martedì 26 giugno 2018

NON COME NELL'ALTRO GENOCIDIO

Il prezzo è molto alto: l’imbarbarimento del discorso politico in Italia, denunciato da Pax Christi; l’aggiunta di odio e paura alle scelte già gravissime dei precedenti governi, denunciata da mons. Nogaro e Sergio Tanzarella; impotenza, interventi maldestri, discussioni e contenziosi della comunità internazionale, dell’Europa,e dell’Italia denunciati dall’arcivescovo di Milano Delpini col Consiglio pastorale, e soprattutto l’odissea dei profughi parcheggiati e riforniti in mare per giorni e giorni davanti a porti chiusi (quelli di Pozzallo sono alfine sbarcati ieri): a questo prezzo i Paesi d’Europa, almeno quelli fondatori, sono stati messi in crisi, si sono specchiati nel loro egoismo di Paesi pieni di ricchi, e pur sempre litigando tra loro hanno cominciato ad ammettere che delle soluzioni vere vanno cercate, buttando a mare il troppo comodo regolamento di Dublino. Si vedrà nel prossimo vertice; in ogni caso il piano presentato dal presidente italiano Conte, in sei premesse e dieci obiettivi, segna il ritorno della politica, della coraggiosa e paziente ricerca di soluzioni intese al bene comune, e soprattutto pone sul piatto la verità da tutti finora occultata di questa crisi: la questione dei migranti non si può affrontare con misure di emergenza, perché non è un’emergenza, è la nuova condizione del mondo, lo struttura, e perciò va affrontata e avviata a soluzione con misure strutturali e visioni a lungo termine. Discuteremo le proposte, e vedremo se questa carica dirompente piantata dall’Italia in Europa sarà recepita e governata in modo ragionevole e costruttivo, oppure se, compressa, farà saltare il mal architettato edificio istituzionale europeo. La rivoluzione in corso, come l’abbiamo definita, non ha un esito scontato.
C’è però un prezzo che, pur nella ricerca di soluzioni difficili, non può essere pagato, un limite invalicabile che non può essere superato in corso d’opera e nemmeno nel concepire ipotesi di soluzioni future: quello di sigillare i profughi lì dove sono, in terra od in mare, o di riportarli con la forza nei lager, nelle galere e nei luoghi di tortura da cui sono usciti.
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martedì 19 giugno 2018

SI SI, NO NO

Pubblico una lettera scritta per il sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri a seguito di un chiarimento su diverse questioni che erano state sollevate.

Care amiche ed amici,

queste “Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” e il sito che le invia hanno taciuto dall’8 giugno dopo una grave critica avanzata da un giornalista della comunità di san Paolo, secondo cui l’attuale direttore del sito farebbe abuso del “Movimento” esprimendo a suo nome opinioni ecclesiali sociali e, peggio, politiche che sono solo sue. Questa critica è stata poi condivisa anche da una delle persone che fanno parte del gruppo dei promotori e organizzatori dell’iniziativa da cui il sito deriva.
Ciò ha offerto l’occasione per un chiarimento nell’ambito del gruppo promotore che è bene mettere in comune.

1) Chiesa di tutti Chiesa dei poveri non è un movimento, ma è una casa comune nella quale idealmente abitano persone gruppi riviste e interessati alla vita della Chiesa che all’avvicinarsi dei 50 anni dall’inizio del Concilio, nel 2012 vollero levare un grido per rivendicarne l’attualità e impedire che esso fosse seppellito nella Chiesa come c’era stata ragione di temere nel corso degli ultimi pontificati. Alla prima assemblea romana dedicata a questo scopo ne seguirono altre negli anni successivi, ma ormai quel grido era stato levato e fatto risuonare in tutta la Chiesa e anche nel mondo da papa Francesco. Si pensò perciò di continuare con una specie di incontro virtuale permanente che prese le forme comunicative del sito web e relativa newsletter, senza nessun altro cemento o vincolo comune che il patrimonio di idee e di analisi accumulatosi, con l’apporto di molti, nelle assemblea succedutesi a partire dalla prima; assemblee in cui quell’incontro virtuale aveva potuto rendersi visibile così come potrà accadere ancora in futuro.
Dunque non esiste un’entità organizzata “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” di cui si possa pretendere che esista un’opinione autentica o addirittura ufficiale, e nemmeno un’ecclesiologia o una teologia o un’ermeneutica che le sia propria. Esiste invece un consenso, espresso e reiterato, a scegliere di servire il Dio della misericordia, a invocare il patto di non uccidersi e a confidare che nell’attuale durezza del tempo, possa venire un tempo, e sia questo, in cui il Vangelo è annunziato in modo nuovo e possa fiorire la gioia di tutti e specialmente dei poveri.
2) In questa prospettiva che è propria del regime di incarnazione, non è neanche pensabile che si faccia astrazione dai problemi della società e della storia. Non ci sono spazi sacri alla politica con cui non ci si debba contaminare, non ci sono territori off limits in cui i critici del secolo non dovrebbero entrare, non ci sono spazi posseduti dal mondo ma interdetti ai credenti, in cui essi non abbiano voce, o in cui possano parlare solo a patto che svestano i loro panni, si censurino, e facciano finta che la fede non c’è. Un laicismo così volgare non è più invocato nemmeno dai mangiapreti, anche se è del tutto funzionale a conservare il mondo com’è.
Perciò una sollecitazione a un sito che ha un nome cristiano a occuparsi solo di incensi, di dottrine o di dissensi ecclesiali e non di politica, col motivo che a causa della sua natura, ma anche della sua patologia, in essa è molto più difficile trovarsi d’accordo, non è ricevibile. È uscito in questi giorni in Italia un libro di Martìn-Barό, uno dei gesuiti uccisi dagli squadroni della morte nell’Università Centro Americana del Salvador, in cui si fonda un nuovo sapere, la “Psicologia della liberazione”. L’assunto, come per la teologia della liberazione, è che venga superato il dualismo tra la storia della salvezza e la storia del mondo, tra un rassegnato e indegno “qui ed ora” e un felice “dopo”, ideologia preconciliare, questa, che ha causato vere e proprie devastazioni in America Latina e non solo. La storia è solo una, non c’è un ordine sociale stabilito per natura che non debba essere investito dalla parola della liberazione.
Perciò il sito e questa lettera, quando è necessario, parlano anche di politica, che si tratti del 4 dicembre in cui si è salvata la Costituzione, o del 4 marzo in cui i partiti che si credevano titolari e interpreti predestinati dell’ordine naturale delle cose, hanno perso le elezioni e il potere.
3) L’altra questione da chiarire – e qui chi scrive parla in prima persona – è con quale autorità io pubblichi nel sito e scriva la sua newsletter. Trattandosi di una pubblicazione periodica che reagisce anche ai fatti del giorno, la figura a cui sito e lettera devono essere assimilati è quella di un giornale, come anche è suggerito nella dicitura dell’home page. Di tale giornale non sono io – Raniero La Valle – né il proprietario, né l’editore che sarebbe semmai il gruppo dei promotori e organizzatori. Avendone però da questi ricevuto il mandato, ne sono responsabile come direttore. Ciò comporta per me un duplice obbligo: di rendere onore in questa funzione alla professione del giornalista, e di corrispondere con dignità alla responsabilità e al rischio di dirigere un organo di informazione. Credo però che ciò sia possibile solo se lo si fa secondo verità e in piena libertà.
Non sempre è facile e spesso ciò è causa di angustie personali e di strappi dolorosi. Posso ricordare due episodi di quando dirigevo “l’Avvenire d’Italia”. Una volta, a Natale del 1964, l’editore esigeva che in nome dell’unità politica dei cattolici richiesta dalla Chiesa, sostenessimo l’obbligo dei parlamentari democristiani, a pena di essere considerati pubblici peccatori, a eleggere Giovanni Leone presidente della Repubblica, mentre il Parlamento si orientava in tutt’altra direzione. L’editore era il papa, perché “l’Avvenire d’Italia” era il giornale nazionale dei cattolici, e un po’ di soldi, registrati però come capitale, venivano dal Vaticano; il giornale non era in pareggio perché carente della fonte principale di finanziamento che era (e ancora è) la pubblicità, dal momento che i vescovi non volevano nemmeno che si mettessero in pubblicità i film che allora il Centro Cattolico Cinematografico “vietava” ai minori di 16 anni. Ma mentre il papa voleva l’unità degli eletti, il giornale seguiva la linea di rispettare la laicità del Parlamento, nonostante il parere della proprietà, e non la mutò. Fu quella la prima volta, del resto, dodici anni prima della candidatura dei cattolici nelle liste del PCI, che l’unità politica dei cattolici fu rotta in Parlamento (e in quella occasione, per la scelta di principio di Leone contro Fanfani, fu eletto Saragat).
Un’altra volta l’editore (ancora Paolo VI) voleva che il giornale smettesse di condannare i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, per attestarsi invece sulla linea di neutralità della Santa Sede, e il giornale non lo fece. Su ciò saltò poi non solo il giornale ma anche la diocesi di Bologna; tuttavia tutte e due le volte era il giornale che aveva ragione. Ma lì il principio era che ciascuno facesse in coscienza, cioè in verità e libertà, il suo dovere: il direttore facesse il direttore, il papa il papa, il vescovo il vescovo. A ognuno il suo peso, a ognuno dire il suo “SI SI NO NO”. La penso ancora così: ma è l’ordine delle cose.
4) Perciò mi sono accorto di uno sbaglio che ho fatto quando per scrupolo ho firmato con il mio nome alcune di queste newsletter che più direttamente comportavano opinabili valutazioni politiche: il 7 marzo, il 29 maggio, il I, il 5 e l’8 giugno. Alle volte per tutta la vita si combatte contro un determinato errore, e poi si finisce per caderci senza accorgersene.
L’errore è quello dell’artificio inventato da Jacques Maritain che è servito per decenni a legittimare il clericalismo dei partiti cattolici e l’apparente laicità della loro sembianza. L’artificio consisteva nella distinzione schizofrenica tra ciò che i cattolici facevano “in quanto cattolici”, secondo le direttive della Chiesa, e ciò che facevano “in quanto cittadini” nello spazio residuo che gli era lasciato per decidere da loro. Nel nostro caso l’errore sarebbe di distinguere ciò che uno scrive come direttore di un organo di opinione, e ciò che uno scrive come persona; nel primo caso come responsabile, nel secondo caso come utilizzatore dell’organo che dirige. L’errore sta in questo, che in ogni giornale ciò che non è firmato è riferito al direttore, e ciò che è firmato è di chi lo scrive, non al di fuori però della responsabilità di chi dirige. Perciò non c’è bisogno che questa o quella newsletter sia firmata, a meno che non sia scritta da autori diversi dal direttore del sito. Ciò naturalmente non comporta alcuna presunzione che le valutazioni espresse nelle lettere corrispondano a quelle di tutti coloro che si riconoscono nell’ispirazione di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, e ancor meno di tutti gli iscritti consenzienti alla newsletter, molti dei quali, senza scelte di merito, vogliono semplicemente essere informati e seguire questa iniziativa.
5) Né sarebbe accettabile la proposta di sostituire alla gestione responsabile del sito una “gestione democratica”, per la quale in una lista di attesa fossero prenotati “aderenti al movimento” che a turno ogni tre o quattro mesi si alternassero a trattare ogni argomento, che si tratti di intimazioni al papa su come deve fare il papa, o del rimpianto per l’occasione perduta di Renzi. Qui il modello è quello che dilaga nelle tavole rotonde, nei talk-show televisivi, nelle maratone elettorali e nei fili diretti radiofonici, in cui il pensiero unico si riproduce e si impone nelle variegate vesti di Arlecchino.
6) Pertanto avendo il gruppo dei promotori e organizzatori del sito confermato il mandato di dirigerlo al direttore in carica, ciò di cui egli ringrazia, e chiarita la questione della imputabilità a lui di quanto pubblicato senza altra specificazione di fonte, riprendiamo l’invio della newsletter che non sarà firmata, salvo che abbia altri autori, o in casi di eccezione e finché non sia diversamente stabilito. Continua...

martedì 5 giugno 2018

TUTTI STRANIERI NESSUNO STRANIERO


Nella lettura biblica prima della festa del Corpus Domini, sabato scorso, Marta Tedeschini Lalli, una suora camaldolese, ha ricordato che in una liturgia romana della Messa, ora non più in uso, c’erano due “epiclesi”, cioè invocazioni, prima della consacrazione; nella prima si chiedeva, come di consueto, che il pane e il vino si trasformassero nel corpo e nel sangue di Cristo, nella seconda si chiedeva che gli stessi partecipanti al rito si trasformassero nel corpo e nel sangue del Signore: questo infatti è l’eucarestia. Ciò comporta un significativo rovesciamento perché alla luce di questa più acuta percezione della fede, attestata del resto nei primi secoli del cristianesimo dai Padri della Chiesa, il pane e il vino sono quelli che diventano il “corpo mistico” di Cristo, che non si vede, mentre gli uomini, le donne, i poveri, i popoli, la storia, diventano il “corpo reale di Cristo”, che si vede. “Non è un’immagine, ma è realmente carne” ha scritto di recente la Civiltà Cattolica.
Questa, come cristiani,  è la buona ragione  per cui amiamo gli uomini e le donne, “presenza reale” di Dio , per cui pensiamo e facciamo politica, ci struggiamo per la storia, e ora anche per l’ecologia, incuranti del falso dibattito se sia più laico chi nomina o chi non nomina Dio, chi non pretende o chi pretende il crocefisso nelle scuole.
Un altro gesuita, Henri De Lubac, commentando un testo della “Didaché”, ci ha trasmesso la celebre analogia: “Come il pane e il vino sono formati da una miriade di chicchi di grano e di gocce spremute da grappoli d’uva, così questa comunità si forma dall’unificarsi di tutte le persone che partecipano all’eucarestia e diventano membri dell’unico corpo di Cristo”. Le analogie non sono innocue; e questa, portata fino in fondo, dice che questa unità si realizza, secondo il gesto compiuto da Gesù, se il pane viene spezzato, e in quanto spezzato viene poi condiviso e così ristabilisce l’unità.
Così è dell’unità di tutti gli uomini tra loro. Prima essa è spezzata, frantumata, dispersa; poi, in forza della condivisione realizzata tra loro, essi giungeranno all’unità.
Oggi siamo all’umanità spezzata; e mai la sua carne è stata più frantumata e lacerata come da quando celebriamo la libertà della globalizzazione. Si tratta della libertà per cui tutto può andare dappertutto; ma questa libertà di muoversi per tutti i luoghi e in tutte le direzioni, l’abbiamo istituita e riservata solo alle cose: al capitale, alle merci, alle fabbriche depurate dagli operai, alle manifatture, ai servizi, ai call center, ma non l’abbiamo data alle persone. In questa sua attuale forma economica e finanziaria la globalizzazione non può realizzarsi che in forza di un capitalismo integrale, di quel neoliberismo ignaro delle persone e dei corpi che in un altro universo di valori viene chiamato  “globalizzazione dell’indifferenza”.
È questa umanità spezzata che va ora ricomposta. Viene perciò il tempo dell’umanità condivisa. Il compito più grande, il vero cambiamento non solo per l’Italia, ma per l’Europa e per il mondo, è di portare all’unità la carne spezzata delle nostre storie divise, mediante culture e politiche di condivisione, estendendo alle persone la libertà di muoversi e di stabilirsi che abbiamo dato alle cose. Per questo lo slogan “Prima l’America”, o uno che fosse “Prima i bianchi”, ma anche, quello oggi più in auge,  “Prima i cittadini”, sono contro il nuovo traguardo dell’umano. Perché siamo tutti di colore, e siamo tutti stranieri. Infatti se siamo cittadini per noi, siamo stranieri per gli altri, e perciò ognuno è all’altro straniero, e di conseguenza nessuno è straniero. Certo non è per oggi raggiungere questo traguardo, ma a partire dal nuovo globalismo di oggi, questo è il cammino da iniziare, su questo vanno giudicati ogni cambiamento e promessa di cambiamento.
Quanto al governo che si è presentato oggi alle Camere, staremo a vedere, con vigilanza, nello stesso spirito con cui abbiamo seguito la lunga crisi seguita alle elezioni del 4 marzo. Avevamo detto nella nostra newsletter n.72 del 7 marzo (“Una felice discontinuità”) di amare tutte e due le Italie uscite dalle urne, raffigurate nelle cartine mostrate in TV, quasi tutta di un colore l’Italia del Nord, tutta d’un altro colore quella del Sud; ora si è fatta viva una terza Italia, contrapposta alle prime due e ferocemente critica del governo che esse hanno fatto insieme; e noi amiamo anche questa, tutte e tre come un’Italia sola, con un amore fatto di stima e di rispetto.
 Per questo non siamo d’accordo con i toni alti di chi denuncia una “viltà generale” perché si è permesso che andasse al potere “l’estrema destra razzista e golpista”, descritta come pari o peggio del fascismo, “con o senza distintivo”, cosa non vera; né siamo d’accordo col disprezzo con cui è guardata la nuova maggioranza; né ci ha disturbato la spavalderia di cui sono stati accusati i “Cinque stelle”quando sono saliti tutti compatti alla festa del Quirinale come se entrassero in una terra di conquista; può darsi che dessero questa impressione, ma era la prima volta dalla “inequa” unità d’Italia che il Sud giungesse al Quirinale e nei sacrari del potere non nelle umiliate vesti del Gattopardo.
Ci ha interessato di più l’anatema di Berlusconi che ha accusato l’inedita alleanza costituitasi in italia di “pauperismo e giustizialismo”: un’accusa che va decodificata, perché oggi per mettere alla gogna il buono si dice “buonismo”, per neutralizzare il popolo si dice “populismo”, per invalidare la sovranità si dice “sovranismo” e per liquidare la fede si dice “fideismo”. Dunque, così decodificata la condanna di Berlusconi – povertà e giustizia - l’accusa alla nuova maggioranza è quella di accorgersi della povertà. di volervi porre rimedio, e di fare giustizia. In verità lotta alla povertà e giustizia sarebbe un magnifico programma di governo, e Berlusconi stesso lo addita deprecandolo, dopo l’opposto messaggio da lui trasmesso per anni con i  suoi governi e le sue televisioni. Magari fosse così, fosse questa la cifra del governo, non ne siamo affatto sicuri, e non solo per i limiti suoi e dei suoi attori principali, ma perché dovrebbe cambiare profondamente la cultura non di un’Italia, ma di tutte e tre, e ancor più, non solo dell’Italia, ma dell’Europa e dell’Occidente.
Dunque staremo a vedere, con molta vigilanza, sperando sempre che ciò che nasce cresca, che il nuovo non fallisca, che il meglio accada, perché il “tanto peggio tanto meglio” non è solo un ossimoro, è un delitto.  

Raniero La Valle
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sabato 2 giugno 2018

RAVVEDIMENTO OPEROSO




L’avvio del governo derivante dalle elezioni del 4 marzo, ci consente di trarre qualche conclusione sugli insegnamenti di questa lunga crisi. Non intendo dare qui però un giudizio politico, ben sapendo quanto siano fieramente opposte le opinioni in proposito. Ma per quanto possano essere fondate le riserve sul governo Conte-Di Maio-Salvini, non credo che sarebbero stati preferibili il fallimento e il collasso della legislatura, prima ancora del suo inizio. Non lo credo per la ragione per cui abbiamo lottato per tutta la vita, e a volte fatto anche scelte difficili e dolorose, e perfino laceranti nella nostra comunità ecclesiale; e la ragione è che quando la democrazia giunge a un blocco per la quale non può più proseguire, bisogna fare le scelte anche più ardue perché non venga meno il principio potente che è alla base di tutto, che è quello dei numeri, che è il governo dei più, non dei più forti; perché è vero che la democrazia non sta solo nei numeri (perciò ci sono le Costituzioni) ma senza i numeri non c’è affatto democrazia; e la democrazia non sta in natura, è un prodotto della ragione, può finire. E la seconda ragione per cui un fallimento  sarebbe stato distruttivo non solo della democrazia ma della stessa politica, è che non si può dare per acquisito che le forme e le regole del capitalismo - anche costituzionalizzato e tradotto in regime come lo è purtroppo nei Trattati europei - non si possono cambiare e addirittura nemmeno discutere.
L’analisi che di questa drammatica esperienza è ora utile e necessario fare, al di là di quelle di partito, è un’analisi di antropologia politica. Perché quello che colpisce è quanto, contro la stessa lezione di Machiavelli, i diversi soggetti abbiano operato in questa vicenda, quasi spinti da un fato, a favore non di se stessi ma dei propri “nemici” e in modo da far accadere precisamente ciò contro cui più strenuamente combattevano; si potrebbe dire, in termini colti, che si è assistito a una  gigantesca eterogenesi dei fini.  
Per primo è capitato al presidente Mattarella, che giustamente voleva tutelare l’euro, la pace sociale e i risparmi degli italiani. Ma proclamando ufficialmente dalla città sul monte del Quirinale che il diniego a Savona era motivato dal fatto che il suo insediamento all’Economia avrebbe potuto essere visto come tale da “provocare probabilmente o addirittura inevitabilmente la fuoruscita dell’Italia dall’euro”, mentre assicurava che quel governo non ci sarebbe stato, certificava nello stesso tempo che in Italia c’era già in atto, e non solo in ipotesi nel futuro, una maggioranza dell’elettorato e di seggi parlamentari pronti a buttare a mare l’euro e a tornare alla lira. Di qui il panico dei mercati, la febbre delle cancellerie, il salto in alto dello spread, i miliardi bruciati nelle borse di mezzo mondo.
Il secondo a farsi del male è stato Di Maio che precipitandosi nel baratro della richiesta di impeachment dimostrava l’immaturità politica del movimento, distruggeva la credibilità istituzionale acquisita nella sua lunga marcia da forza anti-sistema a ortodosso innovatore del sistema, e lanciava un’inopinata ciambella di salvataggio al suo maggior nemico, il partito democratico, che poteva tornare sulla scena issando lo stendardo del Quirinale e proponendosi come albergo di una santa alleanza a difesa del santo Graal monetario e del reddito di sussistenza degli italiani a rischio di miseria.
Terzo è stato Salvini, che nella sua scaltrezza disinnescava la mina dell’impeachment, ma perdeva il valore aggiunto di chiave di volta di una maggioranza parlamentare e, risucchiato nell’alleanza di destra, rimetteva in corsa il cavaliere che era il suo vero antagonista e che si affrettava a candidarsi lui stesso al governo per salvare la patria.    
Quarto Renzi, che perorava l’immediato abbandono della nave ammutinatasi il 4 marzo e voleva nuove elezioni già  il 29 luglio,  per lucrare il dividendo del disastro e recuperare qualcosa dei consensi perduti, destinati invece in tal modo a perdersi sempre più.
Quinto, Romano Prodi, che a difesa di tutta la politica interna ed estera seguita dall'Italia dal dopoguerra ad oggi (in cui egli stesso ha avuto gran parte dall’IRI all’euro, da Roma a Bruxelles) ha chiesto di fare delle prossime elezioni un referendum sullo stare o fuoruscire dall’euro, ormai identificato con l’Europa, chiamando alla lotta  un ampio  schieramento di forze politiche e sociali. Il paradosso sta nel fatto che il referendum sull’euro, illegittimo per la Costituzione, è stato finora ragione di veemente accusa contro coloro che lo volevano promuovere; e se ora è il ceto istituzionale stesso che lo vuole indire sotto le mentite spoglie delle elezioni politiche, se lo si perde, come Renzi ha perso il suo, non c’è più Mattarella che tenga e l’euro se ne va in frantumi. Prova questa che la politica, quando è schiacciata sul paradigma del denaro, diventa ciò che del denaro è la massima sfida: un gioco d’azzardo.
Sesto, il coro del circuito mediatico e televisivo che a forza di manipolare l’informazione rischia di non poter informare più. Ne è stato esempio la falsa e devastante notizia diffusa dall’Huffington Post sull’uscita dall’euro e dal debito che sarebbe stata contenuta nella prima bozza del famoso “contratto”, quando invece era un “draft” proposto all’inizio da uno dei molti partecipanti alla trattativa; con la conseguenza che qualunque altro negoziato futuro dovrà avvenire in segreto senza informazione alcuna,  secondo l’antica saggezza del Conclave che stacca ogni comunicazione col mondo e si fa vivo solo con segnali di fumo.  
L’unico a uscire indenne da questo generale autolesionismo è stato il povero Conte, dileggiato come il Signor Nessuno, l’Uomo Qualunque o il Cavaliere inesistente, uscito di scena con dignità e poi silenziosamente riapparso “nei pressi di Montecitorio” nel giorno peggiore della crisi, dando occasione alla TV che ne ha colto al volo l’immagine di risuscitare la speranza che quel governo si potesse realizzare. E altrettanto bene Cottarelli, che ha lasciato il Quirinale affermando che la soluzione di un governo politico era di gran lunga migliore di quella “tecnica” da lui stesso tentata, e ponendo fine alla febbre delle elezioni da rifare.
Questo è stato l’angoscioso scenario della crisi, fino a quando un ravvedimento operoso ha mostrato che a decidere può non essere il fato, o un’altra astrazione idolatrica simile a lui, ma può essere la politica, cioè l’intelligenza e il cuore delle persone. Così Mattarella ha fatto finta di non ricordarsi che Di Maio gli voleva scatenare l’impeachment; Di Maio ha avuto l’umiltà di riconoscere il suo errore e di chiederne scusa; Salvini ha mostrato che il governo davvero lo voleva fare e non, come tutti lo accusavano, di voler approfittare a spese del Paese del vento in poppa elettorale; Savona ha accettato di passare come un ministro senza portafoglio da tenere sotto sorveglianza; di Conte e Cottarelli abbiamo detto.
Ora che il governo c’è, ognuno assuma il suo ruolo, di maggioranza o di opposizione, di appoggio o di critica. Per quanto ci riguarda il criterio supremo sul quale giudicarlo  è quello della salvaguardia e dell’onore offerti allo straniero, perché “ricordatevi che anche voi siete stati stranieri in Egitto”. E non sta questo alla base della famosa tradizione giudeocristiana che Salvini ha rivendicato nei comizi giurando sulla Costituzione e sul Vangelo e con il rosario in mano,  con la promessa che “gli ultimi diventeranno i primi”?
   Raniero La Valle

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