venerdì 28 settembre 2018

LA STELE DI XIAN


In aereo, nel 
viaggio di ritorno dai Paesi Baltici, papa Francesco ha raccontato ai giornalisti che dopo "quel famoso comunicato di un ex Nunzio apostolico" (cioè il documento in cui mons. Viganò platealmente chiedeva le dimissioni del papa) egli ha ricevuto molte lettere dagli episcopati di tutto il mondo e anche da fedeli cinesi che dicevano di essergli vicino, di pregare per lui. E tra questi c'era anche il vescovo della Chiesa tradizionale cattolica e quello della Chiesa patriottica, "insieme tutti e due, e i fedeli di tutte e due le Chiese". E questo, ha detto, "è stato un segno di Dio". Un segno, è da intendersi, che lo ha aiutato e spinto ad andare avanti con ancora più determinazione nel cammino per giungere all'accordo con la Cina. Un processo, ha detto il papa, che durava da più di dieci anni, aveva coinvolto i suoi due predecessori, ed era stato costruito con tenacia e pazienza dai membri dell'équipe vaticana, da mons. Celli al cardinale Parolin, ma poi l'Accordo, le lettere plenipotenziarie le ha firmate lui, la responsabilità se l'è assunta tutta lui. 
Questa confidenza del papa conferma l'apparente paradosso della tesi secondo cui l'offesa arrecata da quell'ex Nunzio apostolico al papa doveva essere accolta con immensa gioia, perché voleva dire che davvero il Vangelo è annunciato di nuovo, e c'è chi non lo sopporta. E infatti quella gioia si manifesta oggi nel ristabilimento della piena comunione con la Chiesa della Cina, che fino a ieri erano le due Chiese della Cina. Una gioia che non ignora e non dimentica la sofferenza, la "fede martiriale" di quanti hanno subito la prova. "Sempre in un accordo c'è sofferenza - ha detto il papa - E' vero, loro soffriranno, ma hanno una grande fede e scrivono, fanno arrivare messaggi, affermando che quello che la Santa Sede, che Pietro dice, è quello che dice Gesù".  E nella
 lettera che ha scritto poi ai cattolici cinesi e a tutta la Chiesa, il papa ha detto che se Abramo avesse voluto essere sicuro di tutte le condizioni sociali e politiche ideali prima di uscire dalla sua terra, non sarebbe mai partito. Anche questo significa "Chiesa in uscita".
Si è saputo dopo, da un'intervista del sociologo Francesco Sisci, ricercatore della China's People's University al sito Formiche.net, che il "vescovo tradizionale cattolico" che era stato il primo firmatario della lettera di pieno sostegno al papa era il vescovo di Quiquihar, nel Nord Est della Cina, Wei Jingyin, che è considerato il capo dei vescovi antigovernativi, ma si è saputo pure che gli sforzi per giungere all'intesa non sono stati solo da parte vaticana, ma anche da parte cinese, e dello stesso presidente Xi Jinping che ha cambiato atteggiamento rispetto ai suoi predecessori, ma non per un riguardo alla Chiesa, bensì per un riguardo alla Cina. Si è ricordato infatti che il cristianesimo in Cina non è una merce di importazione del recente imperialismo, ma è presente in Cina da almeno quindici secoli, tanto che nell'agosto del 2016 regalò al papa una copia della stele di Xian del VI secolo dopo Cristo, testimonianza del primo arrivo del cristianesimo, con i nestoriani, in Cina, volendo così dire al papa che il rapporto della Cina col cristianesimo è antico. 
Dunque non c'è stata solo geo-politica, ma fiducia, e per questo il papa nella lettera alla Cina ha risposto citando il saggio in cinese di Matteo Ricci " De amicitia", come sfida alla virtù della fiducia.
L'accordo, come è stato prudentemente definito, è "provvisorio"; ma provvisori sono appunto i segni del tempo, che annunciano un cambiamento che sta giungendo, anzi che è in corso; e segni di questo tipo, nel cielo tormentato della Chiesa di oggi, annunciano un cambiamento che è una discontinuità messianica (cioè cristiana).
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martedì 25 settembre 2018

IL FUTURO ORIENTE


Abbiamo visto la Chiesa cinese e partecipato alla messa nella cattedrale di Pechino alla fine della rivoluzione culturale di Mao, negli anni settanta del secolo scorso; c'era pure il mitico presidente del Tribunale dei Minori di Firenze, Giampaolo Meucci. La Chiesa era sotto il controllo del governo, che ne nominava i vescovi, e quindi sottratta alla comunione con Roma; perciò era detta "Chiesa patriottica". Noi però non trovammo una Chiesa comunista, magari invaghita degli ideali rivoluzionari della Cina popolare, ma anzi una Chiesa conservatrice, rattrappita nelle sue invariabili ritualità, ignara del nuovo, chiusa in un'isola di fissità dogmatiche, non raggiunta dal vento dello spirito che aveva messo sottosopra la Chiesa al Concilio Vaticano II. Era questo il prezzo della separazione dalla grande Chiesa: la messa in latino, i fedeli incupiti, non pervenuta la riforma liturgica, ignorati il rinnovamento biblico, il ritorno alla Parola di Dio, l'ecumenismo, il dialogo col mondo. Le gerarchie soffrivano la repressione del regime, ma la Chiesa era già sterile dentro, senz'olio. 
Ciò fa capire la vera portata dell'accordo che alfine papa Francesco, dopo un'amorosissima silenziosa tessitura di rapporti con quello Stato e quella Chiesa, dopo aver più volte sorvolato la Cina quasi a volerla abbracciare al principio e alla fine dei suoi viaggi in Oriente, ha concluso con il governo di Pechino per raggiungere un consenso sulla nomina dei vescovi, in comunione col papa e nello stesso tempo con il Paese di cui con i loro fedeli essi sono cittadini. 
Certo che si tratta di uno straordinario evento politico, soprattutto se si confronta con la situazione da cui si era partiti, quando la Cina non esisteva nemmeno per l'ONU, e la comunità internazionale ufficiale, e purtroppo anche la Chiesa di Roma, dicevano Cina e intendevano l'isola di Taiwan, con un bello schiaffo al principio di realtà.
Ma più ancora si tratta di un evento ecclesiale e anzi, oltre le Chiese, di un grande evento religioso a questa svolta della modernità. Tutti lo definiscono "storico", tracciando anche un arco nella storia che va dal gesuita Matteo Ricci, che tentò, con perdite, di seminare il cristianesimo in coltura cinese, al gesuita Bergoglio che sogna il poliedro di una Chiesa di Chiese. Ma di quale storicità si tratta?  Si tratta di una storia in cui si riprenda il grande disegno salvifico di una inculturazione di Dio in tutte le sapienze della terra, un Dio che non fa discriminazione di persone, che si fa sentire in tutte le lingue, che non si riserva nessun popolo per sé, che non odia né disprezza il mondo, un Dio non geloso.
E cosa vorrà dire per la Chiesa cattolica, assediata in Occidente e vilmente oltraggiata dalle sue stesse curie e relativi portavoce analogici e digitali, uscire all'aperto e mettersi in cammino e prestare cura e lavare i piedi a centinaia di milioni di donne e uomini del Futuro Oriente? 
Come diceva Giovanni XXIII - e davvero non si sa dove l'aveva vista in quel mondo sanguigno della strategia del terrore - "è appena l'aurora". Del resto in Cina le bende di morte erano già cominciate a cadere. Molti vescovi già erano stati legittimati da Roma, Benedetto XVI aveva scritto una lettera accorata al popolo cinese non rimasta senza risposta, seminaristi cinesi studiano a Roma e fanno il noviziato a Camaldoli, e lo stesso monachesimo camaldolese si sta preparando per una sua fondazione in Cina, un monastero, un eremo, una missione al popolo, chissà.
Dunque nello sfascio di questo tempo pur grandi cose accadono.
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martedì 18 settembre 2018

IL TEMPO CHE VIENE


Mentre papa Francesco andava a Palermo c’è stato a Fonte Avellana, che è un monastero camaldolese, un incontro  per richiamare la “profezia” di padre Benedetto Calati, un grande monaco del Novecento morto alla fine del 2000, proprio sulla soglia del nuovo millennio.
Profezia è, nel linguaggio cristiano, uno svelamento e un annuncio ispirato delle cose che devono venire, qui nella storia ma anche oltre la storia. In questo senso si dice dello stesso popolo cristiano che è un popolo profetico, nella continuità della profezia di Gesù.
A Fonte Avellana si è convenuto che la profezia di padre Benedetto Calati “parla ancora” e se ne è ricostruita la radicalità, che andava ben oltre un riformismo progressista. Era una profezia che prima di tutto afferma il primato dell’amore sopra ogni altra cosa, anche sopra la legge e le dottrine; vede la Chiesa terrena non come una istituzione che guarda se stessa, ma come una pedagogia, sicché la Chiesa dovrebbe insegnare a far a meno della Chiesa, trasformando le persone stesse in Vangelo vivente;  relativizza i sacramenti come segni e non sostituti delle realtà significate; riconosce che il controllo della fede non si può fare e che si debba lasciar campo allo Spirito che parla alle Chiese, ciò da cui deriva anche l’incongruenza di un organo deputato al vaglio della dottrina della fede; postula il superamento del letteralismo biblico e afferma la sovrana libertà del cristiano. Detto così, sembra una rivoluzione e invece, come diceva padre Benedetto, è storia salvifica in atto.
Ma il problema della profezia non è che continui a parlare chi la propone e non venga meno chi la ascolti, come si è fatto a Fonte Avellana; il problema della profezia è come essa si realizza, come “accade”.  Perché ci sono profeti e profeti, e ci sono anche i profeti di sventura “che annunciano eventi sempre infausti quasi incombesse la fine del mondo”, come denunciò Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II, e come ce ne sono tanti oggi che proliferano nella Chiesa.  La promessa che invece allora ci fu elargita, da papa Giovanni e dal Concilio, fu quella espressa nella profezia positiva, che si andasse verso “un nuovo ordine di rapporti umani che per opera degli uomini, e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori ed inattesi».
Oggi siamo a questo bivio: che o questa profezia si realizza, o tutto, anche la Chiesa, può andare perduto. La crisi infatti ci assale dappertutto.
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lunedì 10 settembre 2018

IMPARIAMO DAL NAUFRAGIO DI GIONA



Relazione tenuta al convegno di “L’altra pagine” dell’8-9 settembre 2018, sul tema. “Approdi e naufragi”

Raniero La Valle
 
 Un discorso sui migranti dovrebbe cominciare con le statistiche. Dovrebbe dire per esempio che nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre nel 2017 le vittime sono state 3081.
Dovrebbe poi dire che dal 1 gennaio al 22 giugno 2018 i migranti sbarcati in Italia sono stati solo 16.316, e che in Italia ci sono solo 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, che è tra le percentuali più basse in Europa.
Un discorso sui migranti dovrebbe dire che nel 2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila. .
Un discorso sui migranti dovrebbe dire che la maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.
Dovrebbe dire che entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.
Però un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza che nessuno potesse dar loro soccorso..
D’altronde ci sono altri numeri non meno agghiaccianti di quelli che riguardano i profughi: per esempio i numeri che denunciano l’orrore di un fenomeno che credevamo scomparso, la schiavitù. Nel mondo ci sono 45 milioni e 800.000 schiavi; 18 milioni 300.000 solo in India, ma alcune stime parlano di 200 milioni di persone che nel mondo sono in condizioni di schiavitù, nonostante la sua abolizione ufficiale. Anche l’Europa non ne è esente, in Italia si calcola che ce ne siano 128.000, per molti si parla di nuove schiavitù, come quella della tratta degli esseri umani, dello sfruttamento sessuale di donne e bambine considerate come oggetto di proprietà, della vendita di organi. E poi ci sono i numeri spaventosi di tutte le guerre, dal mezzo milione di morti della guerra irachena ai 350.000 della guerra siriana, alle innumerevoli vittime della guerra mondiale a pezzi che, come dice il papa, abbraccia di fatto tutto il mondo.
Quindi ci sono statistiche peggiori di quelle che riguardano i migranti.
Però ci sono numeri e numeri. E c’è una ragione per la quale i numeri che riguardano i migranti  sono oggi più importanti di tutti gli altri numeri. Perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e causa un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come si reagì alla scoperta dell’America. È su come rispondere a questa novità dirompente che massimamente sono chiamate in causa la nostra etica, la nostra cultura, la nostra politica, il nostro diritto, cioè la nostra capacità di stare al mondo e di dare un ordine al mondo. 
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