di Raniero La Valle
Dalle dottrine alle persone, dal giudizio alla misericordia –
Spodestare la morte
Il Sinodo dei Vescovi è esploso
nella libertà. Come aveva fatto Giovanni XXIII che aveva liberato il Concilio
permettendogli di eleggere i membri delle commissioni conciliari e
sparecchiandogli il tavolo invaso dai testi già preparati, così ha fatto
Francesco col Sinodo straordinario sulla famiglia. Come aveva detto al
quotidiano argentino La Nación: “io
sono stato relatore del Sinodo del 2001 e c’era un cardinale che ci diceva ciò
che si doveva dibattere e ciò che non si doveva. Questo non succederà adesso.
Ho perfino dato ai vescovi la facoltà, che spetterebbe a me, di scegliere i
presidenti delle commissioni. Saranno loro a scegliere i segretari e i
relatori. Questa è la pratica sinodale che a me piace. Che tutti possano
esprimere le proprie idee in tutta libertà. La libertà è sempre molto
importante. Altra cosa è il governo della Chiesa, che è nelle mie mani, dopo le
consultazioni del caso”.
Così per quanto riguarda il
metodo. Ma per quanto riguarda il merito la liberazione è stata ben più
sostanziale, ed è stata formulata nell’omelia pronunciata da papa Francesco il
13 ottobre a Santa Marta, la mattina in cui doveva essere presentata la “relatio post disceptationem” cioè la prima
relazione riassuntiva del dibattito fatta dal cardinale ungherese Peter Erdö. Parlando
dei dottori della legge che contestavano Gesù, il papa ha detto: “non sono
capaci di vedere i segni dei tempi. Perché questi dottori della legge non
capivano? Prima di tutto perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema,
avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Per loro erano cose strane
quelle che faceva Gesù: andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani. A loro
non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, quella dottrina della
legge, che loro, i teologi, avevano fatto nei secoli. Avevano dimenticato che
Dio non è il Dio della legge, ma è il Dio delle sorprese”. E nella messa di
apertura del Sinodo, commentando la parabola della vigna, aveva ammonito i
vescovi a non frustrare “il sogno di Dio”, facendo come i cattivi pastori che
caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono
neppure con un dito.
Dunque se c’era una cosa che
doveva fare il Sinodo, non era certo di costruire nuovi piedistalli alla legge,
ma di fare spazio all’inventiva e al sogno di Dio.
La svolta del Sinodo
Il Sinodo nel suo insieme si è
fatto coinvolgere da questo clima creato dal papa e, benché non si possa sapere
come finirà l’anno prossimo, certamente ha già segnato una svolta, e ha
superato due soglie.
La prima è stata nel mutamento
della percezione di che cosa sia il “deposito” che la Chiesa deve custodire e
promuovere. Se prima il deposito era inteso come un insieme di dottrine,
derivate da Dio, ora il deposito è inteso come le persone amate da Dio, e
perciò non solo le persone della Chiesa, anche quelle del “mondo”. Sono loro di
cui la Chiesa deve avere cura, che deve custodire, coltivare, far crescere.
La seconda è stata il seguito
della prima: di nessuno si è parlato come di persone prive di valore o escluse
dalla comunione o giacenti in uno stato,
cioè in una condizione di vita di peccato, di disordine “oggettivo” (come si
diceva degli omosessuali, dei divorziati risposati), ma di tutti si è parlato
con comprensione e amore.
Si è detto ad esempio delle
coppie di fatto, nella seconda congregazione generale, che anche situazioni
imperfette devono essere considerate con rispetto: ad esempio, unioni di fatto
in cui si conviva con fedeltà ed amore, presentano elementi di santificazione e
di verità. E aggiunge la relazione presentata dal cardinale Erdö che spesso le
convivenze o le unioni di fatto non sono dettate da un “rigetto dei valori
cristiani” ma da esigenze pratiche, come l’attesa di un lavoro fisso. E dice
dei matrimoni civili la stessa relazione, che ve ne sono “connotati da
stabilità, affetto profondo, responsabilità nei confronti dei figli, e che
possono portare al vincolo sacramentale”.
Sui divorziati risposati si è
detto, nella terza congregazione generale, che la Chiesa deve presentare loro
non un giudizio, ma una verità, perché la gente segue la verità e segue la
Chiesa se essa dice la verità; che, quanto all’eucarestia, essa non è il sacramento
dei perfetti, ma di coloro che sono in cammino; e dice la relazione “post disceptationem” che riguardo “a
separati, divorziati e divorziati risposati non è saggio pensare a soluzioni
uniche o ispirate alla logica del tutto o niente”; anzi bisogna avere “rispetto
e amore” per ogni famiglia ferita pensando a chi ha subito ingiustamente
l’abbandono del coniuge, evitando atteggiamenti discriminatori e tutelando i
bambini. Restano le tre possibilità: mantenere la disciplina attuale, attuare
una maggiore apertura per casi particolari insolubili senza nuove ingiustizie o
sofferenze, oppure optare per la via “penitenziale” (con successiva ammissione
all’eucarestia). In ogni caso aggiunge la relazione che “riguardo alle
convivenze, ai matrimoni civili e ai divorziati risposati compete alla Chiesa
di riconoscere quei segni del Verbo sparsi oltre i suoi confini visibili e
sacramentali”: quei semi del Verbo che anche fuori della Chiesa aveva già
riconosciuto il Concilio.
Riguardo alle persone omosessuali
viene sottolineato nella relazione a metà Sinodo del cardinale Erdö che esse
hanno “doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”, per cui la Chiesa
deve essere per loro “casa accogliente”; resta il no alle unioni omosessuali,
ma “senza negare le problematiche morali che vi sono connesse, si prende atto
che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un
appoggio prezioso per la vita dei partners”.
Se in passato si è parlato per la
Chiesa di una svolta copernicana, ebbene la svolta copernicana è qui: dalle
dottrine alle persone, dal giudizio (“non negoziabile”) alla misericordia.
Il rischio di soluzioni riduttive
Tutto bene allora? In realtà
subito dopo la relazione intermedia si sono scatenate le reazioni di chi l’ha
accusata di parzialità e sostiene che non bisogna illudere nessuno perché mai
la Chiesa potrà cambiare la sua posizione dottrinale e disciplinare su queste
materie; e ciò si è detto soprattutto in riferimento alla questione più
disputata che è quella della riammissione all’eucarestia dei divorziati
risposati. Di fronte a queste resistenze anche veementi (come quelle da cui si
fece intimorire il Concilio) il rischio è che si cerchi una soluzione
giuridicistica (ad esempio moltiplicando le pronunzie di nullità matrimoniale)
o si finisca per trovare una mediazione col dire che la dottrina resta com’è,
ma che la disciplina viene reinterpretata secondo il criterio della
misericordia: una specie di ripresa della distinzione tra tesi e ipotesi che fu
tirata in ballo per superare le chiusure del magistero pontificio
dell’Ottocento. Ma non sarebbe una cosa sana, perché il criterio ermeneutico
della misericordia se vale per la disciplina tanto più deve valere per la
dottrina e per la comprensione della parola di Dio da cui quella dottrina viene
fatta discendere.
Allora il vero problema è se il
monito del papa (e del Vangelo) a non sciupare il sogno di Dio mettendo sulla
gente dei carichi insopportabili, sia compatibile con la dottrina che la Chiesa
deduce dal detto di Gesù “non divida l’uomo ciò che Dio ha unito”, e con la
disciplina che condiziona la comunione alla indissolubilità matrimoniale.
La domanda è legittima perché non
sempre e non tutte le Chiese hanno adottato quella dottrina, e perché non
esiste una lettura fissista e immutabile della parola di Dio consegnata nella
Scrittura, ciò che secondo la Pontificia Commissione biblica sarebbe “un
suicidio del pensiero”. E dopo la sentenza di Gregorio Magno secondo il quale
“la Scrittura cresce con chi la legge” e dopo tutto il travaglio del movimento
biblico del Novecento, culminato nella Dei
Verbum del Concilio, sarebbe singolare che non si potessero trovare nuove
ricchezze e cercare significati non fondamentalistici e non giuridicistici
nelle parole di Gesù sull’unità indivisibile della coppia umana. Un esegeta di
indubbio valore, il camaldolese p. Innocenzo Gargano, scrive ad esempio che
Gesù ha proposto il suo ideale di indissolubilità come un fine o una perfezione
da raggiungere, invocando la legge fin dal principio “inscritta nelle stelle”,
senza per questo abrogare la legge più recente data da Mosè per una
condiscendenza suggerita dalla “durezza del cuore”, cioè dalla condizione umana
concreta: il che escluderebbe una traduzione tassativa, giuridica, e non
spirituale delle parole di Gesù. E si potrebbe anche pensare che il
comandamento primordiale a non dividere ciò che Dio ha congiunto non riguardi
tanto le singole coppie umane, quanto l’unità vitale tra i due universi
maschile e femminile, nella loro essenziale ed eguale dignità, contro le
tentazioni separatiste, i patriarcati i matriarcati il femminicidio e le
violenze reciproche di ogni tipo; e ancora di più che esso reclami l’unità
indissolubile tra tutti gli uomini e le donne viventi sulla terra, che il primo
a infrangere fu Caino e di cui la rottura più radicale sono il fratricidio e la
guerra.
Ma oltre che per le parole di
Gesù la Chiesa mette in relazione il sacramento dell’eucarestia e quello delle
nozze seguendo San Paolo che nella lettera agli Efesini fa del matrimonio
figura dell’unione sponsale di Cristo con la Chiesa; e siccome questa, per
fede, è un’unione indissolubile, così deve esserlo anche quella degli sposi
cristiani. Da ciò deriva che una volta contratto, il matrimonio non è più nella
disponibilità dei coniugi, essi ne sono in qualche modo solo depositari, perché
ormai rappresenta un’altra cosa che non è più loro, è l’unità tra Cristo e la
Chiesa; la filosofia moderna la chiamerebbe un’alienazione. Perciò, come dice
l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II “Familiaris consortio” non si possono ammettere all’eucarestia i
divorziati risposati perché “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono
oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata
ed attuata dall’eucarestia”.
Ma l’unità della singola coppia
umana è un segno imperfetto di questa unione. Come ha scritto il vescovo di
Anversa Mons. Johan Bonny in un documento in vista del Sinodo che è merito di “Koinonia” aver fatto conoscere in
Italia, il rapporto che intercorre tra l’indissolubilità del matrimonio e
l’indissolubilità del legame tra Cristo e la sua Chiesa non è una
“identificazione”. “Le due indissolubilità non hanno lo stesso significato
salvifico. Esse sono l’una per l’altra “segno” e “significato” … nessun segno
può rappresentare in modo definitivo la realtà dell’alleanza d’amore di Cristo
con l’umanità e la Chiesa. Anche il riflesso più bello dell’amore di Cristo è
contrassegnato dalla limitatezza e dal peccato umano”.
Senonché la partita non si gioca sul
segno: la partita si gioca sul significato; se il segno viene meno non vuol
dire che viene meno o è compromessa la realtà significata. Se la Gerusalemme
politica diventa la società dell’odio non vuol dire che la Gerusalemme celeste
sia perduta. Se finisce un matrimonio, non finiscono le nozze di Dio con
l’umanità.
L’indissolubilità inciampa sulla morte
In ogni caso c’è un limite in
questa perfetta specularità che la Chiesa cattolica ha inteso stabilire tra
indissolubilità del matrimonio e definitività dell’unione di Cristo con la
Chiesa. Infatti il matrimonio per la Chiesa non è veramente definitivo: poiché
lo considera un contratto, esso si scioglie con la morte. E qui la
corrispondenza tra le due unioni finisce. Alla morte di un coniuge l’altro non
è più legato, e questo rende impossibile che la similitudine tra il matrimonio
umano e l’unione tra Cristo e la Chiesa possa andare oltre il valore simbolico,
essendo il simbolo solo un’ombra della realtà, e in questo caso talmente
infermo da avere termine nella morte, in contrasto con la caratteristica
essenziale del rapporto di Cristo con la Chiesa, che non viene mai meno.
Non a caso nella Chiesa antica non
venivano incoraggiate le seconde nozze dei vedovi. Tertulliano addirittura le
escludeva. A un certo punto sorse anche un’eresia, quella dei novazioni, che
erano rigoristi e sostenevano che i digamoi
(bigami) - come erano chiamati sia i vedovi che i divorziati risposati - al
pari degli omicidi e di quanti avevano abbandonato la fede a causa delle
persecuzioni, non potessero essere riammessi alla comunione ecclesiale; e, come
ci ha spiegato Giovanni Cereti, ci volle il canone 8 del Concilio di Nicea per
condannare questa posizione come oltranzista, ammettendo all’eucarestia dopo le
seconde nozze sia i vedovi che i reduci da un matrimonio finito.
Si può dire che non fosse priva
di coerenza, rispetto al modello paolino, l’idea che il legame coniugale non
venisse meno nemmeno con la morte, ma in tal modo il “mistero grande” di cui aveva
parlato Paolo veniva trasformato in un comando vincolante per tutti.
Se poi il matrimonio è un patto
che viene sciolto dalla morte, cioè a causa di forza maggiore, indipendentemente
dalla volontà dei coniugi, si può pensare che essi possano scioglierlo anche per
altre cause di forza maggiore; a meno che non si ritenga che la morte sia data
direttamente da Dio che in tal modo scioglierebbe ciò che prima aveva unito. Ma
la morte non è da Dio.
Aver fatto della morte il
discrimine dell’obbedienza al precetto dell’indissolubilità matrimoniale, porta
alla Chiesa, e a tutta la comunità cristiana, incresciose conseguenze.
Secondo l’attuale disciplina il
divorziato risposato non può fare la comunione finché è in vita l’altro
coniuge, perché suo malgrado gli è rimasto, per la Chiesa, legato. Potrà fare
la comunione appena l’ex coniuge muore. Una cosa così grande, così necessaria,
così piena di grazia, il cristiano potrà averla solo a patto della morte di un
altro. Questa potrebbe perfino apparire desiderabile, come talvolta accadeva
nella società secolare, prima del divorzio (il divorzio all’italiana!). Ma può
accadere nella Chiesa? La Chiesa non dovrebbe fare della morte la condizione
per dare la vita, per concedere i suoi sacramenti. Non può essere la morte
l’amministratrice dei doni di Dio. Tocca al Sinodo, ora, spodestarla.
Raniero La Valle
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