mercoledì 30 ottobre 2013

SE QUALCUNO CI LODA O CI INSULTA



[Papa Gregorio Magno] TESTI E MASIME DI GREGORIO MAGNO PAPA

"Quando qualcuno ci loda o ci insulta, dobbiamo confrontarci  sempre con la nostra coscienza (inter verba laudantium sive vituperantium ad mentem semper recurrendum est) in modo da rattristarci molto se in essa non troviamo il bene che ci viene riconosciuto  oppure da rallegrarci altrettanto se non troviamo in essa tracce del male che ci viene attribuito. Infatti a cosa può servire l'elogio degli altri  se la tua coscienza ti accusa (Quid enim, si omnes laudant et conscientia accusat)? E, d'altra parte, perché provare tristezza se la coscienza non accusa di nulla (aut quae debet esse tristitia, si omnes accusent et sola conscientia nos liberos demonstret)? . Paolo apostolo dice che <la nostra gloria è la testimonianza della nostra coscienza> (2Cor 1,12) e  Giobbe aveva detto: < il mio testimone sta in cielo> (Gb 16,20). Dunque se abbiamo in nostro favore il testimone del cielo e quello del cuore, perché preoccuparci tanto degli stolti? Che dicano pure fuori quel che vogliono (Si ergo est nobis testis in caelo, testis in corde, dimitte stultos foris loqui quod volunt)!... . Bisogna tuttavia dialogare con calma con i detrattori, dando loro soddisfazione in tutti i modi... Se però non vogliono e non sentono ragioni, ricordati della parola del Signore: <Lasciateli andare: sono ciechi, guide di altri ciechi> (Mt 15,14). Anche Paolo ammoniva dicendo: <Se è possibile, per quanto sta in voi, cercate di aver pace con tutti> (Rm 12,18)...Disse <se è possibile>, perché se noi, nonostante tutto, custodiamo in cuore l'amore verso chi ci odia, siamo certamente nella pace anche quando l'altro la rifiuta (etsi illi nobiscum pacem non habent, nos tamen cum illis sine dubio habemus)".

(Lettere XI, 1. Città Nuova Editrice, Roma 1999, pp.17-19).


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domenica 13 ottobre 2013

PRO E CONTRO PAPA FRANCESCO - Discorso tenuto a Bozzolo il 9 ottobre 2013 - A 50 anni dal Concilio. Quale Chiesa per il futuro?

di Raniero La Valle

La Chiesa del futuro che contiene in sé la Chiesa del passato è stata anticipata e vista da lontano da grandi cristiani come don Primo Mazzolari, che papa Giovanni chiamava “la tromba della Val Padana”. Questa Chiesa del futuro forse proprio in questi giorni sta prendendo forma, attraverso la novità di papa Francesco.
Molte parole e gesti di questi primi sette mesi di pontificato sembrano prefigurare infatti una Chiesa diversa, una Chiesa del futuro che passa attraverso una riforma del papato.
Il Concilio, di cui ricordiamo i cinquant’anni dall’inizio, aveva posto le basi di una riforma della Chiesa che implicava anche una riforma del papato, nel senso della sinodalità e collegialità. Ma dopo le anticipazioni di Giovanni XXIII e della “Pacem in terris”, che avevano mostrato la riformabilità del magistero pontificio rovesciando le posizioni ottocentesche di contrasto al mondo moderno, alla libertà di coscienza e alle scienze moderne, il papato ha resistito alla propria riforma, né il Concilio ha voluto forzare la mano, non volendo certo essere accusato di conciliarismo. La stessa riforma della Chiesa ha finito poi per ristagnare, mentre la ricezione del Concilio ha vissuto quarant’anni di deserto, nei quali esso ha rischiato di inaridirsi nel gioco delle contraddittorie ermeneutiche, della “continuità” o della “rottura”. Ma ecco che oggi si può dire che il Concilio Vaticano II si è riaperto, e si sono riaffacciate le grandi speranze del Novecento. Ma se al Concilio c’era una Chiesa che voleva riformare il papato, e che senza la volontà dei papi stessi non intendeva né poteva farlo, qui c’è ora il papato che riforma se stesso per riformare la Chiesa e per ridare al mondo il Vangelo.
Abbiamo parlato di “parole e gesti” di papa Francesco perché in lui gesto e parola sono una cosa sola; il Vangelo non è solo annunciato, è reso visibile, lo si fa toccare, come si faceva toccare Gesù, non restando a pregare in solitudine ma uscendo fuori della porta per andare ad abbracciare il corpo del fratello piagato, come Francesco ha fatto nel gesto più eloquente di tutti, la visita a quella tomba a cielo e a mare aperto che è diventata Lampedusa.
Si dice dai critici a proposito di questa capacità del papa di farsi vedere e sentire, che egli abbia una scaltrezza mediatica del tipo del “manager che si concede molto alla stampa” e che sostituisca le encicliche con le interviste mostrando un “postmoderno” di superficie[1]. Si tratta invece dell’ ”economia” della rivelazione: come dice la “Dei Verbum” del Concilio la rivelazione di Dio si manifesta attraverso eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, svelano le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
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lunedì 7 ottobre 2013

DALLA PACEM IN TERRIS A PAPA FRANCESCO


di Raniero La Valle _ Torino 5 ottobre 2013

 Quando comparve la “Pacem in Terris” la reazione generale fu quella di una grande meraviglia. E in verità c’erano molte cose nuove di cui meravigliarsi.
La prima era il fatto, che oggi sembra ovvio ma che allora era spiazzante per i cattolici e soprattutto per i vescovi abituali destinatari delle encicliche, che essa fosse rivolta a tutti gli uomini di buona volontà; ciò voleva dire che non solo si occupava di una cosa, la pace, che interessava tutti, ma che tutti erano chiamati a fare la pace; cioè l’umanità intera era il soggetto che veniva chiamato in causa per realizzarla sulla terra; in altre parole la pace non la fa la Chiesa, la fa il mondo.
L’altra ragione di meraviglia era che la guerra, fino ad allora giudicata dalla Chiesa tanto ragionevole da poter perfino essere considerata giusta, e in certi casi addirittura doverosa (come si pretenderà in seguito che fossero le “guerre umanitarie”), era definita dall’enciclica insensata, fuori della ragione,  e ciò in forza della vox populi prima ancora che per voce del papa.
C’era poi la meraviglia di lotte umane molto controverse, come quelle degli operai, delle donne, dei popoli soggiogati, che venivano innalzate al rango di segni dei tempi, cioè di fatti della storia che avevano a che fare con l’avvicinarsi del regno di Dio; e la stessa cosa avveniva di conquiste umane molto recenti e combattute, come l’ONU, le Costituzioni, lo Stato di diritto, considerati come segni, cioè come anticipazioni, del regno futuro.
C’era poi la meraviglia di un testo religioso che in prima istanza si preoccupava  non della propagazione della fede, ma dell’affermazione della dignità, termine che nell’enciclica ricorre più di trenta volte, più di quanto venga nominata la pace. E si trattava della dignità di ogni uomo, donna, popolo e nazione.
C’era poi la meraviglia di un’enciclica che si occupava della società ma non era un’enciclica sociale, non dava prescrizioni, ma era tutta fondata su un’antropologia positiva, persuasa del fatto che l’uomo, pur avendo peccato, fosse tuttora dotato di una integrità naturale  e che perciò, grazie alla loro stessa natura gli esseri umani, pur non animati dalla fede, fossero capaci di attuare cose buone in se stesse o riconducibili al bene, a cominciare proprio dalla pace.
E c’era poi la meraviglia di un testo del magistero che al primo posto metteva la libertà e affermava il primato della coscienza contro ogni potere, ponendosi così come il primo documento ecclesiale, dopo il Vangelo, che potesse considerarsi all’origine di una teologia della liberazione.

Il rovesciamento della “Mirari vos”

Ho fatto riferimento alla meraviglia provocata dall’enciclica, perché questo ci permette di introdurre un confronto con un’altra enciclica, uscita più di un secolo prima, che aveva anch’essa a che fare con la meraviglia. Anzi essa era casualmente intitolata alla meraviglia.
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IL GRANDE CENTRO


di Raniero La Valle
Almeno in questo la politica si è riscattata: accusata di essere incartocciata in se stessa e ormai priva di sorprese, e addirittura noiosa, il 2 ottobre ci ha fatto vivere una giornata ricca di suspence, di enigmi, di intrighi e di epici scontri con tanto di colpo di scena finale. Un fuoco d’artificio.
Ma questa è la sola soddisfazione che ci ha dato. Perché per il resto non ci è stato mostrato alcuno scenario esaltante né sembra migliorato il rapporto tra la politica e le speranze per il futuro del Paese e per le sue relazioni nel mondo.
È stata una giornata che, forse parlando un po’ sopra le righe, il premier Letta ha definito storica. Ma storica perché? Sarebbe difficile definire storica una giornata solo perché un governo che doveva cadere invece non cade. In genere i governi, soprattutto in Italia, interessano più i tempi fugaci della cronaca che quelli lunghi della storia.
Storica potrebbe essere definita piuttosto perché ha sostanzialmente chiuso un lungo ventennio, sancendo la fine politica di Berlusconi. Questa è arrivata con lo spettacolo del leader carismatico che in lacrime annunciava al Senato la fiducia a un governo che fino a dieci minuti prima aveva cercato strenuamente di far cadere.
Si è trattato di una piccola nemesi, prima di tutto perché l’eterno cavallo di battaglia di Berlusconi era stato che i suoi avversari, non riuscendo a liquidarlo per via politica, avevano cercato di eliminarlo per via giudiziaria: ed ecco che la liquidazione politica era arrivata, ma non per mano dei suoi avversari bensì per mano dei suoi seguaci e compagni di partito, e anche per sua stessa mano, avendo deciso e imposto, con le dimissioni dei suoi parlamentari e dei suoi ministri, una strategia politica fallimentare.
Ed è stata una nemesi perché mentre egli denunciava l’assassinio politico che con la decadenza da senatore si sarebbe perpetrato nei suoi confronti, si è procurato un suicidio politico spaccando il suo partito e mostrandosi al suo esercito di ammiratori non più come il capo indomito che anche da solo tiene il fronte in tutte le battaglie, ma come un re travicello che si fa dettare la linea e che al variare dei calcoli che gli interessano muta d’accento e cambia parole d’ordine e ordini.
Neanche per questo però la giornata parlamentare nella quale si è aperta nell’area moderata la partita della successione a Berlusconi, si può definire storica. Piuttosto l’enfasi di Enrico Letta si può collegare all’idea che, con una destra non più sotto sequestro nelle mani di Berlusconi,  si possa ora produrre una ristrutturazione di tutto il sistema politico italiano.
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