martedì 25 novembre 2014

C’È BISOGNO DI UN PARTITO NUOVO

VII Edizione “La Bibbia sulle strade dell’uomo”
Catanzaro – Cosenza – Messina 20-22 novembre 2014

Raniero La Valle
Vivrai del lavoro delle tue mani (Sal. 127, 2)
Messina 22 novembre 2014
  
            Ci vuole del coraggio ad assumere come tema di questo Convegno il lavoro, nel momento della sua massima crisi. Le riflessioni svolte fin qui hanno mostrato come il lavoro non sia un tema  circoscritto, un segmento dell’esperienza umana, ma investa l’intera esistenza, l’intera concezione e l’intero destino umano, sia che lo si discuta in sede teorica, sia che lo si canti nelle canzoni di dolore e di protesta, sia che sia oggetto dello scontro sindacale e politico. Come ha detto il vice-sindaco di Messina nel suo intervento di saluto, il fallimento del lavoro, di un lavoro, è il possibile fallimento dell’esperienza umana.
Pertanto si può stabilire un rapporto tra lavoro e civiltà, prendere il lavoro come misura della civiltà, e identificare la storia del lavoro con la storia della civiltà. E in questo quadro noi possiamo fissare un giorno preciso in cui la civiltà ha raggiunto il suo culmine: ed è stato nella seconda metà del ‘900 quando in Italia, il 20 maggio 1970, è stato promulgato lo Statuto dei diritti dei lavoratori; da lì poi è cominciato il declino, una discesa che ora sta diventando un precipizio.
            Ma è molto significativo che quando nel Novecento il lavoro ha raggiunto la sua massima forza e il più alto riconoscimento della sua dignità, esso non è giunto a questo approdo da solo, ma insieme a molte altre istanze sociali e ad altre conquiste.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è arrivato infatti, tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, con molte altre cose grandi e preziose.
Il 12 dicembre 1962, come volano d’avvio del centrosinistra si è avuta la nazionalizzazione  dell’energia elettrica con una legge firmata da Fanfani, Colombo, La Malfa, Tremelloni; essa consacrava l’idea che le grandi risorse non dovevano essere fonte di speculazione privata, ma dovevano essere messe al servizio dell’utilità comune. Il 31 dicembre 1962 era la volta della Scuola media statale obbligatoria, per una scuola che fosse veramente una scuola di tutti, di cui anche gli sfavoriti, i disabili fossero al centro; il 6 agosto 1967 arrivava la legge urbanistica che offriva ai comuni lo strumento dei piani regolatori, innovando per la prima volta la materia dopo la legge urbanistica del 1942; nel  febbraio 1968 si faceva la legge per l’elezione dei consigli regionali e con i provvedimenti finanziari del 16 maggio 1970 per l’attuazione delle regioni si poteva giungere alle prime elezioni regionali nel 1970; l’11 dicembre 1969 c’era la legge per l’ Università.
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domenica 2 novembre 2014

Alla Leopolda e al “vecchio Sinodo”



Pubblichiamo l’intervento tenuto da Raniero La Valle il 30 ottobre 2014 all’assemblea tenutasi nella Sala delle Colonne della Camera dei Deputati sul tema: “Riforme istituzionali e legge elettorale: innovazione o restaurazione?

Sono state fatte qui molte e decisive critiche alla nuova Costituzione che è in gestazione alla Camera. Ma chi le ha fatte non è stato alla Leopolda. Se infatti fosse andato alla Leopolda avrebbe avuto la rivelazione, sarebbe caduto da cavallo e avrebbe capito che tutto quello che si è pensato fin qui era sbagliato. Un testimone oculare, il costituzionalista Stefano Ceccanti, ha riferito che alla Leopolda erano presenti giovani di tutta Italia, soprattutto tra i 25 e i 35 anni, “quasi tutti universitari o laureati, con una forte propensione all’intervento in pubblico e con una cultura consolidata di sinistra liberale. Indistinguibili le provenienze familiari, le culture originarie, la linea di frattura per appartenenza religiosa. Se parlassimo loro di queste cose, per loro irrilevanti, sarebbe come parlare di Jurassik Park. Da questo punto di vista l’attuale configurazione dei sindacati che risale alla Guerra Fredda mi sembra che per loro rientri in questa categoria”.
Dunque secondo osservatori che vi erano presenti, alla Leopolda si sarebbero smaltite, come reperti da rottamare, famiglie, culture e religioni. Sono cose da reduci, da mangiatori di gettoni e fotografi non digitali. Per quelli per cui “il futuro è solo un inizio” provenienze familiari, vecchie culture e identità religiose sono irrilevanti. E perciò sono anche obsolete tutte le lotte che si sono fatte o si possono fare per queste cose.
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martedì 28 ottobre 2014

Dal Sinodo dei vescovi alla Chiesa sinodale



 di Raniero La Valle

Conclusa la prima fase del Sinodo dei vescovi, la Chiesa è rimasta in stato sinodale, e vi resterà, nella riflessione e nella consultazione, fino alla sessione conclusiva del Sinodo, quella deliberativa, che si celebrerà nell’ottobre dell’anno prossimo.
È da presumere però che anche dopo l’assemblea dell’anno prossimo la Chiesa cattolica resterà in stato sinodale: sia perché le materie affrontate (che, attraverso l’ottica della famiglia, investono in realtà l’intera condizione della vita cristiana) non potranno considerarsi esaurite o regolate una volta per tutte con le prossime deliberazioni, sia perché l’azione di papa Francesco ha già modificato profondamente l’istituzione sinodale, trasformandola da riunione periodica e autoreferenziale di vescovi a una modalità permanente della vita e del governo della Chiesa.
Francesco aveva espresso questa intenzione già prima dell’assemblea di ottobre, quando l’8 aprile del 2014 aveva scritto una lettera, inaspettatamente solenne, al Segretario generale del Sinodo, cardinale Baldisseri, per informarlo di aver deciso di fare vescovo il sotto-segretario del Sinodo, don Fabio Fabene; e la motivazione era di mettere in evidenza lo “scopo precipuo” del Sinodo dei vescovi “che consiste nella comunione affettiva ed effettiva” dei vescovi tra loro e col papa, ai fini di una partecipazione dei vescovi “alla sollecitudine del Vescovo di Roma per la Chiesa Universale”. Per “rispecchiare” questa comunione affettiva ed effettiva era necessario pertanto che quel prelato di curia messo al servizio del Sinodo fosse investito dell’ordine episcopale: dunque non solo un’investitura burocratica, ma una legittimazione sacramentale. E questa era l’occasione per il papa per manifestare le sue intenzioni riguardo al futuro e alla finalità stessa del Sinodo: “La larghezza e la profondità dell’obiettivo dato all’istituzione sinodale derivano dall’ampiezza inesauribile del mistero e dell’orizzonte della Chiesa di Dio, che è comunione e missione. Perciò si possono e si devono cercare forme sempre più profonde e autentiche dell’esercizio della collegialità sinodale”.

Una rifondazione del Sinodo

Nella lettera Francesco ricordava che era stato Paolo VI a istituire il Sinodo nel 1965 “dopo aver scrutato attentamente i segni dei tempi”, e scriveva: “Trascorsi quasi cinquant’anni, avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio Ministero Petrino serve, quanto mai, ravvivare ancora di più lo stretto legame con tutti i Pastori della Chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità conciliare”: Dunque si trattava di una sorta di nuova istituzione del Sinodo, di una rifondazione, dopo cinquant’anni di stallo e ripartendo direttamente dal Concilio. E qui veniva forse pure una risposta a quella domanda cruciale con cui il papa aveva in qualche modo inaugurato il suo pontificato, la domanda con cui si era rivelato al mondo come un papa non convenzionale: “Chi sono io per giudicare?”. E la risposta era che neanche il papa può giudicare da solo: «Non v’è dubbio che il Vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli Vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza. Il successore di Pietro deve sì proclamare a tutti chi è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” ma, in pari tempo, deve prestare attenzione a ciò che lo Spirito Santo suscita sulle labbra di quanti, accogliendo la parola di Gesù che dichiara: “Tu sei Pietro….” partecipano a pieno titolo al Collegio Apostolico».
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domenica 26 ottobre 2014

DAL PROFETA ISAIA: TI HO CHIAMATO PER NOME


Pubblichiamo il commento fatto da Raniero La Valle il 24 ottobre 2014 alla parrocchia della Traspontina in Roma, del passo di Isaia 45, 1-13, nel ciclo delle letture bibliche che si tengono in quella chiesa.

Questo il passo di Isaia:

1Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. 2Io marcerò davanti a te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le spranghe di ferro. 3Ti consegnerò tesori nascosti e ricchezze ben celate, perché tu sappia che io sono il Signore, Dio d’Israele, che ti chiamo per nome. 4Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
5Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, 6perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri. 7Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo. 8Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo».
9Guai a chi contende con chi lo ha plasmato, un vaso fra altri vasi d’argilla. Dirà forse la creta al vasaio: «Che cosa fai?» oppure: «La tua opera non ha manici»? 10Guai a chi dice a un padre: «Che cosa generi?» o a una donna: «Che cosa partorisci?».
11Così dice il Signore, il Santo d’Israele, che lo ha plasmato: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? 12Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo; io con le mani ho dispiegato i cieli e do ordini a tutto il loro esercito. 13Io l’ho suscitato per la giustizia; spianerò tutte le sue vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro e non per regali», dice il Signore degli eserciti (Is. 45, 1-13).

Commento

Prima fase: il testo

Quello che abbiamo ascoltato è un passo del Deutero-Isaia (il Secondo Isaia) che risale al periodo dell’esilio babilonese, e più esattamente alla fine dell’esilio a Babilonia dove i Caldei avevano deportato la maggior parte della classe dirigente d’Israele - il grosso della popolazione era rimasta a Gerusalemme -  e aveva trascinato la stessa monarchia davidica. Questo Secondo Isaia sta tra il primo Isaia, che giunge fino al capitolo 39, e si colloca prima dell’esilio, e gli scritti del terzo Isaia, dal cap. 56 in poi,  che si collocano dopo il ritorno dall’esilio. E questo è già molto bello perché vuol dire che il più grande profeta di Israele non era un singolo, ma era un Sinodo. Ed è solo perché era un Sinodo, era un annodarsi di voci e tradizioni diverse, che ha raggiunto la potenza che lo ha portato fino a noi.
Si tratta di un passo molto bello e molto difficile.
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martedì 21 ottobre 2014

SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE ALLA PRIMA COMMISSIONE


(Raniero La Valle)
 IL SENATO: DA ENTE INUTILE  A ENTE PERICOLOSO?
La decapitazione del Parlamento

Pubblichiamo il testo dell’audizione di Raniero La Valle, presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, presso la I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, il 20 ottobre 2014, in occasione dell’inizio del dibattito della Camera sulle riforme costituzionali

Grazie al presidente Sisto e ai colleghi deputati per questo invito.
Credo che la cosa più utile che io possa fare sia di farvi conoscere le reazioni alla riforma costituzionale che si sono manifestate in quell’ area di opinione del Paese che si riconosce o è in sintonia con le posizioni espresse dai Comitati Dossetti per la Costituzione di cui io sono il presidente eletto.
Dico, per i colleghi più giovani, che Giuseppe Dossetti è stato un grande costituente, uno dei principali ispiratori della Costituzione e di molti suoi articoli. Per lui la Costituzione non era semplicemente una legge per così dire rinforzata, era un patto non solo politico ma morale tra i cittadini e lo Stato, tra il popolo e le istituzioni; la Costituzione era un bene comune ed era così importante per lui che la mise perfino sopra la sua successiva scelta di vita monastica, tanto che quando la Costituzione fu in pericolo scese dal suo eremo per tornare nella città, nella politica, per difenderla; e ai giovani a cui cercava di insegnare la vita cristiana disse un giorno che se avessero fatto cilecca con i dieci comandamenti, sarebbe già stato molto se fossero rimasti fedeli ai valori della Costituzione.
Moltissima gente in Italia la pensa così. Molti si sono accorti che la Costituzione è l’unica cosa che ha tenuto nella tempesta, che li ha salvati quando ci sono stati tentativi di golpe, stragi di Stato, carabinieri e guardie di finanza infedeli, terrorismo, Brigate Rosse, lo schianto del sistema politico e dei partiti. La Costituzione è stata quella che ha tenuto in piedi lo Stato, ha mantenuto l’unità del Paese, ha sconfitto la violenza, non solo per l’efficacia delle sue norme, ma per il suo straordinario prestigio, per la persuasività della sua visione dei diritti e dei doveri, per il consenso di massa di cui ha goduto e per l’onore con cui si è stati convinti che dovesse essere trattata. Questo patrimonio può rapidamente andare perduto. Perciò il problema non è stato mai se essa potesse essere modificata o no, perché è chiaro che poteva esserlo, il problema era del modo di farlo, era l’attenzione, la delicatezza, la cura con cui la Costituzione dovesse essere maneggiata anche nei processi delle sue eventuali modifiche. Quello che ora è successo è che questa complicità virtuosa con la Costituzione si è rotta, che questo riguardo è venuto meno.
Perciò la critica che è stata sollevata contro questa riforma prima ancora che sul merito è stata sul metodo. E’ sembrato che la riforma, subito volgarizzata come diretta all’abolizione del Senato, venisse intrapresa non per una vera necessità, ma per fini ad essa estranei, che venisse usata come strumento per qualche altra cosa, come mezzo di una lotta per il potere, come una grammatica per un’altra scrittura. È sembrato quindi che essa fosse maltrattata e che dopo, quale che fosse stato il punto d’arrivo, essa non sarebbe stata più autorevole, non sarebbe stata più credibile. Ha scandalizzato la fretta, e ha scandalizzato il piglio autoritario con cui si è preteso di raggiungere il risultato voluto. Se si deve togliere il Senato entro l’8 agosto bisognerebbe poter dimostrare che questo serve al vero bene della Repubblica, non per fare un inchino al presidente del Consiglio, perché se no c’è il rischio di finire come la Costa Concordia.
Se  questo è il disagio che si è potuto avvertire sul piano generale, vi sono poi dei punti specifici di preoccupazione che vorrei brevemente illustrare.

1) Il primo riguarda la consapevolezza, da tutti condivisa, che lo Stato si trova nel vortice di grandi mutamenti. Cambia la sovranità, la moneta, lo statuto del lavoro, l’industria, il clima, la guerra. Nessuno sa dove si andrà a finire. L’assetto costituzionale che ha retto finora può rappresentare l’unico punto di stabilità, di rassicurazione, può rappresentare, per un Paese stressato, l’unica incognita che non si apre. Cominciare la riforma dalla decapitazione del sovrano, dimezzando il Parlamento, è imprudente, semmai è una cosa da fare alla fine, non all’inizio del processo riformatore.
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giovedì 16 ottobre 2014

Il Sinodo esploso nella libertà



di Raniero La Valle

Dalle dottrine alle persone, dal giudizio alla misericordia – Spodestare la morte

Il Sinodo dei Vescovi è esploso nella libertà. Come aveva fatto Giovanni XXIII che aveva liberato il Concilio permettendogli di eleggere i membri delle commissioni conciliari e sparecchiandogli il tavolo invaso dai testi già preparati, così ha fatto Francesco col Sinodo straordinario sulla famiglia. Come aveva detto al quotidiano argentino La Nación: “io sono stato relatore del Sinodo del 2001 e c’era un cardinale che ci diceva ciò che si doveva dibattere e ciò che non si doveva. Questo non succederà adesso. Ho perfino dato ai vescovi la facoltà, che spetterebbe a me, di scegliere i presidenti delle commissioni. Saranno loro a scegliere i segretari e i relatori. Questa è la pratica sinodale che a me piace. Che tutti possano esprimere le proprie idee in tutta libertà. La libertà è sempre molto importante. Altra cosa è il governo della Chiesa, che è nelle mie mani, dopo le consultazioni del caso”.
Così per quanto riguarda il metodo. Ma per quanto riguarda il merito la liberazione è stata ben più sostanziale, ed è stata formulata nell’omelia pronunciata da papa Francesco il 13 ottobre a Santa Marta, la mattina in cui doveva essere presentata la “relatio post disceptationem” cioè la prima relazione riassuntiva del dibattito fatta dal cardinale ungherese Peter Erdö. Parlando dei dottori della legge che contestavano Gesù, il papa ha detto: “non sono capaci di vedere i segni dei tempi. Perché questi dottori della legge non capivano? Prima di tutto perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema, avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Per loro erano cose strane quelle che faceva Gesù: andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani. A loro non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, quella dottrina della legge, che loro, i teologi, avevano fatto nei secoli. Avevano dimenticato che Dio non è il Dio della legge, ma è il Dio delle sorprese”. E nella messa di apertura del Sinodo, commentando la parabola della vigna, aveva ammonito i vescovi a non frustrare “il sogno di Dio”, facendo come i cattivi pastori che caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito. 
Dunque se c’era una cosa che doveva fare il Sinodo, non era certo di costruire nuovi piedistalli alla legge, ma di fare spazio all’inventiva e al sogno di Dio.
La svolta del Sinodo

Il Sinodo nel suo insieme si è fatto coinvolgere da questo clima creato dal papa e, benché non si possa sapere come finirà l’anno prossimo, certamente ha già segnato una svolta, e ha superato due soglie.
La prima è stata nel mutamento della percezione di che cosa sia il “deposito” che la Chiesa deve custodire e promuovere. Se prima il deposito era inteso come un insieme di dottrine, derivate da Dio, ora il deposito è inteso come le persone amate da Dio, e perciò non solo le persone della Chiesa, anche quelle del “mondo”. Sono loro di cui la Chiesa deve avere cura, che deve custodire, coltivare, far crescere.
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mercoledì 1 ottobre 2014

QUALE GUERRA ALLO STATO ISLAMICO?


di Raniero La Valle

Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS, o come si dice lì, DAISH), è una novità di prima grandezza nel tormentato corso della storia che stiamo vivendo. Non è solo una delle tante irruzioni dell’estremismo islamico che ci hanno turbato in questi anni, non è un’organizzazione terroristica clandestina come quelle contro cui siamo in guerra ormai a partire dall’attentato alle Torri Gemelle. È tutto questo, ma la novità è che si è costituito in Stato, sotto il comando di un Califfo, ha un territorio, un popolo, un esercito. E in più, almeno a parole, coltiva un sogno di conquista che vede il Califfato estendersi fino a Roma, in Spagna, in Portogallo… Però, a differenza delle antiche conquiste islamiche, questa volta non si tratterebbe di far marciare gli eserciti fino a Vienna o all’Atlantico, ma di far nascere lo Stato islamico, uno Stato pseudoreligioso mondiale, dall’interno dei singoli Paesi, per proselitismo, per teste di ponte, per contagio di masse disorientate e disponibili a farsi ingaggiare sia in terre a popolazione islamica sia in terre di “infedeli”.

Il Califfato dell’Impero ottomano

Trattandosi di un sogno impossibile nessuno in Occidente lo prende sul serio, nessuno lo analizza, lo esamina, non se ne parla nemmeno. La stessa proclamazione del Califfato è stata considerata poco più che un folklore, ignorando che nella storia dell’Islam e del mondo il Califfato è stata una cosa molto seria: l’ultimo Califfato è stato un Impero esteso su tre continenti, Asia, Africa ed Europa, le cui province europee si chiamavano Rumelia, da Roma; era l’Impero ottomano che aveva per capitale Costantinopoli, che però veniva chiamata coi nomi dei quartieri in cui la città era divisa, Stambul, Pera, Galata ed Eyub, per non dire Costantinopoli, che era un nome “cristiano”; il sovrano di questo Impero era un Sultano, detto anche Kan o Padisha, che a norma della Costituzione riuniva nelle sue mani il potere politico sull’Impero e il Califfato supremo dell’Islam; come Califfo Supremo egli era il protettore della religione musulmana e il suo nome era invocato anche nelle moschee dei territori non soggetti al dominio turco nella preghiera del venerdì; e c’è voluta la rivoluzione dei Giovani Turchi nel 1908, l’esilio a Salonicco del Sultano Abdul Hamid colpevole di truci delitti, la sconfitta nella prima guerra mondiale e il sorgere della Turchia laica di Ataturk perché finalmente nel 1924, deposto l’ultimo Sultano, il Califfato fosse dichiarato estinto. Dunque il Califfato evoca grandi memorie che riproposte col traino di un successo politico e unite al mito della violenza e del potere, possono suscitare un grande ascendente sulle masse frustrate di un mondo arabo umiliato dall’Occidente e passato fin qui di sconfitta in sconfitta.
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venerdì 5 settembre 2014

Il papa e la terza guerra mondiale


di Raniero La Valle

C'è stato un momento di commozione quando nel volo verso la Corea il papa ha saputo che l'aereo stava per sorvolare la Cina. Lo ha raccontato ai giornalisti durante il viaggio di ritorno. Ha spiegato che si trovava, in visita, nella cabina dei piloti, quando gli hanno detto che stava arrivando la Cina. C'era il permesso di sorvolo; ma è prassi che quando si sta per entrare nello spazio aereo di un Paese, si chieda formalmente via radio l'autorizzazione all'ingresso; e questa poi subito arriva per la stessa via. L'emozione è stata quando il papa ha sentito i cinesi che gli permettevano di passare sulle loro teste. Francesco non ha detto poi che cosa ha pensato in quel momento, se a Matteo Ricci o alle Chiesa che in Cina vive sotto lo stretto condizionamento del governo, o alle immense popolazioni dell'Asia a cui lui vorrebbe far gustare "la gioia del Vangelo"; in ogni caso era la prima volta che la Cina prendeva tutto lo spazio del cuore di un papa, mentre il papa dallo spazio del cielo sopra la Cina sognava di poterci andare "già domani", come ha detto.
Così in questo Ferragosto passato in Corea invece che nella villa di Castelgandolfo, il papa ha parlato agli uomini dei confini: basta guardarli  dal cielo, e quelli non ci sono più; lo spazio di Dio è il mondo, e questo è ora lo spazio dell'uomo, ed è anche lo spazio della Chiesa,  ormai fuori dei limiti della cristianità.
Ma per attraversarli davvero il tempo si è fatto breve. È stato questo l'altro significato del viaggio d'agosto: c'è un'urgenza, non c'è tempo da perdere.
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sabato 30 agosto 2014

La Costituzione non si gioca ai rigori


di Raniero La Valle

(Questo articolo è uscito sul Fatto Quotidiano del 28 agosto con il titolo: “La Carta: l’anima politica della società”).

Mi associo alla richiesta del "Fatto" che siano sostenute solo riforme che rispettino lo spirito dei Costituenti per una vera democrazia partecipata. A tal fine è supremo interesse della Repubblica che il processo di revisione costituzionale sia interrotto e che il pericolo che esso comporta per la democrazia sia allontanato.
La Costituzione non è una legge come tutte le altre, è l'anima della società politica, se decade è a rischio la vita della Nazione. La Costituzione gode oggi in Italia della massima autorità, non solo per quello che vi è scritto, che molti non conoscono, ma per l'altissima dignità della sua origine, la fama morale dei costituenti, l'autorevolezza dell'assemblea che la redasse, il prestigio del capo dello Stato che la promulgò, la salvezza che per 65 anni ha assicurato al Paese, la tranquilla fermezza con cui i cittadini l'hanno finora difesa anche in sede elettorale. Essa è oggi l'unica norma che tiene nel generale discredito delle istituzioni e delle leggi.
Al contrario la Costituzione approvata in prima lettura al Senato sarebbe sì una regola per conservare il sistema politico, le attuali classi dirigenti e le minoranze già titolari di ricchezze, ma non sarebbe più l'anima di nessuno e potrebbe non sopravvivere alla sua debolezza. La stessa sua prima parte, che tutti dicono con sospetta solerzia di non voler toccare, difficilmente resisterebbe alla contraddizione col regime economico oggi riconosciuto come sovrano in Europa.
La Costituzione votata l'8 agosto è opera di un governo che la vuole portare a casa togliendola dalla sua casa che è quella di tutti gli italiani, che la utilizza secondo le regole del vecchio politicantismo, come moneta di scambio per altre cose, a cominciare dal suo proprio potere, che la vuole strappare come un trofeo entro il novantesimo minuto e in ogni caso ai rigori.
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lunedì 28 luglio 2014

APPELLO DEI COMITATI DOSSETTI - SALVARE IL PRESTIGIO DELLA COSTITUZIONE


I Comitati Dossetti per la Costituzione lanciano un grido di vivissimo allarme per le modalità non prive di forzature autoritarie attraverso cui sta procedendo e viene presentata all’opinione pubblica la revisione della Costituzione. Non basta che non ci siano intenzioni autoritarie nei riformatori, né nella nuova Costituzione stessa, se sono autoritarie le forme in cui essa viene progettata e “portata a casa”, come si dice con orribile senso di appropriazione, dagli esponenti del governo. La Costituzione repubblicana gode di un altissimo prestigio presso i cittadini, non solo per i suoi contenuti, ma anche per il modo in cui essa è stata pensata, discussa e consegnata al Paese. Il rischio è che oggi una riforma, anche eventualmente ben fatta, per le modalità e i linguaggi che la configurano, possa far perdere alla Costituzione il suo prestigio, e farla cadere dal cuore degli italiani. Rischio tanto maggiore in quanto l’obiezione sollevata dalla Corte Costituzionale sulla illegittimità del modo in cui gli attuali parlamentari sono stati eletti, potrebbe tradursi in una percezione popolare dell’illegittimità dell’intera Costituzione, quale da loro modificata e riscritta.   Occorre anche tener conto del fatto che si sta rifacendo la Costituzione in un momento di crisi del Paese e di altissimo lutto nella situazione internazionale per l’ecatombe di Gaza e l’abbattimento dell’aereo passeggeri in Ucraina, ciò che richiama a quanto è in gioco nel rapporto tra istituzioni e vita reale e dovrebbe indurre a maneggiare la materia con estrema delicatezza, gravità e misura.
I Comitati Dossetti per la Costituzione sono altrettanto allarmati per possibili esiti incontrollati e imprevisti della revisione in corso, quali sono fatti balenare dai suoi promotori col riferimento a una ulteriore fase di passaggio al presidenzialismo.  
Essi pertanto rivolgono un pressante appello al Partito Democratico perché tenga alta la guardia e nell’operazione politica in atto ripristini e salvaguardi la normalità democratica.  Giuseppe Dossetti aveva impegnato i Comitati da lui fondati a promuovere la Costituzione senza alcuna preferenza di partito; i Comitati ritengono oggi però di doversi rivolgere principalmente al Partito Democratico perché temono che la democrazia costituzionale potrebbe essere travolta nel nostro Paese se le venisse meno la garanzia, la difesa e il rispetto che finora le sono venuti dalle forze che fanno riferimento al PD e alla sua tradizione. Certamente non si può negare al governo espresso dal PD il diritto all’iniziativa legislativa anche in materia costituzionale, ma nel sistema democratico italiano è escluso che il governo possa fungere da padrone della Costituzione, delle due Camere, dei tempi e dei modi delle relative riforme, fino a fare del “delendo Senato” un trofeo al quale consacrare lavori forzati diurni e notturni feriali e festivi.
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mercoledì 16 luglio 2014

PIU’ POVERTA’ PIU’ FORTI I POTERI

Come sarebbe la nuova Costituzione 
di Raniero La Valle 
  
C’è un dato di apparente incomprensibilità nel fatto che mentre s’infiamma la situazione del mondo (da Gaza al progetto di Califfato islamico, dalla Siria all’Ucraina) e mentre la catastrofe economico-sociale italiana esplode nella insopportabile cifra di 6 milioni di poveri, pari al 10 per cento della popolazione, la lotta politica è scatenata sull’abolizione del Senato e la sostituzione del “Porcellum” con un “Porcellum” aggravato.
Il governo dice che se non facciamo subito queste riforme l’Europa si inalbera e la crisi economica peggiorerà, ma l’Europa non sa nemmeno che noi abbiamo due Camere né mai se ne è data il minimo pensiero; per contro la disoccupazione continuerà a devastare famiglie e giovani, neolaureati ed esuberi, cittadini e immigrati anche se i senatori senza più Senato invece dell’indennità  prenderanno la pensione e se alla Camera invece di sette od otto partiti ce ne saranno solo due, e magari uno.
Sembra un paradosso e invece non lo è; non è mai vero che quello che succede in politica sia del tutto incomprensibile e privo di ragioni. Del resto qualche sprazzo di verità talvolta perfora la coltre della disinformazione in cui sono avvolti i mezzi di informazione. In questo caso il guizzo di verità è venuto fuori al Senato all’inizio della discussione in aula sulle riforme costituzionali, quando il senatore Calderoli, autore del “Porcellum” e coautore della precedente riforma costituzionale tentata da Berlusconi ha detto, beffardo, che avergli dato l’incarico di relatore sulla riforma renziana è stato come mettere una pistola in mano a un “serial killer”. Il sottinteso era che il soggetto da abbattere fosse la Costituzione, e del resto non c’era niente da nascondere perché se la Lega ha come suo programma di spiantare l’Italia, certo non può essere pensata come paladina delle migliori riforme e fortune della sua Costituzione.

Non più limiti e contrappesi al potere

Dunque quello che succede si può capire. Si capisce come sia in corso in Italia, che è l’anello più debole delle democrazie avanzate, un esperimento che se riesce potrà diventare normativo per tutta l’economia globalizzata; esso dice che il gioco delle garanzie e dei limiti imposti al potere - di cui è stata fatta finora la storia della democrazia - è finito, e che ora si restituisce al potere autonomia, decisione, rapidità e potenza; se aumenta la povertà devono aumentare i poteri per governarla; la sovranità popolare, i sindacati, gli scioperi, i diritti, la libera scelta dei parlamentari andavano bene quando c’erano le dogane e l’economia e la finanza stavano nello spazio degli Stati, cioè della comunità politica, ma ora si fa sul serio, l’economia è salita sul tetto del mondo, domina le frontiere, si è avocata la sovranità, ha dato lo scettro al denaro e ai suoi derivati, ai suoi sacerdoti e ministri. E ora essa si fa le sue Costituzioni, di cui l’ultima in dirittura d’arrivo è il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti che fa delle imprese i nuovi Principati  che possono chiamare in giudizio gli Stati e avere ragione contro di loro.
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giovedì 10 luglio 2014

LA RIFORMA COSTITUZIONALE LO SCIOPERO E IL VOTO


di Raniero La Valle

            Si è tenuto a Roma, martedì 8 luglio, nella Sala della Camera dei Deputati in Santa Maria in Aquiro un seminario dedicato alla riforma costituzionale. Hanno parlato tra gli altri Domenico Gallo, i senatori Felice Casson, Mario Mauro e Vannino Chiti, nonché Gaetano Azzariti, Alessandro Pace, Lorenza Carlassare, Massimo Villone, Gianni Ferrara, Nino Galloni, Alfiero Grandi, Pietro Adami, Natalia Maglio, Raniero La Valle.
          Sulla riforma costituzionale in corso il giudizio unanime è stato molto severo, sia riguardo alla sua stessa legittimita sostanziale in quanto emana da un Parlamento risultato eletto, secondo la sentenza della Corte, in modo incostituzionale, sia riguardo al metodo e al merito delle scelte già fatte. Pubblichiamo qui l’intervento che a titolo personale vi ha tenuto Raniero La Valle, presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione.

          Come Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione non ho una scelta da fare tra Senato della Repubblica e Senato delle Autonomie. I Comitati Dossetti sono in campo per difendere e promuovero lo sviluppo del costituzionalismo interno e internazionale, e certo in via di principio si può dire che l’uno o l’altro Senato o addirittura nessun Senato, siano compatibili con la democrazia realizzabile e realizzata. Perciò, parlando in astratto, i Comitati Dossetti potrebbero astenersi dal prendere posizione. Però per restare neutrali dovrebbero credere che veramente di questo si tratti, della qualità del bicameralismo e del ruolo di un evenutale Senato delle Regioni, cose in cui nella base e tra gli amici, anche giuristi, dei Comitati, c’è una disparità di opinioni, come c’erano alternative teoriche e aperture nella stessa riflessione e azione politica di Giuseppe Dossetti.
          Tuttavia non siamo affatto sicuri che di questo si tratti; noi non vediamo infatti una riforma fatta secondo verità, di cui siano dichiarati cioè i veri obiettivi, ma ci pare che sotto la veste della riforma si giochi una tutt’altra partita, come hanno detto il senatore Mauro e il prof. Villone; una partita al ribasso, che per dirla in poche battute secondo lo stile di oggi, direi volta a “abolire metà del Parlamento per lasciare una democrazia dimezzata”.
          Perciò faremo una consultazione nei Comitati Dossetti per sapere se e come schierarsi in questa battaglia che certo non può essere disertata; intanto io parlo qui oggi a titolo personale.
          La prima cosa da dire di questa riforma è che è inaccettabile il metodo ed è inaccettabile la cultura che è messa a suo fondamento. Il Senato potrà anche essere discusso, ma non si può buttar via con gli stessi motivi delle auto blu, e nemmeno il Senato è uno scalpo, o un olocausto da offrire in sacrificio ai mercati o all’Europa, in cento o in mille giorni, per avere in cambio la benevolenza di una flessibilità che peraltro nè viene veramente chiesta (nessuno a Ypres ha messo in discussione il Fiscal Compact) nè viene concessa. Non si possono fare le riforme costituzionali sotto ricatto, in forza di un Hatti-Humayun, un rescritto califfale emanato dal Sultano, nè si può essere qualificati come ribelli se ad esso ci si oppone; e nemmeno la soluzione è che uno si salvi la coscienza, votando contro come Palmiro Togliatti permise di fare a Concetto Marchesi, lasciando che la casa vada in rovina.
          Nel merito il Senato delle Autonomie significa distruggere le Autonomie, decapitandole dei loro rappresentanti eletti – sindaci, consiglieri regionali o Presidenti di giunta che siano – togliendoli dal territorio. Se gli eletti come sindaci o come esponenti delle Regioni devono davvero contribuire alla legislazione come senatori e sono pagati per questo dai loro cittadini, devono venire a Roma ogni settimana perchè per chiedere di intervenire sulle leggi approvate dalla Camera il Senato ha tempi strettissimi, dieci giorni dalla trasmissione della legge da Montecitorio e solo cinque giorni se le leggi sono approvate con la procedura della “ghigliottina”; e poi il Senato ha trenta giorni o solo quindici per proporre le modifiche; e ha solo quindici giorni per le modifiche alle leggi riguardanti il bilancio ex articolo 81; questo vuol dire che se un senatore o il Senato stesso salta una settimana, passa il treno e sulle leggi fatte dalla Camera non ci si può fare niente; perciò il Senato deve sedere in permanenza come la Camera. Quindi o i senatori fanno morire il Senato disertandolo, o il Senato fa morire le autonomie rubando i loro rappresentanti politici e togliendoli  dal territorio. 
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sabato 14 giugno 2014

La dignità umana: dal Concilio a Papa Francesco

Pubblichiamo il testo della relazione tenuta il 7 giugno scorso da Raniero La Valle a Borgomanero, a conclusione del “Festival della dignità umana” tenutosi sotto la direzione di Giannino Piana.

Nelle sue tesi di filosofia della storia Walter Benjamin[1] racconta di un fantoccio che giocava a scacchi, che era la filosofia, e c’era un nano piccolo e brutto che era nascosto sotto il tavolo e che con dei fili gli muoveva la mano, e questo nano era la teologia. Era dunque la teologia a guidare il gioco; la filosofia – che in questo caso era il materialismo storico – la prendeva al suo servizio e così poteva vincere.
Questa tesi del nesso tra teologia e filosofia, dov’è la teologia a guidare il gioco senza peraltro che debba nascondersi, è una tesi classica della Chiesa cattolica; l’ex papa Ratzinger è tornato più volte sul rapporto tra fede e ragione, dove a prevalere deve essere la  fede; la fede infatti reca la verità, e la ragione è legittimata ad esercitarsi nei limiti in cui le è consentito dalla verità, o da quella che si afferma essere la verità.
Ma Dio non ha messo la camicia alla ragione, l’ha donata all’uomo perché ne faccia buon uso, e tuttavia non è un dono condizionato al retto uso. Tutta la modernità si è fondata sul principio dell’autonomia della ragione; la filosofia, la scienza, l’astronomia, l’anatomia, la biologia, la ricerca sono libere.
Dunque secondo l’uomo della modernità la filosofia può cavarsela da sola.
Dove invece il nesso è indissolubile, a mio parere, è tra la teologia e l’antropologia, ovvero tra la fede e la comprensione dell’uomo.
La domanda sull’uomo è una domanda teologica. Chi sono io? La domanda divenuta celebre da quando papa Francesco l’ha applicata a se stesso (“Chi sono io per giudicare i gay?”), è una domanda rivolta a Dio. Non a caso “chi è l’uomo?” è la prima domanda che l’uomo rivolge a Dio. La Bibbia è piena di domande che Dio rivolge all’uomo, a partire dalla prima: “Adamo, dove sei? Uomo dove sei?”. Ma quando è l’uomo a domandare, la prima domanda è: “chi è l’uomo?”. Dice il Salmo 8: “chi è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”.
E c’è pure la risposta:
“eppure l’hai fatto poco meno degli angeli
di gloria e d’onore lo hai coronato
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani
tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Salmo 8, 5-7).
La domanda sull’uomo è una domanda teologica perché tra Dio e l’uomo intercorre un rapporto di immagine e somiglianza, come sta scritto nella prima pagina della Bibbia. Naturalmente ci si può non credere e non tenerne conto. Ma se si ammette questo è chiaro che non si può raggiungere il nucleo dell’identità dell’uomo se non si sa nulla di Dio, e d’altra parte non si può conoscere Dio se non a partire dall’uomo, anzi dalla carne dell’uomo, come dice il grande teologo di Bisanzio, Nicola Cabasilas.
Ed è allora qui, in questo nucleo, che si trova la dignità della donna e dell’uomo. La più profonda identità dell’uomo è la sua dignità, e la dignità dell’uomo è la sua divinità: l’immagine del divino nell’uomo è la sua dignità.  Divinitas e dignitas, dignus e divinus vanno insieme.
Ma in che consiste questo nucleo del divino nell’uomo, in che consiste l’immagine di Dio nell’uomo?
Secondo la tradizione più diffusa l’immagine di Dio nell’uomo consisterebbe nella ragione.
Però c’è tutto un filone che parte da Bernardo di Chiaravalle (XII secolo), che continua nella teologia monastica e che giunge fino a noi, che individua l’impronta di Dio nell’uomo nella libertà. Ciò per cui l’uomo è fatto a immagine di Dio non è la ragione, ma è la libertà.
La libertà è il divino nell’uomo

 Secondo Bernardo questa libertà dell’uomo in cui è impressa l’immagine di Dio, è una libertà originaria, di natura, congenita, è – dice Bernardo – “qualcosa di divino che rifulge nell’anima come la gemma nell’oro”. E’ una libertà di natura che è preliminare alla libertà della grazia e non si perde neanche per il peccato, né essa è maggiore nel giusto che nel peccatore, non è maggiore in Gandhi che in Hitler.
E’ la libertà della decisione: il libero arbitrio, e questa è appunto la dignità umana, di cui stiamo celebrando il festival.
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martedì 10 giugno 2014

Ci vuole più fede per la pace che per la guerra

LA PREGHIERA NEI GIARDINI VATICANI
di Raniero La Valle 

Era il giorno di Pentecoste, che certo aveva rappresentato una sorpresa per gli apostoli riuniti nel Cenacolo. Ricordando quell’evento papa Francesco a mezzogiorno, alla recita del “Regina Coeli”, aveva detto che una Chiesa che non avesse questa stessa capacità di sorprendere, sarebbe una Chiesa ammalata, morente, dovrebbe al più presto essere ricoverata in sala di rianimazione.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, l’8 giugno, la Chiesa di Francesco sorprendeva il mondo con la preghiera comune, rivolta al Dio a tutti comune, dal più inedito e improbabile “quartetto” che si sia mai occupato della pace in Medio Oriente. Il quartetto, visto in diretta da tutto il pianeta, era formato dal papa di Roma, dal patriarca di Costantinopoli, dal Presidente dello Stato di Israele e dal Presidente dello Stato futuro di Palestina. Un’azione sacra compiuta non nella città santa di Gerusalemme, dove non si era trovato un posto dove tutti potessero pregare insieme, ma nell’angolo più poetico e mondano possibile dello Stato pontificio, i giardini vaticani, dove mai si era parlato né ebreo né arabo, e forse nemmeno si era mai pregato se non per qualche peripatetico rosario privato.
Ancora più sorprendente era che la preghiera, che vive in regime di gratuità, fosse mirata questa volta a ottenere un bene urgente e concreto, la pace, ma non solo una pace generica, come sempre e a buon mercato invoca la preghiera, bensì quella pace specifica che è massimamente difficile, se non addirittura impossibile ottenere in questo nostro tempo, ossia la pace tra Israele e il popolo dei territori occupati della Palestina.
Si parla dunque di una pace non solo spirituale ma politica e storica, una pace come il mondo la può dare, e la può dare attraverso le risorse della politica e del diritto, nella forma da tutti a parole avallata di due popoli in due Stati sovrani dalle frontiere sicure e riconosciute.
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sabato 31 maggio 2014

Un secondo Francesco in Terra Santa


PROVIAMO CON LA RELIGIONE di Raniero La Valle

Mentre  l’Europa, chiusa nella sua fortezza, votava il 25 maggio per i suoi egoismi, per il suo denaro, per i suoi divieti di ingresso e incoronava nuovi leaders populisti fatti di nulla, quello che una volta si chiamava Patriarca d’Occidente e che perciò doveva essere il primo a trepidarne, era volato a Gerusalemme quasi a dire all’Europa che le sue vere frontiere stavano lì, presso nuovi popoli, dove oggi si giocano la pace, la civiltà e il futuro del mondo.
Il Papa è andato lì come vescovo di Roma, per ripetere il gesto compiuto durante il Concilio da Paolo VI che vi era corso ad abbracciare il vescovo di Costantinopoli, divisi com’erano, da novecento anni, da reciproche scomuniche. Però questo nuovo evento di comunione tra i due Patriarchi delle Chiese divise non poteva essere semplicemente una replica dell’antico. Non doveva essere solo incontro ma già preghiera comune. E doveva mostrare che se fra i gerarchi delle due Chiese, successori degli apostoli Pietro ed Andrea, la pace ormai era fatta, c’era ora una pace ben più difficile e necessaria da fare, quella tra le Chiese stesse, tra i loro fedeli.
Sono le Chiese e i fedeli infatti, non solo i loro capi e teologi, che si devono riconciliare. Esse sono divise tra Oriente e Occidente come all’interno di ogni Paese, e perfino a Gerusalemme esse sono a malapena capaci di convivere attorno al sepolcro di Cristo solo grazie alla puntigliosa osservanza del decreto di un Sultano ottomano. Ma non basta migliorare i rapporti. E a poco varrebbe che il Papa, il Patriarca ortodosso  e gli altri esponenti cristiani abbiano pregato insieme al sepolcro, se poi i fedeli delle loro Chiese continuassero a essere separati dall’eucaristia, a non poter praticare l’intercomunione, a trovarsi ciascuno davanti a una mensa divisa. L’eucaristia non può continuare ad essere la pietra d’inciampo, su cui si esercita il potere di ciascuna Chiesa per decidere chi sta dentro e chi sta fuori del recinto sacro, per separare nel popolo di Dio i membri regolari dai sans papier. Su questo cammino papa Francesco sembra voler andare: ha già detto che l’eucaristia non si può usare come un premio o come un castigo, e se egli vuole trovare una strada perché possano comunicare nell’eucaristia i divorziati risposati, tanto più vorrà cercare di aprire una via perché possano comunicare nella condivisione della Parola e della mensa eucaristica i fedeli delle diverse confessioni cristiane.
Del resto è chiaro che l’ecumenismo tra le Chiese non è solo un affare di relazioni esterne, ma comporta una riforma interna di ciascuna Chiesa. Il Papa sa che ristabilire il rapporto con le Chiese ortodosse significa recuperare una modalità collegiale e sinodale della vita della Chiesa romana, e comporta anche la disponibilità a rivedere i modi di esercizio del primato petrino, come ha ripetuto a Bartolomeo; ma ancor più ciò vorrebbe dire recuperare anche le luminose intuizioni della tradizione orientale, come quella che assorbe la giustizia nella misericordia di Dio, che per mille anni la Chiesa di Roma ha lasciato offuscare.  

L’unità tra il religioso e il politico

Questo, dell’unità tra le Chiese, è stato il primo scopo del viaggio. Ma altre unità da costruire sono entrate potentemente in gioco nelle poche ore di questo straordinario pellegrinaggio, che per la sua qualità senza precedenti non è sembrato tanto il pellegrinaggio del quarto papa in Terra Santa (dopo Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), quanto quello di un secondo Francesco. Tre unità sono state propugnate da papa Francesco nei tre giorni del suo passaggio: l’unità tra israeliani e palestinesi, quella tra musulmani, ebrei e cristiani, quella tra cristiani ed ebrei.
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lunedì 19 maggio 2014

QUALE DIO OGGI?

CHIESA DI TUTTI CHIESA DEI POVERI

Relazione tenuta da Raniero La Valle sabato 17 maggio a Roma in apertura dell'assemblea del movimento "ChiesadituttiChiesadeipoveri" in ricordo dei 50 anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II.

QUALE DIO OGGI?

Questa assemblea si inserisce in un percorso che ha preso come suo punto di partenza quell’11 settembre 1962 in cui papa Giovanni, tracciando il programma del Concilio, annunciò un nuovo Natale della Chiesa. Secondo questa nuova nascita essa sarebbe stata Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri. Non cambiava il soggetto Chiesa, come ci terrà a dire Benedetto XVI, ma essa sarebbe rinata dall’alto, cioè dallo Spirito. È stato infatti lo Spirito che ha voluto il Concilio, per “ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria”; questa è l’affermazione che ha fatto papa Francesco alla canonizzazione di Giovanni XXIII. Papa Giovanni, nel convocarlo, è stato docile allo Spirito, e proprio per questo Francesco lo ha proclamato santo. Ora, ripristinare e aggiornare vuol dire appunto far nascere una seconda volta.
Questa nuova nascita della Chiesa ha avuto una lunga gestazione, di cui la “Lumen Gentium” è stato il punto d’avvio. È venuto poi il processo postconciliare, ma tardava a nascere la Chiesa dei poveri, finché il 13 marzo 2013 nella cappella Sistina il papa appena eletto, rispondendo all’invito del suo amico brasiliano cardinale Hummes di “ricordarsi dei poveri”, prese il nome antidinastico di Francesco. E quando il papa si presentò con quel nome alla gente raccolta in piazza san Pietro e chiese la benedizione e l’investitura silenziosa del popolo, sembrò che una lunga attesa fosse giunta a compimento. Come il santo vecchio Simeone, quando Gesù venne presentato nel tempio, capì che cominciava una nuova stagione per la fede di Israele, così quando al balcone della basilica si presentò questo pastore che si inchinava alle pecore, il popolo romano avvertì che forse qualcosa cominciava di nuovo. E non si trattava solo della novità di “una Chiesa povera per i poveri”, come la voleva il papa, cioè di una novità per la Chiesa istituzione, ma di una novità per la fede, e quindi per il mondo, se per fede si intende il rapporto del mondo con Dio.
Così lì, in quel crepuscolo romano, si compiva quel “balzo innanzi” che cinquant’anni prima, aprendo il Vaticano II, papa Giovanni aveva detto che ci si aspettava dal Concilio. Per cinquant’anni si era creduto che quel balzo innanzi riguardasse la Chiesa e la sua riforma, non il contenuto stesso della fede. Si pensava che il Concilio nulla avesse innovato nella fede, come se la sua natura pastorale lo avesse reso incapace di penetrazione dottrinale e di riflessione teologica. Ma il balzo innanzi che secondo Giovanni il Concilio doveva far fare alla Chiesa era proprio nella “penetrazione dottrinale” e nella educazione delle coscienze alla fede, e proprio questo il Concilio aveva fatto. Inutilmente esso si sarebbe occupato della Chiesa, se lo scopo e il cimento non fossero stati di ripristinare e aggiornare la trasmissione della fede;  l’aveva detto anche Ratzinger quando era ancora cardinale commentando la “Lumen Gentium” (27 febbraio 2000): “Una Chiesa che esiste solo per se stessa è superflua”.
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venerdì 16 maggio 2014

L’EUROPA E IL MARE


di Raniero La Valle

Nemmeno quindici giorni prima delle elezioni europee, l’Europa è finita annegata nel mare tra Tripoli e Lampedusa. È  lei che è colata a picco nel Mediterraneo con i due barconi di profughi affondati nel giro di due giorni con uomini donne e perfino neonati di pochi mesi.
L’Italia ha cercato di salvarli: una bella cosa umanitaria nel mare comunque definito “nostrum”, in latino; il che vuol dire che attraversarlo senza visto è pur sempre un reato, la cui punizione però grazie ai maggiori scrupoli del centro-sinistra non è più la morte, cioè il lasciarli affogare. Ma è bastato che l’Italia decidesse di non fare annegare i naufraghi perché si mostrasse la durezza dell’Europa: l’Europa non li vuole, una volta salvati, perché gli uomini non sono capitali e la grande conquista europea è la libera circolazione dei capitali, non la libera circolazione degli esseri umani.
Inutilmente il ministro Alfano e quella degli esteri Mogherini si lamentano “con l’Europa” perché non fa il suo dovere: vedete, dicono, questo non è un problema “nostro”, l’Italia è solo una porta d’ingresso, anzi gli immigrati nemmeno ci vogliono venire, sbarcano senza farsi riconoscere per non essere cacciati nei centri di detenzione e di espulsione, e subito cercano di raggiungere gli altri Paesi del continente.
Ma proprio questo svela l’insensatezza delle politiche sia dell’Italia che dell’Europa, che si possono così riassumere:
1)      gli altri, i non comunitari e non europei, in Europa non ci devono venire. Se ci vengono, è un reato, la cui unica esimente è il diritto di asilo; esso però più che un diritto è una grazia concessa dal singolo sovrano europeo, e se non è concessa o si scompare come clandestini o si è espulsi.
2)      Quelli che vengono per mare devono essere salvati dalla Marina Militare, perché continuare a non farlo sarebbe un crimine contro l’umanità, perché sarebbe un omesso soccorso contro il diritto marittimo e perché se no il papa torna a Lampedusa.
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venerdì 9 maggio 2014

FINE DEL PARTITO DEMOCRATICO?

Raniero La Valle _ Intervento al dibattito su Senato e legge elettorale promosso dalla Associazione per Rinnovamento della Sinistra alla Sala della Mercede della Camera dei Deputati l‘ 8 maggio 2014.

Sul Senato vorrei dire solo due cose. Anzitutto vorrei richiamare il monito che qualche giorno fa faceva il costituzionalista Mario Dogliani parlando a un incontro promosso dal Centro per la Riforma dello Stato: il monito al Partito Democratico perché dopo i deludenti dibattiti in direzione e in Parlamento sull’Italicum e sul passaggio dal governo Letta a Renzi, non abbandonasse ora senza combatterla la battaglia per il Senato.
In secondo luogo vorrei dire che in una democrazia ben fondata e seria non ci sono pregiudiziali di principio contro il monocameralismo. Alla Costituente ci fu una posizione monocameralista e anche Ingrao, come si legge nel suo libro uscito oggi, dopo l’esperienza di Presidente della Camera si pronunciò per un’opzione monocamerale; in questi giorni io stesso ho scritto che piuttosto che un Senato di notabili locali, con senatori magari di nomina quirinalizia, come quello a cui l’inviato piemontese in Sicilia voleva ascrivere il principe di Salina nella logica del Gattopardo, io preferirei che l’Italia offrisse di ospitare a Palazzo Madama un Senato dei popoli aprendosi al mondo.
Però io credo che qui vi sia di mezzo ben più che il Senato, c’è di mezzo la qualità della democrazia, perché nella cultura degli attuali riformatori non c’è un coerente disegno costituzionale, ma c’è, sulla scia del processo alla politica, l’idea di buttare a mare una zavorra e di cominciare con l’abrogare mezzo Parlamento.
Ma soprattutto mi pare che in questi giorni si stia consumando una tragedia politica, che è la fine del Partito Democratico, come già finirono la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Già nelle maratone televisive, nei giornali, nel dibattito politico il Partito Democratico, gli esponenti democratici non ci sono più, c’è solo il renzismo e ci sono i renziani e le renziane. E la questione si pone sul lato dei contenuti e sul lato dello stile, che è sostanza anch’esso.
Sul lato dei contenuti quella che appare è una destra finalmente pervenuta al potere. E’un evento che giunge in Italia con un ritardo di vent’anni, perché Berlusconi ha occupato il potere ma non è stato a misura di esercitarlo, impedendo nello stesso tempo a chiunque altro, compresa la destra, una destra presentabile, di esercitarlo. La chiave di questo paradosso del potere e dell’impotenza di Berlusconi sta nella frase che più di ogni altra nelle polemiche del tempo colpì il centro destra e provocò l’indignazione dei seguaci di Berlusconi: voi non siete presentabili.
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domenica 4 maggio 2014

Raniero La Valle: commento alla Messa per i 22 anni dalla morte di Padre Balducci alla Badia Fiesolana il 27 aprile 2014.


Credo che a nessuno possa sfuggire il significato profondo del fatto che celebriamo questa messa nel ricordo di padre Balducci nel momento in cui avviene la canonizzazione di papa Giovanni che è quasi il suggello di tutto ciò che padre Balducci ha pensato e sperato. Che papa Giovanni sia oggi proclamato santo in piazza San Pietro è per padre Balducci come un ritorno a casa, e lo è anche per noi.
Tuttavia se ora io facessi una bella commemorazione di padre Balducci, ignorando le Scritture che abbiamo appena ascoltato, farei tre tradimenti.
Il primo tradimento sarebbe allo stesso padre Balducci, di cui ho sempre detto che le cose più belle e più durature erano quelle meravigliose omelie sulle letture della messa, che preparava passeggiando nel chiostro dopo aver letto i giornali.
Il secondo sarebbe a papa Francesco che proprio in ciò, annunciando ogni mattina il Vangelo a Santa Marta, ha fatto la sua rivoluzione. Anzi proprio per questo è andato ad abitare a Santa Marta, perché lì può dire sempre la messa con i fedeli, e non con la faccia voltata verso il muro, come facevano i papi nella cappella privata dei Palazzi apostolici; è a partire da lì che cambia il pontificato, perché come aveva scritto papa Giovanni nel “Giornale dell’Anima” “al di sopra di tutte le opinioni e i partiti che agitano e travagliano la società e l’umanità intera è il Vangelo che si leva. Il papa lo legge e coi vescovi lo commenta …”. Questo deve fare il papa; se il papa lo fa, lì comincia la riforma del papato e della Chiesa.
Oggi, per usare un’espressione di padre Balducci, c’è un cerchio che si chiude. Da papa Giovanni a papa Francesco c’è un ponte che scavalca cinquant’anni di deserto, un ponte che dall’11 settembre 1962, quando un mese prima del Concilio papa Giovanni parlò della Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri, al 13 marzo 2013 quando il cardinale brasiliano Claudio Hummes al papa Bergoglio appena eletto disse nella Sistina: “ricordati dei poveri”, e lui decise di chiamarsi Francesco.
Il terzo tradimento, se non parlassimo delle Scritture, sarebbe alla parola di Dio che non può tornare a lui senza aver primo irrigato la terra (Is.53,10-11).
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venerdì 2 maggio 2014

QUATTRO PAPI E UN CONCILIO


di Raniero La Valle

La retorica dei “quattro papi”, due in cielo e due in piazza san Pietro, ha dominato la rappresentazione mediatica delle canonizzazioni papali del 27 marzo; ma non si potrebbe capire il significato profondo di tale evento se si restasse alla superficie della sua spettacolarità e non si entrasse nel clima di estrema discrezione e intensità che papa Francesco ancora una volta ha saputo creare nella piazza, e di cui è stata espressione la essenzialissima e scarna omelia da lui pronunciata al Vangelo.
Ciò ha fatto della canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II non la celebrazione trionfale di due nuovi eroi della fede, portati agli onori degli altari perché ne traesse più lustro la Chiesa, ma un atto fondativo di una Chiesa capace di entrare nella sofferenza del mondo e chiamata a rinnovarsi nel capo e nelle membra.
Papa Francesco ha individuato infatti  nelle piaghe del Cristo, che sono anche le piaghe del mondo, la matrice e il contesto di questa abbondante santità che è scaturita dal soglio pontificio; e ha ricondotto a un’unica origine sia la testimonianza di papa Giovanni, sia quella di papa Wojtyla che le è seguita, sia la travagliata storia della Chiesa degli ultimi cinquant’anni, sia quel riunirsi a Roma di un milione di persone per celebrare i due papi, sia il compito assegnato al suo stesso pontificato: e quest’ unica origine è la docilità allo Spirito Santo in forza della quale Giovanni XXIII ha convocato il Concilio.
Nel convocare il Concilio papa Giovanni non si è messo infatti alla guida della Chiesa come un pastore conduce il gregge ma, secondo Francesco, “si è lasciato condurre”, ed è stato per la Chiesa  “una guida guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo – ha aggiunto Francesco – a me piace pensarlo come il papa della docilità allo Spirito Santo”. Qui naturalmente c’è l’elogio della virtù personale di Angelo Roncalli, ma riguardo alla Chiesa questo vuol dire una cosa sola: che il Concilio è stato convocato dallo Spirito Santo, che il Concilio è stato, ed ancora è, per quanto ne seguirà nella Chiesa, opera di Dio.
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domenica 27 aprile 2014

Due papi santi


di Raniero La Valle 
  
C’è un arco che con un salto di cinquant’anni unisce Giovanni XXIII e papa Francesco, e quest’arco poggia su due pilastri. Il primo è quello dell’11 settembre 1962 quando papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio da lui convocato, ne definiva la ragione ed il fine, dicendo che “in faccia ai paesi sottosviluppati” la Chiesa si presentava “come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Il secondo pilastro è quello del 13 marzo 2013 quando al papa Bergoglio appena eletto l’amico brasiliano cardinale Hummes disse nella Sistina di “ricordarsi dei poveri”, e lui scelse il nome di Francesco. Dunque Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia.
Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II. È una Chiesa che soprattutto ha cercato di rafforzare le sue schiere, di debellare i suoi nemici, di celebrare i suoi trionfi, una Chiesa che papa Wojtyla ha guidato verso una restaurazione delle glorie antiche di una cristianità signora dell’Europa e anima dell’Occidente: restaurazione che non è riuscita. Ciò è avvenuto per molte ragioni. La prima è che il papa polacco ha creduto che per restaurare la Chiesa bastasse restaurare il papato, portandolo al massimo della visibilità consentita dai tempi; la seconda è che da quel deserto, senza la fede ripensata e rinnovata dal Concilio, non c’era come uscire; la terza è che papa Wojtyla ha creduto che la crisi della religione in Occidente fosse il frutto avvelenato dell’ateismo comunista, e che sconfitto quello il mondo non sarebbe caduto nell’edonismo della società dominata dal denaro, ma sarebbe stato “sollecito delle cose sociali”; e la quarta è stata che quando egli ha voluto fare il papa non come piaceva alle grandi masse guidate dai “media”, ma come contro ogni convenienza gli imponeva il Vangelo, e ha rotto la solidarietà con l’America opponendosi risolutamente alla guerra contro l’Iraq, l’Occidente lo ha oscurato e lo ha depennato come leader, confinandolo nel mito devozionale della sua santità privata.  
È con questa storia alle spalle che le due canonizzazioni, di papa Giovanni e papa Wojtyla arrivano per una casuale coincidenza alla contemporanea proclamazione di oggi. Esse sembrano compensarsi, eppure sono assai diverse tra loro. Nel caso di Giovanni Paolo II quando la folla dei fedeli, emozionata per la sua morte, diceva “Santo subito”, pensava alla sua santità personale, al modo in cui aveva reagito all’attentato, alla popolarità che si era guadagnata, alla sofferenza della sua malattia. Nel caso di Giovanni XXIII quando fu presentata la proposta che fosse il Concilio a proclamare la sua santità, senza processo canonico e il corredo di appositi miracoli, l’idea era che venisse esaltata proprio la santità del modo in cui Roncalli aveva esercitato il ministero petrino, aveva interpretato il suo ruolo di papa.
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martedì 8 aprile 2014

Le riforme del secolo: ma di quale secolo?

      L’IRRESISTIBILE ATTRAZIONE DEL VECCHIO 
      Quale Senato a palazzo Madama
       di Raniero La Valle 

Nella nuova modalità della politica fatta a passo di corsa, e forse proprio perché non ci si può stare troppo a pensare, c’è il rischio di trasformare la discussione sui fatti in una discussione sulle parole. Per esempio le parole “svolta autoritaria”, usate dai critici delle riforme, possono essere ammesse per descrivere il fatto che mezzo Parlamento è abolito, e l’altro mezzo è eletto a suffragio ristretto, sicché quasi mezzo Paese, per trucchi, premi e sbarramenti, non può avervi rappresentanza? No, sostiene il giovane governo, non sono cose da dirsi, e le respinge al mittente con l’argomento di non aver giurato sulla Costituzione dei professoroni, anche se ha giurato sulla Costituzione fatta dai professorini.
Lasciamo stare dunque le parole, e stiamo ai fatti. I fatti sono le innovazioni istituzionali, intraprese con vitale ardore. Si direbbe: per andare avanti. E tutti plaudono per questo.  Ma è con grande stupore che si vede come queste riforme giovanili sono tutte vecchie, si gloriano di essere quelle stesse riforme già proposte trent’anni fa e finora abortite, e quando non hanno precedenti così prossimi affondano le loro radici ancora più lontano nel tempo.
Si prenda ad esempio la proposta di rafforzare i poteri del primo ministro, di rendere la Camera più servizievole rispetto alle esigenze operative del governo. Ma questa è una cosa che si sta facendo da Craxi in poi, che ha perseguito per vent’anni Berlusconi, che si è attuata attraverso drastiche forzature dei regolamenti parlamentari, fino ai tempi contingentati, ai dibattiti con ghigliottina, ai calendari parlamentari che sembrano un orario ferroviario, con la data e l’ora precisa fissata per l’entrata e l’uscita delle leggi. Il problema sarebbe invece quello di inventare nuove procedure non autoritarie di cooperazione tra Camera e governo, in cui la fiducia non sia posta per stroncare il Parlamento, ma per renderne più rigoroso e sobrio l’apporto a vantaggio della legislazione e dell’esecutivo.

La legge elettorale è vecchia di novant’anni

Si prenda la legge elettorale. Qui il ritorno è al 1924, alla legge Acerbo che dava i due terzi dei seggi (furono 355) al listone fascista vincente.
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venerdì 4 aprile 2014

Raniero La Valle e altri su Marianella parlamentare martire

Mercoledì 2 Aprile 2014 ore 17:00Mostra linkPRESENTAZIONE LIBRO - Marianella Garcìa Villas
Presso la Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio, si è svolta la presentazione del libro “Marianella Garcìa Villas – Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi”, di Anselmo Palini, prefazione di Raniero La Valle, postfazione di Linda Bimbi, editrice Ave. Si tratta di una riflessione sulla battaglia per i diritti umani in El Salvador, attraverso le vicende di Marianella Garcìa Villas, uccisa a 34 anni.
Saluto di apertura di Marina Sereni, Vicepresidente della Camera. Sono intervenuti Massimo De Giuseppe, ricercatore di Storia contemporanea Iulm Milano, Raniero La Valle, scrittore e giornalista, già senatore, Linda Bimbi, Fondazione Lelio e Lisli Basso, Marina Berlinghieri, Commissione Esteri Camera. Presente all'evento l’autore. Moderatrice Cecilia Rinaldini, giornalista Rai.
Per il video della presentazione:    http://webtv.camera.it/evento/6007
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giovedì 27 marzo 2014

Divorzio e nuove nozze _ GESÙ E LA DONNA DAI CINQUE MARITI


di  Raniero La  Valle
Della comunione ai cattolici che dopo un divorzio vivono un secondo matrimonio, ormai si discute in tutta la Chiesa. La decisione sarà presa dal Sinodo dei vescovi, ma è adesso che se ne stanno ponendo le premesse dopo le caute aperture del Papa e l’ipotesi fatta al Concistoro dal cardinale Kasper,  di una riammissione all’eucaristia dei divorziati risposati dopo un percorso penitenziale, sulla scia della Chiesa antica e in sintonia con la Chiesa ortodossa orientale.
Al di là della soluzione proposta, l’approccio del cardinale Kasper è di straordinario valore: da un lato perché dalla dottrina dell’indissolubilità oggi vigente  egli torna alla fonte da cui è scaturita, cioè al Vangelo che “non è una legge scritta ma è la grazia dello Spirito Santo” (lo diceva pure san Tommaso), e dall’altro perché mette in guardia rispetto a una prassi ecclesiale che a partire dalla negazione dell’eucaristia ai genitori divorziati, rischia di separare dai sacramenti e dalla fede i loro figli, così che “perderemo anche la prossima generazione, e forse pure quella dopo”.
Durissimo però è il fuoco di sbarramento già lanciato da quanti si oppongono ad ogni cambiamento della disciplina ecclesiastica in materia, che a loro parere la Chiesa stessa non avrebbe il potere di modificare; e tra i più agguerriti difensori di tale ortodossia non ci sono solo prelati credenti, ma anche atei devoti che, come Giuliano Ferrara, si proclamano non credenti che vogliono vivere in un mondo di credenti, ritenuto molto più funzionale per loro.
Anche per la pressione di questi strumentalismi esterni, il dibattito ecclesiale rischia di polarizzarsi su posizioni radicalmente contrapposte che non rendono onore all’oggetto del contendere, quando l’oggetto del contendere comprende beni preziosissimi che sono cari ad ambedue le parti in contrasto tra loro, e cioè il significato dell’eucaristia, l’accoglimento e la retta interpretazione delle parole di Gesù, la capacità risanatrice e salvifica della Chiesa, la misericordia e la tenerezza di Dio. C’è il rischio che per difendere la propria tesi si rovesci il senso delle cose, che ad esempio un dono di Dio diventi un giogo, o che una scelta fatta per amore di Dio sia imputata a peccato, o che il primato della coscienza degeneri in anomia.
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martedì 18 marzo 2014

QUESTO PAPA PIACE TROPPO?

Discorso tenuto alla DOZZA, Bologna, il 16 marzo 2014

Evangelii Gaudium: Una regola francescana per l’evangelizzazione
di Raniero La Valle 

Papa Francesco ci ha avvertito: non bisogna fare l’esaltazione del Papa. Lo ha detto nell’intervista al direttore del Corriere della Sera (5 marzo 2014): non mi piace “una certa mitologia di papa Francesco;  Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione”.
Questa lucidità del Papa è impressionante: in effetti l’esaltazione incondizionata è un ingrediente della ideologia sacrificale, che finisce nel capro espiatorio. Questa è una cosa che ha spiegato René Girard, l’antropologo che ha letto il Vangelo come lo smascheramento dell’ideologia del sacrificio: nella esaltazione e nel rito di incoronazione del re, come nell’acclamazione del messia, c’è un omicidio differito, c’è la preparazione della vittima. Il Papa, che ha avviato un difficile e contrastato processo di riforma della Chiesa, lo sa; in certi ambienti, come già accadde a papa Giovanni, egli è oggetto di una sorda ostilità; Giuliano Ferrara, parlando insieme ad altri e anche per molti che tacciono, ha addirittura scritto un libro: “Questo Papa piace troppo”. A loro invece non piace e ne farebbero volentieri a meno. E la ragione è che questo Papa non vuole “lasciare le cose come stanno”, come ha scritto nella Evangelii Gaudium (al n. 25);  in modo più preciso, due cose egli non vuole lasciare come stanno: una è la Chiesa, che, così come stava, non produce Vangelo, ma carrierismi, malinconie, facce da funerale, cattive finanze e anche, nei seminari, “piccoli mostri”, come ha spiegato ai Superiori generali (Civiltà Cattolica, 3 gennaio 2014); e l’altra è il mondo che, così come sta, è in ginocchio davanti al denaro, produce morte ed esclusione e ribalta il precetto universale dell’amore nell’ideologia dell’indifferenza.

Non bilanci

Quindi non si deve fare nessuna esaltazione incondizionata del Papa; ma neppure si possono fare già dei bilanci, dopo il primo anno di pontificato, perché in realtà questo pontificato ancora non si è rivelato. Come dice la Dei Verbum del Concilio, al n. 2, l’ “economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi”, quindi bisogna guardare agli eventi e alle parole che rivelano il senso di questo pontificato; però è ancora troppo presto, di parole ce ne sono già molte ma di eventi ce ne sono ancora troppo pochi; in questo senso il pontificato di Francesco deve andare ancora a regime.
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giovedì 13 marzo 2014

Verso le elezioni di maggio


La federazione europea c’è, ora ci vuole la democrazia
 di Raniero La Valle

Potrebbe essere uno sterile esercizio cercare di fare previsioni su quello che sarà l’esito delle prossime elezioni europee, perché le elezioni non sono un fattore determinante del futuro europeo. Lo sarebbero se le istituzioni europee fossero istituzioni democratiche, perché allora il voto degli elettori deciderebbe del governo e della politica, come avviene nelle democrazie e come avviene ancora da noi. Ma le istituzioni europee non sono democratiche, non c’è una Costituzione europea, ci sono solo dei trattati internazionali fatti dai governi su misura dei mercati, e con il voto di maggio non si potrà nemmeno decidere se a fare il presidente della Commissione dovrà essere il tedesco socialdemocratico Schulz o il greco di sinistra Tsipras, perché pur tenendo conto dei risultati elettorali e delle preferenze del Parlamento di Bruxelles, a decidere su chi comanda in Europa resteranno i governi, e naturalmente i più forti tra loro.
Certo, sarà interessante vedere che seguito potrà avere la nuova lista di sinistra “L’Altra Europa” capeggiata da Tsipras, nel momento in cui quella che fu la sinistra italiana è dispersa tra l’elettorato grillino, ciò che resta del PD catturato nell’avventura personalista di Renzi, l’ex sinistra democristiana rottamata nel centrosinistra e le varie anime della cosiddetta sinistra alternativa. I sondaggi accreditano la lista di Tsipras di 5 o 6 deputati eletti, ma questa lista è viziata da un peccato d’origine, che è la presunta contrapposizione tra una società civile, che sarebbe pura, e la società politica dei partiti che sarebbe contaminata e esecranda. Infatti la lista è stata promossa da intellettuali, con al centro il nome di Barbara Spinelli; ma essi hanno decretato che i partiti e i loro dirigenti non ci dovevano entrare, e quando questo criterio di purità rituale è stato violato, sono cominciati i litigi e Paolo Flores D’Arcais e Andrea Camilleri, che erano tra i padri nobili dell’iniziativa, si sono defilati e hanno tolto la loro garanzia al prodotto.
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domenica 9 marzo 2014

L’INDISSOLUBILITÀ TRA UNIVERSO MASCHILE E FEMMINILE


  Pubblichiamo il discorso tenuto in occasione dell’8 marzo alla Casa delle Donne di Roma da Raniero La Valle, a proposito del libro di Marcella Delle Donne, “Voce donna, femmina dell’uomo” (Edizioni Albatros, 2013)

Abbiamo tra le mani un libro, un piccolo grande libro.
Piccolo perché sono 96 pagine, neanche scritte tutte. Grande perché non sai che libro è, e intanto ci vuole una densissima prefazione di un’antropologa, Alessandra Broccolini, per cominciare a capire di che libro si tratta e quali problemi ci pone.
Un libro di storie
Intanto è un libro di storie. Storie di donne. Ma qui c’è una prima sorpresa. Perché subito ti accorgi che non è solo storia di donne, ma inevitabilmente è storia anche di uomini. E’ vero, a scandire tutti i racconti ci sono nomi di donna – Fabiana, la fanciulla bruciata, Amina, la vittima innocente del Darfur, Fatima, la musulmana innamorata, Carmelina, la fuggiasca pugliese suicida, Giuseppina, la ribelle antimafia dell’Aspromonte, Sonia, la primaria dell’ospedale multietnico di Sarajevo, Jole, la pittrice mancata, Fiore, l’italiana di patria tedesca e con una zingara come samaritana, e infine c’è la stessa Marcella, combattuta tra l’istante e l’eterno -; ma ecco dietro i nomi di donna ci sono sempre i nomi dell’uomo, David, il figlio della mafia, Pietro, l’illuminato volterriano, Berlusconi, il cavaliere orgiastico, Peppe il pittore infedele, Elio, il piccolo contadino divenuto ingegnere, Ercole, l’agricoltore che mieteva il grano vicino a San Pancrazio, quando Roma era ancora in campagna.
Poi ti accorgi che in queste storie dove sempre serpeggia la violenza, non sempre è l’uomo il nemico delle donne; spesso invece altre donne sono nemiche delle donne e come nemiche ci sono anche comunità intere; nel caso degli aborti selettivi a danno delle bambine, misogine – quando non costrette – sono anche le mancate madri; Amina, violentata presso la fonte, subisce l’ostracismo ed è condannato da tutto il villaggio, maschile e femminile; di Carmelina, abbattuta sulla via della fuga dalla famiglia e violata dagli stupratori, dice il vicinato che se l’è andata a cercare, la gente sussurra, si scuotono le teste, non solo quelle virili; Fiore subisce il diktat materno che le stronca la vocazione, le cambia la vita.
Naturalmente c’è la ragione di questo, è la cultura patriarcale interiorizzata anche dalle donne; ma questo basta a dire che per cambiare la società la lotta non è di un genere contro l’altro genere, ma è di tutta la specie; ed è una lotta anche dentro lo stesso genere: infatti come gli uomini obiettori di coscienza si oppongono al potere maschilista della guerra, così le donne in nero si oppongono alle donne in grigioverde o in mimetica del loro esercito che partecipano alla repressione.
E qui c’è il primo pregio di questo libro, che essendo un libro di storie, non è il libro di una ideologia, fosse pure un’ideologia femminista; perché ci sono più cose e più ricchezze nelle storie, di quante non possano essere racchiuse nelle ideologie. E da qui viene una prima avvertenza e cioè che il destino del femminismo non sta nell’elaborare la separazione conflittuale tra i sessi, ma nel rendere veramente umano il loro intreccio.
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venerdì 28 febbraio 2014

PER UN PARLAMENTO COSTITUENTE A BRUXELLES

ASSEMBLEA PROMOSSA DA ECONOMIA DEMOCRATICA – SBILANCIAMOCI – 
COMITATI DOSSETTI PER LA COSTITUZIONE

Roma 12 aprile 2014 ORE 10 al Centro Congressi di Via dei Frentani 4

EGUAGLIANZA E INCLUSIONE IN ITALIA E IN EUROPA  
                           
Le elezioni per il Parlamento europeo avvengono nel segno di un rovesciamento. Il sogno dell’Europa unita si sta trasformando in un incubo. In Grecia le famiglie devono scegliere se comprare la luce, il cibo o le medicine. In Italia imprenditori si suicidano perché nessuno paga i loro crediti. In Francia e in altri Paesi fondatori della Comunità europea il principale emigrante è diventato il lavoro, che va dove è più abbondante ed è meno pagato e non ha alcun diritto. L’ideale politico dell’Europa unita, che avrebbe dovuto realizzarsi col superamento degli Stati nazionali e l’instaurazione della pace, è naufragato in un arretramento della politica che ha ceduto all’economia, alla finanza e al denaro, nel frattempo diventato euro, il governo della società e la sovranità che dai popoli europei avrebbe dovuto passare al popolo dell’Europa.
In questo contesto le politiche antisociali di rigore imposte dagli organi comunitari in ossequio ai mercati finanziari stanno producendo, in gran parte dell’Unione, una recessione che pesa interamente sui ceti più deboli, provocando un aumento della povertà e della disoccupazione e una riduzione delle prestazioni dello Stato sociale. Ne risulta minato il processo di integrazione, ben prima che sul piano politico e istituzionale, nella coscienza e nel senso comune di gran parte delle popolazioni europee. L’unità del nostro continente richiede infatti lo sviluppo di un senso di appartenenza a una medesima comunità, quale solo può provenire dall’uguaglianza nei diritti, oggi smentita dalla crescente diseguaglianza tra popoli del nord e popoli del sud dell’Europa, non soltanto nei diritti sociali, garantiti ai primi e sempre meno ai secondi, ma anche nei diritti politici, essendo incomparabile il peso, ai fini del governo dell’Unione, del diritto di voto nei Paesi più ricchi e in quelli più poveri.
Proprio in questi ultimi Paesi, nei quali fu più entusiasta e pressoché unanime l’adesione all’Unione, sta perciò sviluppandosi un antieuropeismo rabbioso, che si manifesta in una crescita delle destre xenofobe e populiste, nel rifiuto dell’integrazione, nella richiesta di uscita dall’eurozona oppure, nel migliore dei casi, in una disincantata delusione. Sta così accadendo che il mercato comune e la moneta unica, che i padri costituenti dell’Europa concepirono e progettarono come fattori di unificazione, sono oggi diventati, in assenza di politiche economiche comuni e solidali, altrettanti fattori di conflitto e di divisione.
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