COME IL PADRE AMATE I NEMICI
Ma io
vi dico: amate i
vostri nemici e
pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli;
egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e
sugli ingiusti. ... Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». (Mt. 5, 44-48)
Nell’aspro dibattito
innescato in Italia dalla contestata riforma della ministra Cartabia, si
discute di procedure e tempi del processo penale, mentre non si ricorda la
natura drammatica della giustizia penale. Il potere giudiziario è “un potere
terribile”, diceva Montesquieu: l’ha ricordato Luigi Ferrajoli nel recente congresso di Magistratura Democratica proponendo un ripensamento profondo della
giurisdizione penale: perché sia conforme ai due principi imprescindibili
dell’indipendenza e dell’imparzialità, ci sono due riforme da fare. La prima è
quella di sottrarla al condizionamento della carriera, che secondo la proposta
radicale di Ferrajoli va addirittura soppressa, rendendo tutti i giudici eguali
nella diversità delle funzioni, come vuole la Costituzione. La seconda è di
liberarla dall’idea del Nemico.
Oggi prevale la concezione della giustizia
penale come lotta contro il crimine, e di fatto contro i loro autori. Al
contrario, ha detto Ferrajoli, la giurisdizione non conosce – non deve
conoscere - nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti, ma solo
cittadini. Per andare alle fonti della nostra cultura penalistica, si può
citare Cesare Beccaria che chiamò “processo offensivo” quello nel quale “il
giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca
nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce,
e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”.
Secondo Beccaria, il processo deve consistere invece nell’“indifferente ricerca
del vero”. Perciò si deve escludere ogni atteggiamento partigiano o settario,
non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. E’ chiaro che
questa concezione del processo esclude anche l’idea, frequente nei pubblici
ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde.
Il Pubblico Ministero non è un avvocato, e il processo non è una partita
nella quale l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.
Qui siamo oltre il tema dell’efficienza.
Rifiutare l’idea del Nemico significa infatti anche escludere il carattere
vendicativo della giustizia penale, che intende la pena come un risarcimento
del male compiuto mediante l’inflizione di una sofferenza al colpevole. In
effetti nella percezione comune giustizia non è fatta se il reo non soffre; nel
patimento la società troverebbe il suo compenso e l’offeso si appaga: la
sofferenza diventa in tal modo un fine dell’ordinamento. Male per male: è una
morale da divina commedia, anche se Dio non è così, la Commedia non doveva
chiamarsi divina e la Costituzione ha tutt’altra idea della pena come
rieducazione del condannato, anche se si tratta di un fine che spesso non si
realizza
Ma ciò riguarda solo la giustizia penale? Ben
oltre questa, l’abbandono della logica del Nemico avrebbe una portata epocale,
Fin dal principio la società si è conformata a una lotta degli uni contro gli
altri; un antico frammento di Eraclito faceva della guerra l’origine di tutte
le cose, di tutti re, e nella modernità è stato Carl Schmitt a sostenere che il
confronto amico-nemico è il criterio e la sostanza stessa del politico. La competizione
selvaggia dell’età della globalizzazione e il precipizio della politica nelle
spire del bipolarismo, del maggioritario, della lotta al proporzionale, del
populismo carismatico e dell’esclusione dei perdenti ne sono il prezzo. Gli
sconfitti sono scartati, papa Francesco la chiama società dello scarto, perché
i soccombenti, i poveri, non solo vi sono sfruttati ma sono esclusi, non
possono lottare, di fatto non ci sono: ai naufraghi e ai migranti sono negati i
porti e la terra della loro salvezza, sono restituiti al mare o alle torture
dei lager libici.
Il problema è però che l’ideologia del Nemico
non è più compatibile con la conservazione della società umana. Nella
condizione della lotta degli uni contro gli altri né la pandemia può essere
fermata nelle sue infinite varianti, né il clima può essere governato in modo
da preservare la vita sulla terra, né la guerra può essere ripudiata nella sua
inesauribile proliferazione; e a questo punto l’uscita dalla sindrome del
Nemico non è solo una questione di etica pubblica, è una questione di
sopravvivenza e ci sfida a passare a un’altra antropologia. Mai nella storia si
era dato quest’obbligo. Ma questo è il tempo che ci è toccato in sorte. Sta a
noi prenderne atto.
Una tale conversione chiama in causa la Chiesa
italiana e il suo prossimo Sinodo, di cui finalmente si è avviato il cammino.
Il suo Manifesto recita: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”.
Secondo “Koinonia”, la rivista di padre Alberto Simoni, ciò vuol dire
offrire il Vangelo come vino nuovo in otri nuovi. E la vera novità starebbe
proprio nell’annuncio dell’amore dei nemici. Il Vangelo è l’unico codice che lo
prescrive. Gesù Cristo che di certo era un “teista” e secondo l’evangelista
Giovanni come Figlio unigenito è il vero rivelatore del Padre, indicava l’amore
dei nemici come via per l’imitazione di Dio. Certo se si nega la fede in Dio,
si perde anche questo: molte cose sono in gioco nella “delenda Cartago” oggi di
scena anche tra i cristiani, della polemica antiteista. Ma nel Dio unico, Padre
e custode di tutti gli uomini e le donne, non c’è nemico, e perciò non deve esserci nemico nemmeno
per noi sue creature Non potrebbe esserci oggi, per la vita delle
persone e per la società tutta, un carisma più grande di questo. Se questa rivoluzione
avvenisse, sarebbe stabilita la condizione dell’unità umana per salvare la
terra, i populismi cadrebbero, nessuno sarebbe scartato. Sarebbe il dono fatto
al mondo dalla Chiesa di papa Francesco, che dall’inizio del suo pontificato
non fa che mostrare al mondo la vera identità di Dio.
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