domenica 26 ottobre 2014

DAL PROFETA ISAIA: TI HO CHIAMATO PER NOME


Pubblichiamo il commento fatto da Raniero La Valle il 24 ottobre 2014 alla parrocchia della Traspontina in Roma, del passo di Isaia 45, 1-13, nel ciclo delle letture bibliche che si tengono in quella chiesa.

Questo il passo di Isaia:

1Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. 2Io marcerò davanti a te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le spranghe di ferro. 3Ti consegnerò tesori nascosti e ricchezze ben celate, perché tu sappia che io sono il Signore, Dio d’Israele, che ti chiamo per nome. 4Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
5Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, 6perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri. 7Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo. 8Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo».
9Guai a chi contende con chi lo ha plasmato, un vaso fra altri vasi d’argilla. Dirà forse la creta al vasaio: «Che cosa fai?» oppure: «La tua opera non ha manici»? 10Guai a chi dice a un padre: «Che cosa generi?» o a una donna: «Che cosa partorisci?».
11Così dice il Signore, il Santo d’Israele, che lo ha plasmato: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? 12Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo; io con le mani ho dispiegato i cieli e do ordini a tutto il loro esercito. 13Io l’ho suscitato per la giustizia; spianerò tutte le sue vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro e non per regali», dice il Signore degli eserciti (Is. 45, 1-13).

Commento

Prima fase: il testo

Quello che abbiamo ascoltato è un passo del Deutero-Isaia (il Secondo Isaia) che risale al periodo dell’esilio babilonese, e più esattamente alla fine dell’esilio a Babilonia dove i Caldei avevano deportato la maggior parte della classe dirigente d’Israele - il grosso della popolazione era rimasta a Gerusalemme -  e aveva trascinato la stessa monarchia davidica. Questo Secondo Isaia sta tra il primo Isaia, che giunge fino al capitolo 39, e si colloca prima dell’esilio, e gli scritti del terzo Isaia, dal cap. 56 in poi,  che si collocano dopo il ritorno dall’esilio. E questo è già molto bello perché vuol dire che il più grande profeta di Israele non era un singolo, ma era un Sinodo. Ed è solo perché era un Sinodo, era un annodarsi di voci e tradizioni diverse, che ha raggiunto la potenza che lo ha portato fino a noi.
Si tratta di un passo molto bello e molto difficile.

E’ molto bello perché c’è un’autorivelazione di Dio come unico Dio – “io sono il Signore e non c’è alcun altro” –; c’è un manifestarsi di Dio come dispensatore della luce e delle tenebre, come colui che ha creato la terra ed ha dispiegato i cieli, come colui che spiana le asperità del terreno e apre le porte, il Dio che ama il suo popolo e gratuitamente – “non per denaro e non per regali” - gli fa piovere la giustizia, gli procura la salvezza, lo riporta a casa.
E nel testo c’è anche incastonata una gemma, là dove Dio dice del suo eletto, che in questo caso è Ciro, il persiano, di averlo chiamato per nome. “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”. Averlo chiamato per nome non vuol dire qui rivendicare un potere su di lui – dare il nome alle cose comporta nella Bibbia avere un dominio su di esse -  ma vuol dire aver stabilito un’intimità, e questa intimità è tanto più significativa perché si tratta di un pagano, di uno che Dio non lo conosce nemmeno. Certo Ciro non è un cristiano, perché Cristo non era ancora venuto, però come dice il Concilio “indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, quindi gli uomini potevano essere salvi ed erano amati da Dio già allora; né Ciro appartiene al popolo eletto, né è un membro della classe sacerdotale. Ma Dio non fa distinzione di persone, e qui è già posto il tema di un Dio che rompe ogni confine di appartenenza, di etnia e di religione, non accetta alcuna rivendicazione di identità, supera ogni frontiera, ogni conventicola, ogni chiesuola.  
Ma questo è anche un passo molto difficile, perché si presta, ed anzi fa appello, a due letture, ed è quindi soggetto alla logica dei due contrari, che è la caratteristica del mistero cristiano (che è il mistero del già e del non ancora, della divinità e dell’umanità indivise, del servo che è il signore, e così via di tutti i paradossi dialettici della fede). 
La prima di queste due possibili letture identifica questo testo come un testo messianico, così come del resto è messianico l’intero ciclo di Isaia, che parla di un messia, di un unto (Cristo vuol dire unto), di un germoglio, di un servo che era atteso nel futuro per apportare la salvezza ad Israele e anche a tutte le genti.
La seconda lettura riconosce in questo testo il riferimento a un evento storico concreto, e di decisiva importanza per il popolo d’Israele e poi per la storia del mondo: si tratta del ritorno degli esiliati da Babilonia a Gerusalemme e della ricostruzione del tempio di Gerusalemme, che diverrà quindi il secondo tempio, quello che arriverà fino a Gesù; si tratta di un evento che come dicono gli storici e gli esegeti segnerà il passaggio dall’ebraismo al giudaismo, dalla teologia del patto incardinato nella monarchia davidica, alla teologia della promessa fatta propria dalla classe sacerdotale e trasferita dal re a tutto il popolo.
Ora questo evento storico - ritorno a Gerusalemme e ricostruzione del tempio - è voluto da Dio, ma ha uno strumento determinato che è Ciro, il giovane sovrano di Persia, che dopo aver conquistato senza troppa fatica Babilonia nel 539 a. C., pare facendo deviare il corso dell’Eufrate che faceva da cinta di difesa della città, rimandò liberi gli ebrei che erano stati deportati dai babilonesi e fece loro restituire gli arredi del tempio, perché andassero a ricostruirlo. .
Dunque ci sono queste due letture concomitanti, queste due narrazioni. E qui c’è un problema per noi che dopo duemilacinquecento anni leggiamo questa parola, non per accrescere la nostra conoscenza storica, ma per far crescere la nostra esperienza di Dio. Tutto il problema per noi è di vedere chi è questo Ciro, chi è questo eletto che Dio ha chiamato per nome.

Seconda fase: come cresce questa Parola con noi che la leggiamo

Chi è questo Ciro? Se per noi Ciro fosse semplicemente il re di Persia e questa pagina della Bibbia non parlasse che di lui, questa sarebbe una pagina dell’epopea nazionale di Israele, ma non una parola che viene da Dio a parlare oggi della nostra salvezza. Anzi, se la leggessimo così, all’interno di una ricostruzione mitica della storia ebraica, senza un discernimento che ci facesse andare oltre la lettera della Scrittura sacra, ci troveremmo di fronte a una proposta teologica e religiosa che non potremmo accogliere senza qualche preoccupazione. Ne risulterebbe un Dio che addossa su di sé tutto l’onere delle azioni necessarie alla salvezza del suo popolo, un Dio che riduce l’operatore umano a un puro strumento nelle sue mani, un Dio che fa tutto lui e che perciò permette all’uomo di giustificare ogni sua azione come se fosse fatta da Dio. Sono letture di questo tipo, come quelle ad esempio che interpretano in modo fondamentalista il dono della terra fatto da Dio ad Israele, o come quelle radicali e impietose che si fanno anche oggi in certe frange dell’Islam, che portano a un uso distorto e partigiano della Bibbia; sono letture di questo tipo che ad esempio rendono anche oggi non negoziabile la sovranità statale israeliana su tutta intera la Palestina e impediscono, ancora dopo 65 anni, la soluzione della questione palestinese.
D’altra parte le modalità attraverso cui Dio provvede a realizzare i suoi disegni e a mantenere il suo patto, risentendo della cultura degli autori umani del tempo, fossero pure eccelsi come gli autori dei libri di Isaia, sono intese come modalità violente, che sono descritte con parole forti, antropomorfe,  come “abbattere le nazioni (Is. 45,1)”, marciare in battaglia, spezzare le porte (Is. 45,2). Anzi proprio in questo il Secondo Isaia vede la differenza tra Dio e gli idoli. Infatti Dio è colui che dà la vittoria, che consegna i popoli al suo eletto e gli assoggetta i re, fa sì che la sua spada li riduca in polvere (Is. 41, 2); è lui che riduce a nulla i potenti e annienta i signori della terra (Is. 40, 23); è lui che chiama Ciro dal settentrione e fa sì che egli calpesti i governatori come creta, come un vasaio schiaccia l’argilla (Is. 41, 25); al contrario gli idoli sono inerti, una volta fabbricati con l’oro, l’argento o un legno che non marcisce (Is. 40, 19-20) non si muovono, restano fissati coi chiodi (41, 7); così, fermo al suo posto, l’idolo non risponde, non libera nessuno dalla sua afflizione (Is. 46, 7).
Ora la questione è come mettere insieme questo Dio che abbatte le nazioni, che si vendica dei suoi nemici, che minaccia su Gerusalemme “il soffio dello sterminio” (Is. 4,4) col Dio non violento che noi conosciamo dalla “esegesi” di Gesù; e la domanda è chi è veramente questo Ciro che ci viene proposto come ideale dal momento che è stato chiamato per nome.
Questo è un problema che si pone per tutta la lettura cristiana della Bibbia ebraica, ed è il problema che i Padri della Chiesa hanno risolto facendo una lettura tipologica o mistica dell’Antico Testamento, cioè leggendo l’Antico Testamento come “tipo”, anticipazione, preannuncio di quanto avverrà nel Nuovo, e interpretando tutta la Scrittura ebraica come se, in filigrana, parlasse di Gesù. Facciamo solo un esempio, traendolo dal “Commento morale al libro di Giobbe”, del grande papa del VI secolo San Gregorio Magno. Scrive Gregorio: “Rispettando la verità storica, mi sono proposto di esaminare in senso mistico le parole del beato Giobbe e dei suoi amici. Per quanti sono ben informati, è chiaro che la Sacra Scrittura si preoccupa in tutti i suoi riferimenti di promettere il Redentore del mondo e si è applicata a indicarlo profeticamente attraverso tutti i suoi eletti. Perciò lo stesso beato Giobbe è chiamato in latino dolens (dolente) per raffigurare e col nome e con le ferite la passione del nostro Redentore”. Dunque c’è scritto Giobbe, e Gregorio legge Gesù. Questo non fa molto piacere agli Ebrei che non amano che all’antica Scrittura siano dati altri significati, ma per la prima Chiesa questo è stato il modo in cui si poteva comprendere quel fatto fondamentale che era l’unità dei due Testamenti e l’inclusione del Primo Testamento nel Canone cristiano.  Infatti attraverso la lettura tipologica si coglieva il secondo significato del testo biblico, il significato nascosto, ulteriore rispetto a quello che risultava dalla lettera. Questo secondo significato coincideva con una lettura spirituale, una lettura “mistica”, cioè una lettura compiuta nello Spirito, capace di svelare nella Scrittura la presenza di Gesù e del suo mistero.
Questo ha permesso ai cristiani una lettura dinamica e non fissista della Scrittura, ciò che ha fatto dire a San Gregorio Magno che la Scrittura cresce con chi la legge; cioè si muove anch’essa, non sta immobile, fissata a un chiodo, come un idolo. Non cresce solo chi legge, ma anche ciò che sta scritto, cresce nei suoi significati molteplici la Parola di Dio, in se stessa, nell’anima di ciascun credente e nella Chiesa.  
Questo è un principio ermeneutico fondamentale che dovrebbe ad esempio permettere di sciogliere la contraddizione emersa dal Sinodo, secondo la quale ci sarebbe un precetto biblico immutabile e una disciplina che invece in forza della misericordia può cambiare. Al contrario la misericordia, che poi è Dio stesso, è il criterio ermeneutico sia della disciplina che del testo biblico, per cui essi si conservano insieme e crescono insieme.
È in base a questo criterio che il papa può dire oggi con forza che “uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio”, come ha detto ai capi religiosi in Albania, ed è in base a questo che la Chiesa cattolica ha potuto prendere un definitivo congedo dal Dio violento; un recente documento della Commissione Teologica Internazionale, che è fatta di teologi del papa, sia di  Ratzinger che di Bergoglio, spiega che proprio “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito” ha permesso di “purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto e dell’assoggettamento” e di comprendere come il Dio violento, foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento di Dio, di “un fraintendimento dell’alleanza con Dio”, e che anzi l’eccitazione alla violenza in nome di Dio “è la massima corruzione della religione”. Quindi anche Dio, anche leggendo la Scrittura, può essere frainteso!
Ed è grazie a questa nuova comprensione della Scrittura al netto delle sue contaminazioni con la violenza, che oggi possiamo meglio chiederci chi è questo Ciro, chi è questo eletto che Dio ha chiamato per nome e che porta liberazione e salvezza.
In prima lettura certamente è l’Imperatore di Persia, il conquistatore dei conquistatori degli Ebrei, il persiano che prende il posto dei Caldei, perché quella con Dio è una storia, e la storia non si può saltare, non si può togliere la storia dalla Bibbia, sarebbe come togliergli Dio stesso. E allargando lo sguardo il profeta dietro l’Imperatore vede il popolo d’Israele stesso, a cui è intestata questa liberazione.
Nel secondo significato, quello nascosto, l’eletto certamente è Gesù, come ci hanno fatto comprendere i Padri. E anzi non è nemmeno tanto nascosto: proprio in questo passo del secondo Isaia c’è un fortissimo preannuncio di Gesù che la Chiesa addirittura ha reso esplicito nella liturgia del Natale: “Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia, si apra la terra e germini il Salvatore”(Vulgata).
Ma poi c’è un terzo significato, ed è questo testo stesso che ci mette sulla pista per riconoscerlo, ed è ai versetti 12-13, conclusivi di questo brano, dove si dice:« “Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo. Io con le mani ho dispiegato i cieli… Io l’ho suscitato per la giustizia, spianerò tutte le sue vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro e non per regali”, dice il Signore delle schiere»
Dunque, se la Scrittura cresce con noi che la leggiamo, essa ci dice che secondo questo terzo ed ultimo significato il chiamato è l’uomo, prima di ogni altra specificazione. L’eletto, il soggetto della liberazione, quello che deve ricostruire le città distrutte, liberare i prigionieri e i sequestrati, far tornare nella gioia quelli che sono stati deportati e sono fuggiti nel pianto, è l’uomo stesso, sono l’uomo e la donna che Dio ha plasmato come vasi di creta. È l’uomo, è l’umanità tutta intera che deve farsi soggetto della propria liberazione, siamo noi che Dio chiama per nome, perché prima di tutto amiamo lui, e insieme amiamo i fratelli, non solo un popolo ma tutti i popoli, e perché raccogliamo il suo mandato per amore, non per denaro, facciamo opera di giustizia e di salvaguardia del creato e, con il suo aiuto, liberiamo la terra.
È questo che stasera ci dice il collettivo dei profeti che chiamiamo Isaia, nome la cui radice è quella stessa del nome Gesù.

Terza fase: come vivere oggi la Parola

In che modo oggi ci interpella questa Parola che abbiamo ascoltato? Questo non lo possiamo dire noi, lo si deve chiedere a Dio stesso, ciascuno nel profondo di se stesso.
Però qualcosa si può dire. Se Dio ci chiama per nome, anche noi lo dobbiamo chiamare per nome. Il nome non è come il simbolo, come il segnale che indica la realtà senza esserlo. Il nome non è la targhetta che sta sulla porta della casa di Dio. Il nome è Dio. Questo significa che il rapporto con lui deve essere personale, di un Tu con un Tu. Altrimenti la preghiera, che già è così difficile, non avrebbe senso e forse non sarebbe possibile. Non si può pregare una “energia arcana”, una “forza vitale”, una “potenza creatrice”, una “realtà sacra”, come talvolta si dice per non dire Dio; bisogna pregare Dio chiamandolo per nome; non si può pregare Dio nella religione, si può pregare solo nella fede. Possiamo far finta di pregare, ma non pregare davvero.
Poi bisogna farsi chiamare per nome. Quello che Dio chiedeva a Ciro, quello che chiede all’umanità come tale, lo chiede a ciascuno di noi. Ciascuno di noi deve ricostruire le città devastate, e noi sappiamo quanto oggi siano anche spiritualmente devastate, ciascuno di noi deve instaurare il diritto, sciogliere le cinture dai fianchi dei re, cioè deporre i potenti e i prepotenti dai troni, instaurare la democrazia, richiamare i ricacciati e gli esclusi, aprire le porte ai profughi. Ieri papa Francesco ha fatto uno straordinario discorso sul diritto, contro la pena di morte, la tortura, per la liberazione dei prigionieri ingiustamente detenuti o disumanamente trattati. Chi lo deve fare? Lo dobbiamo fare noi.
Ma come possiamo farcela? Noi non abbiamo né il potere né le armi di Ciro. Però abbiamo due cose che Ciro non aveva. Abbiamo il Vangelo, che ci permette di pensare la liberazione e la salvezza non racchiuse nei limiti del destino temporale e storico, come se Cristo non fosse risorto, ma proiettate nel futuro che non conosce tramonto; ed è per questo rapporto tra le due liberazioni e le due salvezze, quella storica e quella eterna, che il Vangelo è fonte di gioia.
E poi abbiamo il diritto, che è la grande risorsa che gli uomini hanno messo in campo per l’instaurazione della giustizia e della pace sulla terra. E’ nel diritto che si può fermare l’aggressore senza distruggere le nazioni, si può realizzare l’eguaglianza senza uccidere la libertà, si può fare giustizia senza cadere nella violenza.
La Parola che oggi abbiamo ascoltato ci dice che tutto questo è possibile; anzi, se la vogliamo leggere in modalità messianica, che tutto questo avverrà. E sarà il Signore a operare tutto questo attraverso di noi, chiamandoci per nome, uno per uno.
 Raniero La Valle

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