martedì 28 ottobre 2014

Dal Sinodo dei vescovi alla Chiesa sinodale



 di Raniero La Valle

Conclusa la prima fase del Sinodo dei vescovi, la Chiesa è rimasta in stato sinodale, e vi resterà, nella riflessione e nella consultazione, fino alla sessione conclusiva del Sinodo, quella deliberativa, che si celebrerà nell’ottobre dell’anno prossimo.
È da presumere però che anche dopo l’assemblea dell’anno prossimo la Chiesa cattolica resterà in stato sinodale: sia perché le materie affrontate (che, attraverso l’ottica della famiglia, investono in realtà l’intera condizione della vita cristiana) non potranno considerarsi esaurite o regolate una volta per tutte con le prossime deliberazioni, sia perché l’azione di papa Francesco ha già modificato profondamente l’istituzione sinodale, trasformandola da riunione periodica e autoreferenziale di vescovi a una modalità permanente della vita e del governo della Chiesa.
Francesco aveva espresso questa intenzione già prima dell’assemblea di ottobre, quando l’8 aprile del 2014 aveva scritto una lettera, inaspettatamente solenne, al Segretario generale del Sinodo, cardinale Baldisseri, per informarlo di aver deciso di fare vescovo il sotto-segretario del Sinodo, don Fabio Fabene; e la motivazione era di mettere in evidenza lo “scopo precipuo” del Sinodo dei vescovi “che consiste nella comunione affettiva ed effettiva” dei vescovi tra loro e col papa, ai fini di una partecipazione dei vescovi “alla sollecitudine del Vescovo di Roma per la Chiesa Universale”. Per “rispecchiare” questa comunione affettiva ed effettiva era necessario pertanto che quel prelato di curia messo al servizio del Sinodo fosse investito dell’ordine episcopale: dunque non solo un’investitura burocratica, ma una legittimazione sacramentale. E questa era l’occasione per il papa per manifestare le sue intenzioni riguardo al futuro e alla finalità stessa del Sinodo: “La larghezza e la profondità dell’obiettivo dato all’istituzione sinodale derivano dall’ampiezza inesauribile del mistero e dell’orizzonte della Chiesa di Dio, che è comunione e missione. Perciò si possono e si devono cercare forme sempre più profonde e autentiche dell’esercizio della collegialità sinodale”.

Una rifondazione del Sinodo

Nella lettera Francesco ricordava che era stato Paolo VI a istituire il Sinodo nel 1965 “dopo aver scrutato attentamente i segni dei tempi”, e scriveva: “Trascorsi quasi cinquant’anni, avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio Ministero Petrino serve, quanto mai, ravvivare ancora di più lo stretto legame con tutti i Pastori della Chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità conciliare”: Dunque si trattava di una sorta di nuova istituzione del Sinodo, di una rifondazione, dopo cinquant’anni di stallo e ripartendo direttamente dal Concilio. E qui veniva forse pure una risposta a quella domanda cruciale con cui il papa aveva in qualche modo inaugurato il suo pontificato, la domanda con cui si era rivelato al mondo come un papa non convenzionale: “Chi sono io per giudicare?”. E la risposta era che neanche il papa può giudicare da solo: «Non v’è dubbio che il Vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli Vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza. Il successore di Pietro deve sì proclamare a tutti chi è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” ma, in pari tempo, deve prestare attenzione a ciò che lo Spirito Santo suscita sulle labbra di quanti, accogliendo la parola di Gesù che dichiara: “Tu sei Pietro….” partecipano a pieno titolo al Collegio Apostolico».
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domenica 26 ottobre 2014

DAL PROFETA ISAIA: TI HO CHIAMATO PER NOME


Pubblichiamo il commento fatto da Raniero La Valle il 24 ottobre 2014 alla parrocchia della Traspontina in Roma, del passo di Isaia 45, 1-13, nel ciclo delle letture bibliche che si tengono in quella chiesa.

Questo il passo di Isaia:

1Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. 2Io marcerò davanti a te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le spranghe di ferro. 3Ti consegnerò tesori nascosti e ricchezze ben celate, perché tu sappia che io sono il Signore, Dio d’Israele, che ti chiamo per nome. 4Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
5Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, 6perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri. 7Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo. 8Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo».
9Guai a chi contende con chi lo ha plasmato, un vaso fra altri vasi d’argilla. Dirà forse la creta al vasaio: «Che cosa fai?» oppure: «La tua opera non ha manici»? 10Guai a chi dice a un padre: «Che cosa generi?» o a una donna: «Che cosa partorisci?».
11Così dice il Signore, il Santo d’Israele, che lo ha plasmato: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? 12Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo; io con le mani ho dispiegato i cieli e do ordini a tutto il loro esercito. 13Io l’ho suscitato per la giustizia; spianerò tutte le sue vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro e non per regali», dice il Signore degli eserciti (Is. 45, 1-13).

Commento

Prima fase: il testo

Quello che abbiamo ascoltato è un passo del Deutero-Isaia (il Secondo Isaia) che risale al periodo dell’esilio babilonese, e più esattamente alla fine dell’esilio a Babilonia dove i Caldei avevano deportato la maggior parte della classe dirigente d’Israele - il grosso della popolazione era rimasta a Gerusalemme -  e aveva trascinato la stessa monarchia davidica. Questo Secondo Isaia sta tra il primo Isaia, che giunge fino al capitolo 39, e si colloca prima dell’esilio, e gli scritti del terzo Isaia, dal cap. 56 in poi,  che si collocano dopo il ritorno dall’esilio. E questo è già molto bello perché vuol dire che il più grande profeta di Israele non era un singolo, ma era un Sinodo. Ed è solo perché era un Sinodo, era un annodarsi di voci e tradizioni diverse, che ha raggiunto la potenza che lo ha portato fino a noi.
Si tratta di un passo molto bello e molto difficile.
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martedì 21 ottobre 2014

SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE ALLA PRIMA COMMISSIONE


(Raniero La Valle)
 IL SENATO: DA ENTE INUTILE  A ENTE PERICOLOSO?
La decapitazione del Parlamento

Pubblichiamo il testo dell’audizione di Raniero La Valle, presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, presso la I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, il 20 ottobre 2014, in occasione dell’inizio del dibattito della Camera sulle riforme costituzionali

Grazie al presidente Sisto e ai colleghi deputati per questo invito.
Credo che la cosa più utile che io possa fare sia di farvi conoscere le reazioni alla riforma costituzionale che si sono manifestate in quell’ area di opinione del Paese che si riconosce o è in sintonia con le posizioni espresse dai Comitati Dossetti per la Costituzione di cui io sono il presidente eletto.
Dico, per i colleghi più giovani, che Giuseppe Dossetti è stato un grande costituente, uno dei principali ispiratori della Costituzione e di molti suoi articoli. Per lui la Costituzione non era semplicemente una legge per così dire rinforzata, era un patto non solo politico ma morale tra i cittadini e lo Stato, tra il popolo e le istituzioni; la Costituzione era un bene comune ed era così importante per lui che la mise perfino sopra la sua successiva scelta di vita monastica, tanto che quando la Costituzione fu in pericolo scese dal suo eremo per tornare nella città, nella politica, per difenderla; e ai giovani a cui cercava di insegnare la vita cristiana disse un giorno che se avessero fatto cilecca con i dieci comandamenti, sarebbe già stato molto se fossero rimasti fedeli ai valori della Costituzione.
Moltissima gente in Italia la pensa così. Molti si sono accorti che la Costituzione è l’unica cosa che ha tenuto nella tempesta, che li ha salvati quando ci sono stati tentativi di golpe, stragi di Stato, carabinieri e guardie di finanza infedeli, terrorismo, Brigate Rosse, lo schianto del sistema politico e dei partiti. La Costituzione è stata quella che ha tenuto in piedi lo Stato, ha mantenuto l’unità del Paese, ha sconfitto la violenza, non solo per l’efficacia delle sue norme, ma per il suo straordinario prestigio, per la persuasività della sua visione dei diritti e dei doveri, per il consenso di massa di cui ha goduto e per l’onore con cui si è stati convinti che dovesse essere trattata. Questo patrimonio può rapidamente andare perduto. Perciò il problema non è stato mai se essa potesse essere modificata o no, perché è chiaro che poteva esserlo, il problema era del modo di farlo, era l’attenzione, la delicatezza, la cura con cui la Costituzione dovesse essere maneggiata anche nei processi delle sue eventuali modifiche. Quello che ora è successo è che questa complicità virtuosa con la Costituzione si è rotta, che questo riguardo è venuto meno.
Perciò la critica che è stata sollevata contro questa riforma prima ancora che sul merito è stata sul metodo. E’ sembrato che la riforma, subito volgarizzata come diretta all’abolizione del Senato, venisse intrapresa non per una vera necessità, ma per fini ad essa estranei, che venisse usata come strumento per qualche altra cosa, come mezzo di una lotta per il potere, come una grammatica per un’altra scrittura. È sembrato quindi che essa fosse maltrattata e che dopo, quale che fosse stato il punto d’arrivo, essa non sarebbe stata più autorevole, non sarebbe stata più credibile. Ha scandalizzato la fretta, e ha scandalizzato il piglio autoritario con cui si è preteso di raggiungere il risultato voluto. Se si deve togliere il Senato entro l’8 agosto bisognerebbe poter dimostrare che questo serve al vero bene della Repubblica, non per fare un inchino al presidente del Consiglio, perché se no c’è il rischio di finire come la Costa Concordia.
Se  questo è il disagio che si è potuto avvertire sul piano generale, vi sono poi dei punti specifici di preoccupazione che vorrei brevemente illustrare.

1) Il primo riguarda la consapevolezza, da tutti condivisa, che lo Stato si trova nel vortice di grandi mutamenti. Cambia la sovranità, la moneta, lo statuto del lavoro, l’industria, il clima, la guerra. Nessuno sa dove si andrà a finire. L’assetto costituzionale che ha retto finora può rappresentare l’unico punto di stabilità, di rassicurazione, può rappresentare, per un Paese stressato, l’unica incognita che non si apre. Cominciare la riforma dalla decapitazione del sovrano, dimezzando il Parlamento, è imprudente, semmai è una cosa da fare alla fine, non all’inizio del processo riformatore.
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giovedì 16 ottobre 2014

Il Sinodo esploso nella libertà



di Raniero La Valle

Dalle dottrine alle persone, dal giudizio alla misericordia – Spodestare la morte

Il Sinodo dei Vescovi è esploso nella libertà. Come aveva fatto Giovanni XXIII che aveva liberato il Concilio permettendogli di eleggere i membri delle commissioni conciliari e sparecchiandogli il tavolo invaso dai testi già preparati, così ha fatto Francesco col Sinodo straordinario sulla famiglia. Come aveva detto al quotidiano argentino La Nación: “io sono stato relatore del Sinodo del 2001 e c’era un cardinale che ci diceva ciò che si doveva dibattere e ciò che non si doveva. Questo non succederà adesso. Ho perfino dato ai vescovi la facoltà, che spetterebbe a me, di scegliere i presidenti delle commissioni. Saranno loro a scegliere i segretari e i relatori. Questa è la pratica sinodale che a me piace. Che tutti possano esprimere le proprie idee in tutta libertà. La libertà è sempre molto importante. Altra cosa è il governo della Chiesa, che è nelle mie mani, dopo le consultazioni del caso”.
Così per quanto riguarda il metodo. Ma per quanto riguarda il merito la liberazione è stata ben più sostanziale, ed è stata formulata nell’omelia pronunciata da papa Francesco il 13 ottobre a Santa Marta, la mattina in cui doveva essere presentata la “relatio post disceptationem” cioè la prima relazione riassuntiva del dibattito fatta dal cardinale ungherese Peter Erdö. Parlando dei dottori della legge che contestavano Gesù, il papa ha detto: “non sono capaci di vedere i segni dei tempi. Perché questi dottori della legge non capivano? Prima di tutto perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema, avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Per loro erano cose strane quelle che faceva Gesù: andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani. A loro non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, quella dottrina della legge, che loro, i teologi, avevano fatto nei secoli. Avevano dimenticato che Dio non è il Dio della legge, ma è il Dio delle sorprese”. E nella messa di apertura del Sinodo, commentando la parabola della vigna, aveva ammonito i vescovi a non frustrare “il sogno di Dio”, facendo come i cattivi pastori che caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito. 
Dunque se c’era una cosa che doveva fare il Sinodo, non era certo di costruire nuovi piedistalli alla legge, ma di fare spazio all’inventiva e al sogno di Dio.
La svolta del Sinodo

Il Sinodo nel suo insieme si è fatto coinvolgere da questo clima creato dal papa e, benché non si possa sapere come finirà l’anno prossimo, certamente ha già segnato una svolta, e ha superato due soglie.
La prima è stata nel mutamento della percezione di che cosa sia il “deposito” che la Chiesa deve custodire e promuovere. Se prima il deposito era inteso come un insieme di dottrine, derivate da Dio, ora il deposito è inteso come le persone amate da Dio, e perciò non solo le persone della Chiesa, anche quelle del “mondo”. Sono loro di cui la Chiesa deve avere cura, che deve custodire, coltivare, far crescere.
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mercoledì 1 ottobre 2014

QUALE GUERRA ALLO STATO ISLAMICO?


di Raniero La Valle

Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS, o come si dice lì, DAISH), è una novità di prima grandezza nel tormentato corso della storia che stiamo vivendo. Non è solo una delle tante irruzioni dell’estremismo islamico che ci hanno turbato in questi anni, non è un’organizzazione terroristica clandestina come quelle contro cui siamo in guerra ormai a partire dall’attentato alle Torri Gemelle. È tutto questo, ma la novità è che si è costituito in Stato, sotto il comando di un Califfo, ha un territorio, un popolo, un esercito. E in più, almeno a parole, coltiva un sogno di conquista che vede il Califfato estendersi fino a Roma, in Spagna, in Portogallo… Però, a differenza delle antiche conquiste islamiche, questa volta non si tratterebbe di far marciare gli eserciti fino a Vienna o all’Atlantico, ma di far nascere lo Stato islamico, uno Stato pseudoreligioso mondiale, dall’interno dei singoli Paesi, per proselitismo, per teste di ponte, per contagio di masse disorientate e disponibili a farsi ingaggiare sia in terre a popolazione islamica sia in terre di “infedeli”.

Il Califfato dell’Impero ottomano

Trattandosi di un sogno impossibile nessuno in Occidente lo prende sul serio, nessuno lo analizza, lo esamina, non se ne parla nemmeno. La stessa proclamazione del Califfato è stata considerata poco più che un folklore, ignorando che nella storia dell’Islam e del mondo il Califfato è stata una cosa molto seria: l’ultimo Califfato è stato un Impero esteso su tre continenti, Asia, Africa ed Europa, le cui province europee si chiamavano Rumelia, da Roma; era l’Impero ottomano che aveva per capitale Costantinopoli, che però veniva chiamata coi nomi dei quartieri in cui la città era divisa, Stambul, Pera, Galata ed Eyub, per non dire Costantinopoli, che era un nome “cristiano”; il sovrano di questo Impero era un Sultano, detto anche Kan o Padisha, che a norma della Costituzione riuniva nelle sue mani il potere politico sull’Impero e il Califfato supremo dell’Islam; come Califfo Supremo egli era il protettore della religione musulmana e il suo nome era invocato anche nelle moschee dei territori non soggetti al dominio turco nella preghiera del venerdì; e c’è voluta la rivoluzione dei Giovani Turchi nel 1908, l’esilio a Salonicco del Sultano Abdul Hamid colpevole di truci delitti, la sconfitta nella prima guerra mondiale e il sorgere della Turchia laica di Ataturk perché finalmente nel 1924, deposto l’ultimo Sultano, il Califfato fosse dichiarato estinto. Dunque il Califfato evoca grandi memorie che riproposte col traino di un successo politico e unite al mito della violenza e del potere, possono suscitare un grande ascendente sulle masse frustrate di un mondo arabo umiliato dall’Occidente e passato fin qui di sconfitta in sconfitta.
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