanda moderna su Dio, e per farlo ha dovuto prima rimettere in discussione se stessa, poi riprendere la strada degli antichi Padri della Chiesa, greci e latini, che per costruire la fede non enunciavano dei dogmi, ma raccontavano una storia, che chiamavano storia della salvezza, “historia salutis”.Ebbene il Concilio è tornato a narrare la storia della salvezza, dal disegno del Padre alla comparsa di Adamo all’incarnazione del Figlio e fino a noi; e a leggerla questa storia della salvezza raccontata dal Concilio appare abbastanza diversa, anzi molto diversa, dal modo in cui noi l’avevamo ascoltata e capita fino a ieri.Perciò oggi il Concilio è tanto contestato, perché riprendendo in mano la storia antica, apre a una storia nuova. Si può dire che non legga più la storia della salvezza come “storia sacra”, ma come storia umana, come storia laica e profana amata e sorretta da Dio. Perciò molti libri di cui sono pieni gli scaffali dei seminari e delle università cattoliche dovrebbero essere riscritti. Leggere la fede cristiana attraverso la historia salutis del Concilio è un esercizio fecondo, pieno di sorprese. E da lì si capisce la gioia, la forza liberatrice, l’immagine dolce e misericordiosa di Chiesa che dal Concilio voluto da papa Giovanni è stata trasmessa. Perché dal piano di Dio nella storia della salvezza che il Concilio ha ricostruito nell’alveo della grande Tradizione, emerge non un Dio bifronte, quale spesso si trovava nei vecchi catechismi, terribilis et fascinans, per usare il binomio di un famoso libro di Rudolf Otto, ma un Dio solamente buono, una sola faccia, nella sua indivisa bontà e nella gratuità del suo dono. Emerge un Dio che non si pente dell’uomo, che non lo scaccia dal giardino dell’Eden dandogli per punizione la morte, il sudore della fronte per il lavoro e i dolori del parto. Queste non sono pene del peccato, come diceva un’antropologia pessimistica, ma sono la condizione creaturale dell’uomo, la sua gloria; né la natura dell’uomo è decaduta, sfregiata dal peccato originale, perché mai, neanche dopo la caduta, dice il Concilio, Dio ha cessato di amarlo e di offrirgli i mezzi della salvezza. Il Dio raccontato dal Concilio perciò, non deve ottenere “soddisfazione” per l’offesa ricevuta, è un Dio che non deve essere “placato” da nessun sangue, non quello del Figlio, tanto meno quello delle innumerevoli vittime; la via sacrificale, nella religione come nella storia, nelle prigioni come nella guerra, è preclusa. È questo un Dio che non è un padrone sacro, ché anzi è più laico di noi, un Dio “relativista”, perché ama santi e peccatori ed è amico di tutte le culture, senza badare alle loro radici; un Dio che non difende i diritti di Dio, perché anzi se ne è svuotato entrando come carne nella nostra umanità; un Dio non classista, perché è entrato nel mondo non dalla parte dei signori, ma scegliendo la condizione del servo, e anzi dello schiavo, che era il “non uomo”, il migrante naufrago di allora; un Dio legislatore, ma nello stesso tempo obiettore, perché è il primo a essere felice se la legge è trasgredita per amore, come la trasgredirono Giuseppe e Maria, senza di che il figlio di Dio neanche sarebbe nato, e come la trasgredì Gesù che violò il sabato e mandò libera l’adultera; un Dio sofferente e addolorato, perché la sua creazione è ferita, e perché l’umanità è divisa, gravata dal peccato, preda del dominio e vittima della guerra; un Dio che non si sostituisce magicamente a ciò che gli uomini possono fare da soli, ma li rifornisce di amore perché possano farlo; un Dio dunque del quale non c’è bisogno di fare come “se non ci fosse”.
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sabato 12 settembre 2009

A Mantova, al Festival della Letteratura "Opposizione dura senza paura"

di MARIO BAUDINO



Ora e sempre
Fiera opposizione a Mantova. Luis Sepúlveda (nella foto) alza il pugno accolto da un’ovazione e tuona contro gli italiani che «hanno smesso di essere cittadini per essere telespettatori». Nadine Gordimer, premio Nobel, anche lei tra le ovazioni, ricorda che «in Italia ci sono innumerevoli esempi di corruzione», se la prende con Berlusconi e chiede al pubblico, a proposito di libertà di stampa: «Quanto liberi vi sentite voi di esprimere le vostre preoccupazioni?». Ricorda anche come in Sud Africa «chiunque abbia la sensazione di essere stato danneggiato da un articolo può aprire una vertenza legale in tribunale a porte aperte».



Chi l’avrebbe mai detto.
Gad Lerner è interrotto dagli applausi quando ironizza sulla Padania; persino il serissimo Raniero La Valle, parlando di fede e di esistenza di Dio, si concede una battuta su chi frequenta troppe ragazze disponibili: giù battimani.
Così, forse contagiati dal clima, i giovani industriali di Mantova sponsorizzano l’incontro con il sociologo Luciano Gallino e il giornalista Luca De Biase, dedicato alla crisi economica e finanziaria, e al modo in cui investiamo i nostri risparmi. Titolo, esemplato su una celebre frase di un giurista americano degli Anni Venti: «Non esiste un azionista innocente». Chi l’avrebbe mai detto.


Proustiana
Muriel Barbery racconta la genesi del suo best seller, dove il personaggio della portinaia inaspettatamente colta e raffinata è di certo uno degli elementi che più seducono il lettore. Nella prima versione, spiega, la portinaia Renée parlava un po’ come una caricatura di se stessa, aveva insomma un linguaggio basso e approssimativo.Poi l’editore le disse: «Per lei, in quanto scrittrice, tutto è possibile. Basta che lo voglia, e la sua portinaia può parlare come la duchessa di Guermantes». Detto fatto, nacque L’eleganza del riccio. Du côté de chez l’hérisson.



Off Mantova
Una presentazione «fuori festival», e anche un po’ polemica. L’ha organizzata l’editore Fanucci, oggi alle 17 nella libreria Mondadori di Mantova. L’autore invitato è Rina Frank, un’importante scrittrice israeliana, col nuovo romanzo Vite Fragili. Dialogherà con lei Pino Roveredo, autore che ha all’attivo anche un Campiello. Nasce così l’Off-festival. L’editore non fa mistero del fatto che ormai si sentiva un po’ snobbato dagli organizzatori. Negli anni, dice, lo hanno per lo più ignorato. «Ma se la loro ambizione è mettere il lettore al centro, non dovrebbero dimenticare quanti sono i lettori che seguono i nostri libri».
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martedì 8 settembre 2009

La scossa

di RANIERO LA VALLE

La nostra vita politica è entrata in una fase selvaggia a causa dell’anomalia, tutta italiana, di un potere che è finito, ma che non c’è modo di rimuovere con i mezzi politici normali, a causa di un sistema istituzionale perverso che lo tiene in vita oltre ogni decenza. La lotta politica prende allora altre strade, scava ferite, semina vittime, travolge venerande istituzioni; in tal modo il crepuscolo del berlusconismo manifesta tutta la forza distruttiva e corruttrice che questa forma politica ha avuto fin dall’inizio. La settimana di fuoco culminata con le dimissioni di Boffo dall’Avvenire ne è stata un’impressionante conferma.Ricordiamo i fatti. Berlusconi è assediato dalle macerie della sua reputazione. Non può andare in TV, non può andare in Parlamento, non può fare una vera conferenza stampa, non può fare una politica; debole com’è, se non fa quello che gli chiedono perde Bossi, o perde Fini, o perde la Chiesa.
Allora decide la sortita. I giornalisti devono cambiare mestiere, gli accusatori devono essere diffamati, i moralisti accusati di immoralità. C’è lo strumento mediatico: Il Giornale. Ma il suo direttore, Mario Giordano, a suo modo è un idealista; ha in mente ancora la dignità professionale di Montanelli, i toni mai esagerati del fondatore Mario Cervi. E il 21 agosto annuncia: “Cari lettori, mi dispiace ma vi devo dire addio”: lui non vorrebbe, ma non ci sta a fare un giornale “che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove”. E svela, in una parentesi, che le camere da letto predestinate a questo gioco al massacro sono, nell’ordine, dopo quella del premier, quelle di “direttori di giornali, editori, ingegneri” e, via assortendo, “first lady, body guard o avvocati”. Incautamente scopriva le carte; ed era lui il primo direttore a cadere.
Non passava una settimana e il 28 agosto il nuovo direttore Vittorio Feltri passava alla barbarie, e aggrediva Dino Boffo con il trasparente sottinteso che se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. Ma qui c’era una eterogenesi dei fini: perché Boffo è l’Avvenire, l’Avvenire è la Chiesa, la Chiesa sono il Papa, il segretario di Stato e i Vescovi, e nella solidarietà a Dino Boffo saltava il lavacro della Perdonanza per Berlusconi all’Aquila e c’era la rottura tra Chiesa e governo, un governo con cui la Chiesa aveva avuto i più stretti rapporti (“eccellenti”, continuava a dire il direttore dell’Osservatore Romano) e che aveva apprezzato siccome omogeneo ai valori cristiani, come neanche nei riguardi dei governi democristiani era mai avvenuto.
A quel punto la partita si faceva grossa; ed era lo stesso Dino Boffo, nella sua lettera di dimissioni, ad evocarla: “Feltri non si illuda. C’è già dietro di lui chi, fregandosi le mani, si sta preparando a incamerare il risultato di questa insperata operazione”; nei giornali di quei giorni, aggiunge, “non si menavano solo fendenti micidiali, l’operazione è presto diventata qualcosa di più articolato”.
Quale operazione? Si può fare l’ipotesi che si sia aperta una partita di potere nella destra italiana, nel capitalismo italiano (la sinistra non c’è più), e che la sua ala non confessionale voglia chiudere i conti non solo con Berlusconi, ormai inaffidabile, ma anche con la Chiesa, sofferta come troppo invasiva.
Sarebbe sbagliato, però, per la Chiesa, rispondere sullo stesso terreno, cercando di ricostruire, in altre forme, un fronte clerico-moderato. La lezione è che la saldatura tra la Chiesa e un governo espone a un fortissimo disagio la variegata e pluralistica base cattolica che spesso si sente ferita nelle sue convinzioni più profonde; in questo caso, essa si è fatta largo a forza attraverso il pur prudente filtro delle lettere al direttore dell’Avvenire.
E l’altra lezione è che forse l’esperimento di un giornale “dei vescovi”, dove ogni parola, magari scritta alle undici di sera sotto l’urgenza della chiusura, viene fatta risalire alla CEI, al Papa, o addirittura al Vangelo, non ha dato buoni risultati. Si crea un corto circuito che trasmette la scossa da una modesta scrivania redazionale alla suprema cattedra nei Sacri Palazzi. Forse la Chiesa ha bisogno non di un giornale in tal modo “cattolico”, ma di un giornale cristiano. Ricordandosi di tutte quelle belle cose che si è detto dovrebbero fare i laici, senza "rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa” e senza pensare “che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione”. È il Concilio, alla lettera, interpretato nella Tradizione.


Raniero La Valle
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