LA PREGHIERA NEI GIARDINI VATICANI
di Raniero La Valle
Era il giorno di Pentecoste, che
certo aveva rappresentato una sorpresa per gli apostoli riuniti nel Cenacolo.
Ricordando quell’evento papa Francesco a mezzogiorno, alla recita del “Regina
Coeli”, aveva detto che una Chiesa che non avesse questa stessa capacità di
sorprendere, sarebbe una Chiesa ammalata, morente, dovrebbe al più presto
essere ricoverata in sala di rianimazione.
Nel pomeriggio dello stesso
giorno, l’8 giugno, la Chiesa di Francesco sorprendeva il mondo con la
preghiera comune, rivolta al Dio a tutti comune, dal più inedito e improbabile
“quartetto” che si sia mai occupato della pace in Medio Oriente. Il quartetto,
visto in diretta da tutto il pianeta, era formato dal papa di Roma, dal
patriarca di Costantinopoli, dal Presidente dello Stato di Israele e dal
Presidente dello Stato futuro di Palestina. Un’azione sacra compiuta non nella
città santa di Gerusalemme, dove non si era trovato un posto dove tutti potessero
pregare insieme, ma nell’angolo più poetico e mondano possibile dello Stato
pontificio, i giardini vaticani, dove mai si era parlato né ebreo né arabo, e
forse nemmeno si era mai pregato se non per qualche peripatetico rosario
privato.
Ancora più sorprendente era che
la preghiera, che vive in regime di gratuità, fosse mirata questa volta a
ottenere un bene urgente e concreto, la pace, ma non solo una pace generica,
come sempre e a buon mercato invoca la preghiera, bensì quella pace specifica
che è massimamente difficile, se non addirittura impossibile ottenere in questo
nostro tempo, ossia la pace tra Israele e il popolo dei territori occupati
della Palestina.
Si parla dunque di una pace non
solo spirituale ma politica e storica, una pace come il mondo la può dare, e la
può dare attraverso le risorse della politica e del diritto, nella forma da
tutti a parole avallata di due popoli in due Stati sovrani dalle frontiere sicure
e riconosciute.
Trattandosi di un obiettivo
strettamente politico nessuno ha osato pensare che la preghiera fosse davvero
un mezzo atto a conseguirlo. Siamo ormai troppo maturi per pensare che la
preghiera sia una fabbrica di miracoli. Certo la preghiera può produrre
riconciliazione, pentimento, perdono, misericordia, comunione, ma non è un
negoziato con altre parole, non è la diplomazia con altri ambasciatori, né è la
continuazione della politica con altri mezzi. Sicché, da quando papa Francesco
aveva invitato Abu Mazen e Shimon Peres a venire a Roma a “pregare in casa sua”,
tutti avevano sottolineato il valore puramente simbolico dell’evento, il suo
significato non politico ma religioso, la sua ispirazione buonista, più che la
sua attitudine a procurare il bene voluto.
Ma già come simbolo l’evento
sprigionava una straordinaria potenza. Simbolo significa mettere due cose
insieme, l’una figura e specchio dell’altra, l’una segnale dell’altra, realtà e
rappresentazione, significante e significato, la pace che ancora non c’è e
l’ulivo che intanto si pianta
nella terra. Il papa aveva già messo insieme due muri, quello
degli ebrei a Gerusalemme e quello dei palestinesi a Betlemme, ambedue li aveva
accarezzati e consolati, simboli del pianto dell’uno e dell’altro popolo che un
giorno si scioglierà in grida di gioia. Ma i simboli non sono innocui,
impegnano chi li pone. E sul muro della servitù palestinese su cui Francesco
aveva posato la fronte, c’era scritto in inglese “Palestina libera”, “Betlemme
come il ghetto di Varsavia” e “Papa, noi abbiamo bisogno di qualcuno che parli
di giustizia”.
Nel giardino romano i simboli
erano altrettanto potenti. Le tre musiche dei solisti ebrei, cristiani e
musulmani che un giorno saranno un concerto; il papa e il patriarca di
Costantinopoli reduci da scomuniche dimenticate e ora impegnati a celebrare l’unità
d’Oriente e d’Occidente e a promuovere l’unità delle Chiese; l’abbraccio dei
due presidenti a prefigurare la convivenza, se non l’abbraccio, di popoli e
religioni; il medesimo Dio da tutti pregato che tutti elegge, nessuno esclude,
nessuno considera infedele ma è tutto in tutti e vuole che tutti gli uomini e
le donne siano salvi.
E tuttavia l’evento pentecostale
dell’8 giugno non è stato solo “religioso”, non è stato solo simbolico, non è
stato solo profetico, ma è stato in modo proprio un evento compiutamente
politico, anzi forse il primo atto veramente politico e aderente alla realtà
nei sei decenni del conflitto israelo-palestinese; in questo senso è stato
davvero un gesto geniale del papa.
Infatti esso per la prima volta e
in faccia al mondo ha portato alla luce il nocciolo duro del problema politico
che non trova soluzione e ha svelato l’unico terreno su cui può essere risolto:
il problema è che non si può disgiungere
l’esistenza teologica dall’esistenza politica dello Stato di Israele, e il terreno
su cui il nodo può essere sciolto è quello religioso e sta in uno sviluppo
della fede.
Quando sorse il movimento
sionista all’inizio del Novecento, immediatamente nella diaspora ebraica ne furono
discussi il significato e la legittimità teologica, anche se la forma in cui
esso si era presentato era stata quella del sionismo politico. Per il sionismo
religioso radicale la costruzione dello Stato ebraico avrebbe rappresentato la
ricostituzione dell’Assemblea di Israele nella sua terra indivisa, l’inizio della
redenzione, l’avvento della divina Presenza e “il piedistallo del trono del
Signore nel mondo”; per gli anti-sionisti radicali sarebbe stato invece un
tradimento, un sostituirsi dell’azione umana a quella divina, un’irruzione
demoniaca, antimessianica, la disobbedienza alla proibizione del Talmud di ”forzare
la fine”, e sarebbe stato un fallimento.
La tragedia della Scioà ha spinto
con forza nella prima direzione; la guerra dei sei giorni, l’occupazione di
tutta la terra, (l’Eretz Israel), e gli
insediamenti hanno fatto pensare all’attuazione storica delle promesse
messianiche, il successo realizzato ha
fatto venir meno i cattivi presagi del fallimento. E benché una classe
dirigente laica abbia preso in mano e guidato il processo in chiave di secolarizzazione,
l’implicazione religiosa e la
legittimazione teologica dello Stato sono rimaste decisive; nell’esistenza
politica e profana di Israele è rimasto conficcato quello che il grande
studioso del messianismo, Gershom Scholem, ha chiamato “il pungiglione
apocalittico”; e Jacob Taubes, un altro grande pensatore ebreo, ha raccontato
che nel 1948 il ministro della giustizia aveva chiesto all’università ebraica
di Gerusalemme dei testi del diritto pubblico tedesco per preparare la
Costituzione dello Stato di Israele, ma poi la Costituzione non fu fatta perché
prevalse la tesi che per Israele la sola Costituzione
è la Torà. E
una suora dossettiana ha riferito che a inaugurare un corso di lingua ebraica
per stranieri a Gerusalemme era venuto un esponente del movimento sionista che
aveva spiegato come, “dato che il Messia tardava a venire, siamo venuti noi”.
Certo le cose si evolvono, la
realtà preme sulle dottrine e anche le ideologie si addolciscono. Però questa è
la ragione per cui, nonostante il negoziato sempre invocato (e Rabin ci ha rimesso la vita) finora ci
sono state per Israele delle cose non negoziabili, che hanno precluso ogni
accordo ed eccitato la reazione araba. E la prima cosa non negoziabile è la Terra,
donata in esclusiva da Dio, che insieme al Popolo e alla Legge appartiene alla
triade indissolubile di cui è costituito Israele; e questo “non possumus”, questa impossibilità non
sono nemmeno troppo impliciti e dissimulati se in vari modi con atti pubblici
la destra israeliana i partiti religiosi e lo stesso Netaniahu hanno fatto
sapere che “nessuna sovranità se non quella israeliana esisterà mai tra il mare
e il Giordano”.
Certo, alla compiuta
realizzazione di questo “messianismo senza messia” è venuta a mancare l’altra
componente che si attendevano i sionisti
religiosi, cioè la conversione religiosa della società israeliana che invece si
è andata sempre più secolarizzando, al punto che ci sono ebrei sconsolati che
parlano di un esilio di Israele nella Terra santa; ma a ciò si risponde che
sono i fatti stessi della storia, il raduno degli esiliati, la colonizzazione
di tutta la terra d’Israele, l’abbondanza dei frutti dei campi, il potere e le
vittorie militari a mostrare oggettivamente l’avanzamento della redenzione.
Come ha scritto il rabbino Shlomo Aviner: “La conversione religiosa consiste in
questa esperienza storica manifesta: di che cosa dobbiamo lamentarci?”
È per questo che mettendoli
insieme a pregare papa Francesco ha fatto a israeliani e a palestinesi il
credito maggiore che potesse fare, e li ha posti di fronte al problema politico
più vero e più acuto. Se Dio è il centro dell’amore nel quale si incontrano, si
parlano, si abbracciano ebrei cristiani e musulmani, israeliani ed arabi, egli
non può più essere invocato come motivo o pretesto di un odio e di una violenza
reciproca. In forza di questo padre la parola fratelli è l’unica che può
rompere il cerchio dell’inimicizia; e se ci sono parole, o promesse, o
predilezioni, o comandamenti di Dio che legittimano o addirittura impongono difese
omicide, offese incondizionate, oppressioni e vendette, apartheid e
intransigenze, prigionie terrorismi o stermini, vuol dire che la parola di Dio è stata male
interpretata, che la promessa è stata distorta, che Dio è stato frainteso, che
la religione si deve convertire, che la fede si deve sviluppare e crescere.
Questo è stato ed è vero per i cristiani, è vero per l’Islam, ed è vitale per
Israele, ed è proprio da qui che passa il valore universale del compito del
popolo ebreo per il mondo.
Pregare per la pace tra Israele e
Palestina vuol dire allora pregare per
una nuova interpretazione e pratica della fede, condizione di agibilità
dell’impresa laica e politica della ripartizione territoriale, del
riconoscimento universale dei diritti, delle reciproche garanzie di sicurezza e
dell’instaurazione di fecondi rapporti economici e sociali.
Ha detto il papa che ci vuole più
coraggio a fare la pace che a
fare la guerra. Lui
non poteva dirlo per non mancare di discrezione interreligiosa e ecumenica: ma
è ancora più vero che a ebrei e palestinesi oggi non manca il coraggio, è di
impedimento la fede; ed è richiesta più fede per fare la pace di quanta fede ci
voglia per continuare la guerra.
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