sabato 31 luglio 2021

 

COME IL PADRE AMATE I NEMICI

Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. ... Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». (Mt. 5, 44-48)

Nell’aspro dibattito innescato  in Italia dalla contestata riforma della ministra Cartabia, si discute di procedure e tempi del processo penale, mentre non si ricorda la natura drammatica della giustizia penale. Il potere giudiziario è “un potere terribile”, diceva Montesquieu: l’ha ricordato  Luigi Ferrajoli nel recente congresso di Magistratura Democratica proponendo un ripensamento profondo della giurisdizione penale: perché sia conforme ai due principi imprescindibili dell’indipendenza e dell’imparzialità, ci sono due riforme da fare. La prima è quella di sottrarla al condizionamento della carriera, che secondo la proposta radicale di Ferrajoli va addirittura soppressa, rendendo tutti i giudici eguali nella diversità delle funzioni, come vuole la Costituzione. La seconda è di liberarla dall’idea del Nemico.
Oggi prevale la concezione della giustizia penale come lotta contro il crimine, e di fatto contro i loro autori. Al contrario, ha detto Ferrajoli, la giurisdizione non conosce – non deve conoscere - nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti, ma solo cittadini. Per andare alle fonti della nostra cultura penalistica, si può citare Cesare Beccaria che chiamò “processo of­fensivo” quello nel quale “il giudi­ce diviene ne­mico del reo” e “non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto, e lo insi­dia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quel­l’in­fal­libilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”. Secondo Beccaria, il processo deve consistere invece nell’“indifferente ricerca del vero”. Perciò si deve escludere ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. E’ chiaro che questa concezione del processo esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde. Il  Pubblico Ministero non è un avvocato, e il processo non è una partita nella quale l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.
Qui siamo oltre il tema dell’efficienza. Rifiutare l’idea del Nemico significa infatti anche escludere il carattere vendicativo della giustizia penale, che intende la pena come un risarcimento del male compiuto mediante l’inflizione di una sofferenza al colpevole. In effetti nella percezione comune giustizia non è fatta se il reo non soffre; nel patimento la società troverebbe il suo compenso e l’offeso si appaga: la sofferenza diventa in tal modo un fine dell’ordinamento. Male per male: è una morale da divina commedia, anche se Dio non è così, la Commedia non doveva chiamarsi divina e la Costituzione ha tutt’altra idea della pena come rieducazione del condannato, anche se si tratta di un fine che spesso non si realizza
Ma ciò riguarda solo la giustizia penale? Ben oltre questa, l’abbandono della logica del Nemico avrebbe una portata epocale, Fin dal principio la società si è conformata a una lotta degli uni contro gli altri; un antico frammento di Eraclito faceva della guerra l’origine di tutte le cose, di tutti re, e nella modernità è stato Carl Schmitt a sostenere che il confronto amico-nemico è il criterio e la sostanza stessa del politico. La  competizione selvaggia dell’età della globalizzazione e il precipizio della politica nelle spire del bipolarismo, del maggioritario, della lotta al proporzionale, del populismo carismatico e dell’esclusione dei perdenti ne sono il prezzo. Gli sconfitti sono scartati, papa Francesco la chiama società dello scarto, perché i soccombenti, i poveri,  non solo vi sono sfruttati ma sono esclusi, non possono lottare, di fatto non ci sono: ai naufraghi e ai migranti sono negati i porti e la terra della loro salvezza, sono restituiti al mare o alle torture dei lager libici.
Il problema è però che l’ideologia del Nemico non è più compatibile con la conservazione della società umana. Nella condizione della lotta degli uni contro gli altri né la pandemia può essere fermata nelle sue infinite varianti, né il clima può essere governato in modo da preservare la vita sulla terra, né la guerra può essere ripudiata nella sua inesauribile proliferazione; e a questo punto l’uscita dalla sindrome del Nemico non è solo una questione di etica pubblica, è una questione di sopravvivenza e ci sfida a passare a un’altra antropologia. Mai nella storia si era dato quest’obbligo. Ma questo è il tempo che ci è toccato in sorte. Sta a noi prenderne atto.
Una tale conversione chiama in causa la Chiesa italiana e il suo prossimo Sinodo, di cui finalmente si è avviato il cammino. Il suo Manifesto recita: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”. Secondo  “Koinonia”, la rivista di padre Alberto Simoni, ciò vuol dire offrire il Vangelo come vino nuovo in otri nuovi. E la vera novità starebbe proprio nell’annuncio dell’amore dei nemici. Il Vangelo è l’unico codice che lo prescrive. Gesù Cristo che di certo era un “teista” e secondo l’evangelista Giovanni come Figlio unigenito è il vero rivelatore del Padre, indicava l’amore dei nemici come via per l’imitazione di Dio. Certo se si nega la fede in Dio, si perde anche questo: molte cose sono in gioco nella “delenda Cartago” oggi di scena anche tra i cristiani, della polemica antiteista. Ma nel Dio unico, Padre e custode di tutti gli uomini e le donne, non c’è nemico, e perciò non deve esserci nemico nemmeno per noi sue creature   Non potrebbe esserci oggi, per la vita delle persone e per la società tutta, un carisma più grande di questo. Se questa rivoluzione avvenisse, sarebbe stabilita la condizione dell’unità umana per salvare la terra, i populismi cadrebbero, nessuno sarebbe scartato. Sarebbe il dono fatto al mondo dalla Chiesa di papa Francesco, che dall’inizio del suo pontificato non fa che mostrare al mondo la vera identità di Dio.

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 RITORNO AL PASSATO?

Il mio ultimo post, “Il Dio che perdiamo”, ha suscitato riflessioni profonde e un illuminato dibattito. Esso è stato anche ragione di consolazione per molti, per i quali “perdere Dio” significherebbe perdere tutto; più che posteri di Dio se ne sentirebbero orfani, vittime di una promessa non mantenuta (“non vi lascerò orfani”).
Non è mia intenzione né sarei in grado di rispondere a tutte le questioni; è fuori discussione che la critica al post-teismo non ignora che si parla di un mistero, che l’unico linguaggio appropriato sarebbe quello apofatico, che la mistica è il vero luogo del rapporto umano con Dio; dunque tutte le repliche che insistono su questo hanno ragione. Tuttavia ben più di questo dicono molti che sostengono la posizione post-teista che come svolta epocale sancisce la chiusura dei conti con Dio, visto nelle forme forse un po’ stereotipe in cui lo ha tramandato il teismo (onnipotente, onnisciente, dispotico, ecc.).
Perciò è utile interrogarsi ancora sui termini del confronto, per cercare di fare chiarezza. E intanto bisogna dire che ciò che ci viene proposto non è l’ateismo, perché per l’ateismo nessun Dio c’è mai stato, neppure questo oggi dismesso; non è per il mutare dei tempi che egli viene ora negato, altra è la privazione di Dio che alla sua lunga e nobile tradizione va ascritta. Il post-teismo ragiona invece di un Dio che c’era, o che almeno è stato creduto (e tanto e da tanti che intorno a questa nozione di Dio si è caratterizzata un’intera epoca storica), e che ora in un mondo fattosi adulto non c’è più, non ha ragione di essere creduto e a cui è facile addossare improbabili connotati oggi confutati fino all’irrisione.
Però il Dio che così viene ora licenziato non è tanto quello del teismo, quanto in realtà è il Dio del monoteismo, che distaccandosi dal magma delle religioni primitive e dei culti panteisti che divinizzavano le forze della natura come il cielo la terra il sole la luna, a un certo punto ha fatto irruzione nella storia di questa parte del mondo nell’area mediterranea. Secondo la Bibbia questo evento risale all’età dei patriarchi, al patto con Abramo, secondo Freud (“L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, che è il suo ultimo libro) è, nel XIV secolo a. C., un frutto della gloriosa quattordicesima dinastia dell’Egitto divenuto impero, che aveva bisogno di una religione più diffusiva; e questa religione fu trasmessa da Mosè, che sarebbe stato non ebreo ma un egizio, al popolo di Israele nell’atto di mettersene a capo, di portarlo fuori dall’Egitto e di farsene legislatore e guida.
In ogni caso quale che sia la genesi del monoteismo è come se due strade si fossero aperte al tempo delle origini: da un lato nel popolo greco secondo Freud ci fu “un allentamento del politeismo” e l’inizio del pensiero filosofico, dall’altro in Egitto e nel popolo ebreo si ebbe l’abbandono dei culti idolatrici e la costruzione dell’unico Dio dominante su tutto e capace di amare in modo personalissimo il suo popolo: e fu questo il grande dono fatto da Israele all’umanità intera. Poi, nel tempo stabilito questo Dio, immedesimato in Gesù di Nazaret e da lui reinterpretato fino al rovesciamento dell’umiliazione e della croce, è entrato nella storia e attraverso la sua Chiesa con tutto il suo carico di paradossi, mito o mistero che siano considerati, ha piantato la sua alternativa nel mondo.
Sbarrare ora questa strada e risospingere questo Dio nel nostro passato, come fa il post-teismo, che piuttosto dovrebbe dirsi un post-monoteismo, non significa perciò proiettarsi nel futuro come vorrebbe il progressismo, ma tornare a quel bivio della storia umana quando il Dio unico si separò dagli idoli, desacralizzò la natura e demitizzò le astrazioni spiritualistiche per le quali tutte le cose sono considerate divine e le stesse facoltà umane sono esaltate come brandelli dell’assoluto.
Occorre pertanto vigilare perché questo “post” del teismo non sia piuttosto una ricaduta nel passato e perché questo ritorno all’areopago di Atene che dovrebbe affrancarci dal “Dio ignoto”, giustamente inaccessibile alla scienza, non ci consegni piuttosto agli idoli che sempre più stanno prendendo il controllo della nostra vita. Se noi abbiamo infatti più sicurezze e meno antidoti, gli idoli crescono di numero e potenza, che si tratti del pallone glorioso, dei mercati sovrani, dei brevetti irrinunciabili sui vaccini o della libertà di inquinare.
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venerdì 9 luglio 2021

IL DIO CHE PERDIAMO 

Il Dio che perdiamo
Grazie al “dossier sul post-teismo” curato da Enrico Peyretti, pubblicato nella sezione “Dicono i discepoli” del sito “Chiesadituttichiesadeipoveri” porto qui alla luce un tema finora passato sotto silenzio, che da tempo sta turbando gruppi cristiani anche a noi più vicini. Si tratta della questione che fa di Dio una nozione del passato, non più utilizzabile oggi: “Oltre Dio” è l’ultimo documento in cui è espressa questa posizione, è il terzo libro di una serie edita con dichiarata neutralità dall’editore Gabrielli, dedicata appunto al tempo che viviamo come successivo alla religione e perciò detto “post-religionale”, dove però è la neutralità stessa che fa problema: ne va infatti non solo dell’identità, ma del fondamento stesso dell’essere, non di Dio, ma della nostra relazione con lui.
L’oggetto stesso del dibattito è difficile ad essere definito, non c’è un limite, una soglia su cui alfine ci si possa attestare. Nel mio libro “No, non è la fine” (Edizioni Dehoniane), in cui il tema è stato affrontato, la questione è stata posta così: “Certo Dio è licenziato e accompagnato attrezzi da riporre, la strada è stata aperta per procedere allo smaltimento dei “miti”, che sono poi la creazione, il peccato, il messia, la redenzione: un accanimento da cui viene fuori un messaggio globalmente antibiblico. E se c’è stato qualche teologo volenteroso che nella ricerca di nuovi modelli cristiani ancora ha cercato di inalveare questo sommovimento nei parametri del Concilio Vaticano II e nella nuova prospettiva aperta dalla predicazione di papa Francesco (Victor Codina, Cristiani in Europa, in Adista-documenti, 11 luglio 2020), altri hanno rivendicato la radicalità del superamento necessario: il Concilio, papa Francesco sarebbero a loro parere ancora dei cambiamenti interni al vecchio computer; bisogna invece cambiare il computer stesso, il suo hard disk “che gira a vuoto, è pieno di virus e non consente nuove applicazioni” (Santiago Villamajor, Riscattare il cristianesimo, in Adista-documenti, 11 luglio 2020). Solo che l’hard disk da buttare via è il Vangelo stesso, nel suo contenuto inaudito, il pezzo da rimuovere è lo stesso mistero pasquale; e dunque a cadere sono la croce e la resurrezione, lo scambio trinitario, il dono dello Spirito, il discepolo che rimane, e l’anno liturgico che tutto ciò rivive e ripropone nel tempo. Cioè è il cristianesimo, comunque lo si dica riformato. Ebbene, il prezzo è troppo alto…”
La questione è aperta. Forse si potrebbe dire qui come alla base ci sia un equivoco di fondo sul contenuto stesso della disputa: per i neo-noncredenti collocare nel passato la questione di Dio vuol dire rifiutarne l’oggettivazione che l’ha resa tributaria del mito, della fantasia, dell’invenzione antropomorfa, l’ “Oggetto Immenso” fatto preda della ragione; e ne hanno i motivi. Ma col Dio pensato così i conti sono stati fatti da tempo, alla domanda sull’identità di Dio la risposta è quella di Gesù alla Samaritana, Dio non va cercato su questo monte o su quell’altro, ma in Spirito e verità; la questione invece è quella del rapporto umano con lui, è la fede che lo coinvolge nella storia, è della fede che si può identificare un prima e un dopo (“il Figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla Terra?”); la domanda è sul senso e le implicazioni della fede di quanti credono in lui, è questo che appicca il fuoco alla storia.
E qui, su questo rapporto vitale con un “Tu” che ci ama, vale la notazione con cui Enrico Peyretti ha accompagnato il suo dossier per rivendicare il rapporto con Dio come “persona” : «Se ciò che abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in qualche modo parlante, trasmittente una comunicazione significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona), avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza, armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci sono, infatti, religioni della natura…Se non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento, fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende storiche e biografiche… Se non fosse persona, non ci sarebbe la preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci nell’impresa della vita».
Se perdessimo questo Dio, possiamo aggiungere, perderemmo anche il Dio nonviolento che è il grande dono fatto all’umanità dalla Chiesa del Concilio, da Giovanni XXIII a papa Francesco ad Abu Dhabi alla preghiera nella piana di Ninive, e la violenza, a cominciare da quella religiosa, resterebbe inarginata.
Raniero La Valle
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