giovedì 30 aprile 2020

IN MEMORIA


La decisione dei vescovi, in Italia e in Francia, di intervenire su Conte e su Macron per una deroga a favore della Chiesa cattolica alle norme sul confinamento, ai fini di radunare il popolo per l’Eucaristia, ha suscitato un dissenso profondo non solo da parte di “cristiani critici” pronti e forse adusi a dar sulla voce alle gerarchie, ma anche da parte di teologi autorevoli, intellettuali, vescovi. Così la messa che è la grande istituzione per l’unità - la “comunione” - dei fedeli, è diventata causa di divisione.
Si è perfino sostenuto che emergessero due Chiese, una nella tradizione dei sacramenti e del culto, l’altra del Vangelo. In ogni caso la Chiesa di tutti, la Chiesa dei poveri ama tutte e due, anche perché esse non sono così nettamente distinte tra loro e c’è molto traffico di frontalieri attraverso i loro confini.
Neanche noi abbiamo condiviso la rivendicazione dei vescovi e motivi validissimi ne sono stati recati e messi in circolazione da molti. Ciò che soprattutto ci ha turbato è stata la ragione, un po’ ultimativa, addotta dai funzionari di un ufficio della CEI, secondo la quale con meno messe ci sarebbe stato meno servizio ai poveri, alla comunità; come a dire niente sacramento niente lavanda dei piedi, l’una cosa essendo alimento dell’altra, e ciò come se la messa, e solo lei, fosse un distributore di benzina o una centralina per il rifornimento di elettricità, senza cui la macchina non va. È verissimo che per servire i poveri, lavarsi i piedi l’un l’altro, essere cristiani ci vuole una ingente energia, ma, a non essere pelagiani, si sa che questa energia viene dallo Spirito del Signore, e ci mancherebbe altro che lo Spirito Santo si facesse interdire dalla scarsità di messe in tempi di pandemia o in regioni amazzoniche, sarebbe come tagliare la luce al palazzo occupato, che l’Elemosiniere del papa, il divino elettricista, è andato a riattaccare.
Per uscire dalla controversia, se essa non vuole essere tenuta in vita e strumentalizzata ad altri scopi, basterebbe rifarsi alle parole di Gesù quando ha dato il suo pane, ed ha detto: “fate questo in memoria di me”. Dunque il pane, che poi i teologi hanno spiegato come transustanziazione, è il mezzo, il fine è ricordarsi di lui. E qui il mezzo non è il messaggio, il fine è superiore al mezzo. Per questo abbiamo sempre pensato che sarebbe bello che I cristiani si ricordassero di lui ogni volta che spezzano e mangiano il pane, cioè sempre, tanto più se condiviso; e infatti c’è un’antica tradizione popolare secondo cui a tavola il padre, o la madre, o uno degli altri, benedice il pane prima che tutti lo mangino.
È bello che il pane sia legato alla memoria, per questo le celebrazioni della Parola che si fermano alle letture prima della consacrazione, come si usava a Bologna nell’entusiasmo della riscoperta della Bibbia dopo il Concilio, in questo mancano, nel rendere visibile la memoria. Per questo non c’è mai stata più memoria di Gesù in questi tempi, di quanta c’è n’è ora intorno alla messa di Papa Francesco, che grazie al virus è trasmessa e “vista” in TV ogni mattina da Santa Marta. E se il pane rende visibile la memoria e la fa anche cibo, epidemia permettendo, la memoria del Signore non vive di solo pane. E se no, come sarebbe giunta fin qui?



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sabato 25 aprile 2020

UNA NUOVA “CRISTIANITÀ”?


La premessa è che noi non facciamo teologia, però osserviamo i movimenti della storia. Questa volta vi scriviamo dall’ospedale dove chi scrive si trova non per il virus ma per una banale diverticolite, il che gli permette però di condividere più intensamente una condizione divenuta oggi molto comune, quella degli “spogliati”. Tanto comune che ci si mette anche il papa.
Abbiamo letto l’intervista di papa Francesco “al mondo di lingua inglese” duramente colpito dalla pandemia, raccontata in italiano da padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica. È
reperibile ovunque. Il pensiero o ipotesi che ne abbiamo tratto è che uscendo, come ne siamo usciti a fatica, dalla “cristianità”, si stia profilando e abbozzando (e sempre che l’abbozzo riesca) una nuova cristianità, che forse il secolo non chiamerà così ma rappresenterà un altro modo, soave e ricchissimo, di deposito dell’annuncio cristiano nel mondo.
La cristianità è quella che ha avuto corso legale nel mondo dalla riforma gregoriana dell’XI secolo al Concilio ecumenico Vaticano II, dopo il precedente fondativo di Teodosio, il primo Imperatore cristiano. Per fortuna la cristianità non ha esaurito in se stessa tutto il cristianesimo e la Chiesa, che sono stati in questo millennio fecondissimi, però ha preteso racchiudere in se stessa tutto il mondo via via conosciuto. Da essa ha preso congedo dottrinalmente l’ultimo Concilio, ed esplicitamente papa Francesco in uno dei punti più alti del suo magistero, parlando ai Capi d’Europa, compreso il Re di Spagna, venuti da lui a conferirgli il premio Carlo Magno (!). Ora la nuova “cristianità” che si intravvede non è in lizza per annettersi la totalità, non quella planetaria, sapendo ormai che “il tempo è superiore allo spazio”. Non è proselitistica. Gesù ce l’aveva con chi batteva mare e terra per fare un proselite e lo rendeva poi peggiore di prima. E, anche al meglio che si possa pensare, intendere gli altri come proseliti significa viverli come una mancanza, un’estraneità, un’assenza che ci priva di una ricchezza, di un compimento, e così, prima di farli propri, significa farne degli scarti. Invece per Dio non è scartato nessuno, quella totalità che la cristianità presumeva di realizzare in realtà già c’era, l’aveva rivelata Gesù, l’ebreo, stendendo le braccia sulla croce. È vero che poi ha detto di andare fino agli estremi confini della terra, ma per dare la notizia, perché tutti sapessero una cosa che comunque già c’era, l’abbraccio di Dio per l’umanità intera; perché a saperlo certo si è più felici e anche si può e forse si sa essere più giusti e la storia va meglio. E dunque così potrebbe essere la cristianità che domani riappaia, avendo molti nomi, e non c’è paura che ne manchino, tanti essendo i nomi di Dio. Sarà un farsi abbracciare da lui, facendosi un po’ lui, anche senza saperlo, quando molta più gente sarà stata raggiunta dalla notizia che Dio è amore senza gelosia, e se Dio fosse giustizia ma non misericordia, “non sarebbe neanche un Dio”, come attesta papa Francesco. Ma non si deve pensare che il prezzo di questa nuova cristianità immedesimata nel pleroma dell’umanità amata da Dio sia la deistituzionalizzazione   della Chiesa. Non c’è vita senza istituzione; ma come ha spiegato Francesco nell’intervista dal suo confinamemto per il virus, la Chiesa è istituzionalizzata dallo Spirito Santo il quale con i carismi crea il disordine, ma poi da lì crea l’armonia. C’è il momento di scuotere le istituzioni (ce l’ha insegnato Ivan Illich) e c’è quello di inverare le istituzioni, come dal manicomio alla riforma psichiatrica, da Creonte ad Antigone. Lo Spirito Santo fa questo. E sono operazioni di “cristianità”.


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lunedì 20 aprile 2020

IL PAPA IN QUESTIONE

Questa volta il papa, che solitamente non risponde ai suoi critici  («bisogna avere il coraggio di tacere,  davanti all’accanimento soltanto il silenzio», ha detto in un’omelia a Santa Marta),  si è fatto mettere in questione sulla scelta di celebrare la Pasqua nella basilica di san Pietro vuota.
«Mi ha scritto un vescovo – ha confidato – un bravo vescovo, bravo, e mi ha rimproverato. “Ma come mai, perché non mettere 30 persone almeno, perché si veda gente? Non ci sarà pericolo…”…. Io non capii, nel momento. Ma siccome è un bravo vescovo, molto vicino al popolo, qualcosa vorrà dirmi… Poi ho capito. Lui mi diceva: “Stia attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i sacramenti, a non viralizzare il popolo di Dio”». Ossia a non renderli impalpabili, evanescenti. E il papa ha commentato: «La Chiesa, i sacramenti, il popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità col Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanervi». Perché «questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. Sì, è intima, è personale, ma in comunità; una familiarità senza il pane, senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti, è pericolosa. Può diventare una familiarità gnostica»: una familiarità, una vita, una religione senza i corpi.
Ci sembra che qui ci sia una grande lezione. Una Chiesa che celebra senza la comunione dei corpi non è che lo fa per spiritualismo, perché c’è una tradizione che ha contrapposto il corpo all’anima, o perché scambia il “viene un tempo ed è questo” con un’escatologia fatta in casa. Una Chiesa che celebra senza l’incontro dei corpi, senza il popolo, lo fa perché anche il mondo è ridotto così, a vivere con i corpi separati e appartati, senza un popolo che possa riempire il deserto delle strade, delle piazze, dei giardini, dei musei, delle scuole. Perciò la Chiesa ne condivide la condizione, e lo fa “svuotando se stessa”, come il suo Signore, vivendo con dolore la sua kenosi, non per conformismo o per una resa al mondo, ma per amore. Poteva non farlo, accampando la propria diversità, vantando di essere protetta dal miracolo o giustificata dall’eroismo, o millantando una magica immunità dal contagio delle funzioni religiose (e come potrebbe essere contaminante – dice qualcuno - il corpo e il sangue di Cristo!). Ma sarebbe stata un’ecatombe, peggio del Pio Albergo Trivulzio (e le storie raccontano di antiche epidemie incrementate dalle processioni penitenziali). Se poi avesse piazzato 30 persone ben distanziate nell’immensa basilica, “perché si veda gente”, avrebbe normalizzato l’assenza,  avrebbe tolto il dramma alla Pasqua, davvero avrebbe fatto una finzione mediatica solo per mandarla in televisione: né corpo, né sacramento, né popolo, ma solo un “Truman show", una “celebrazione della Messa da remoto”, come ineffabilmente pretendeva di disporre un emendamento presentato da Giorgia Meloni al decreto del governo sulle misure contro il virus.
È chiaro che c’è il pericolo di un assuefarsi a questo “stare insieme, ma non insieme”, come l’ha definito il papa, a questa comunione spirituale senza comunicare nel pane, a questa familiarità col Signore  “per me soltanto, staccata dal popolo”, quasi non fosse una Chiesa. Ma questo pericolo c’è anche per il mondo, anzi soprattutto per lui, il vivere in vitro, senza comunicazione reale, lavoratori senza compagni, fabbriche tutte robot e pochi operai, scuole senza compagni di banco, tavole senza commensali. Tutto questo ha oggi un senso, e anzi è un dovere, perché non sia tutta una Lombardia, “ma per uscire dal tunnel, non per rimanervi”. E la Chiesa non può uscire prima degli altri, lei sola, perché è la Chiesa, c’è perfino il Concordato. Occorre uscirne tutti insieme, il mondo e la Chiesa, non la Chiesa senza il mondo. Non chiese aperte e case chiuse.
Non a caso il papa ha incastonato questa riflessione a Santa Marta tra la preghiera per le donne incinte che si domandano angosciate  “in quale mondo vivrà” il loro figlio, e il pensiero della “festa”, che pur celebreremo perché  “certamente sarà un mondo diverso, ma sarà sempre un mondo che il Signore amerà tanto”.
E nel giorno di Pasqua il papa si è fatto mettere ancora in questione, e questa volta dai movimenti popolari, con cui già si era incontrato tre volte, a cui ha rivolto una lettera di conforto, ma anche di gratitudine per il loro atteggiamento indomito che, ha scritto, «mi aiuta, mi mette in questione (me questiona), e mi insegna molto». Anche per questa lettera è stato posto sotto accusa dagli “accaniti” contro di lui, per aver fatto “politica in presa diretta”. E che scandalo sarebbe? È sempre il discorso su “quale mondo” che fa Francesco; ma non è forse un discorso su “quale mondo” che faceva Gesù e per cui ha dato la vita? Un mondo fatto non solo dagli gnomi della finanza o da quanti vivono, più o meno fortunosamente, sopra il livello della povertà, ma anche dai senza tetto, dai migranti, dai poveri. Un mondo dove a lottare «dalle periferie dimenticate per creare soluzioni degne per i problemi più urgenti degli esclusi» sono i venditori ambulanti, i riciclatori, i giostrai, i piccoli agricoltori, gli operai, i sarti, quanti svolgono attività di assistenza, lavoratori informali, persone che non hanno un salario stabile per far fronte a questo momento, e per le quali le quarantene sono insostenibili. Perciò forse, scrive il papa, «è giunto il momento di pensare a un salario universale che riconosca e dia dignità» e trasformi «in realtà questa parola d’ordine tanto umana e tanto cristiana: nessun lavoratore senza diritti». Una Politica, appunto.
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giovedì 16 aprile 2020

C’È VUOTO E VUOTO


Questa Pasqua non potrà essere dimenticata. Insieme a molte altre emozioni, essa ci ha consegnato due immagini potenti, che sembrano simili, ma veicolano per contro significati assai diversi. Le due immagini sono la piazza e la basilica di san Pietro, entrambe vuote, pur celebrandovisi i riti.
La piazza san Pietro l’abbiamo vista deserta, sia la sera della preghiera solitaria del papa sul sagrato, il 27 marzo, sia il venerdì santo, sia quando nel pieno sole di mezzogiorno del lunedì dell’Angelo il papa si è affacciato a benedire senza parole, al solo suono delle campane. L’impatto di quella piazza vuota è stato fortissimo, e tuttavia non tale da suscitare desolazione e sgomento, non tale da sembrare (almeno a noi) incompatibile con la natura del luogo. La piazza san  Pietro è di fatto, e forse così è stata pensata, un grande palcoscenico. È la tribuna dei grandi annunci, come quelli che comunicano il “gaudium magnum” dell’elezione di un nuovo papa; è il luogo in cui il papa eletto si materializza alla vista; è lo scenario, con il suo fondale e le sue quinte, nel quale va in scena il grande spettacolo della Chiesa di Roma, dei suoi fasti, della sua presa sul mondo e anche della sua presa del mondo, con quelle grandi braccia dell’emiciclo protese a stringere tutti, a gremirsi di una folla docile e fedele, fatta spettacolo anch’essa. Un palcoscenico vuoto non fa problema,  è sempre pronto ad essere riempito, magari anche da un solo attore, da un primo attore, così come da molti protagonisti, o anche da cori e voci e presenze invisibili, come è accaduto proprio quel venerdì di marzo, quando Francesco ha esteso la vecchia e ben ponderata indulgenza a tutti quanti fossero uniti a quella piazza “anche solo col desiderio”; come pure è accaduto la sera del venerdì santo, quando la rappresentazione della Via Crucis ha trovato su quel palcoscenico la sua realizzazione perfetta, non col corredo di immagini sacre pur sempre opache al mistero, ma perché intessuta delle voci dolenti che raccontavano storie umanissime di prigionieri e guardie, assassini e vittime, colpevoli e innocenti, volontari e cappellani, preti e madri: una specie di Antologia di Spoon River, ma pasquale, non di morti ma di viventi e risorti.
 
Non si può dire altrettanto della visione della basilica deserta, durante la Messa del giovedì santo, durante la veglia pasquale, l’”exsultet”, la Messa senza omelia del giorno di Pasqua, il successivo tenerissimo messaggio al mondo. Questa immagine veramente era durissima a viversi. Perché le chiese si, sono fatte per riempirsi di fedeli, per fare assemblea, riunire non solo gli spiriti ma i corpi di quanti seguono un figlio di Dio che è entrato nel mondo dicendo: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”.
E lo sgomento cresceva al pensare che questa non sarebbe stata solo una condizione passeggera, ma sarebbe continuata a lungo, per quanto tempo ci fosse voluto a liberarsi dal virus o a conviverci, come dicono le voci sempre più preoccupate degli scienziati, che allontanano sempre più nel futuro la fine della crisi, e come dice la severa analisi di padre Gaël Giraud sulla Civiltà Cattolica (che abbiamo pubblicato sul nostro sito), con la previsione che a questa pandemia ne seguirà un’altra e per venirne fuori occorrerà un cambiamento dei modi di produzione, di consumo e di vita, delle relazioni sociali, del sistema sanitario e bancario, dei beni comuni e del rapporto con l’ambiente, e non solo.
Dunque, per quanto tempo sarebbero durati questi vuoti? E passi per il vuoto del palcoscenico, ma come pensare i vuoti tra una persona e l’altra, tra un corpo e gli altri corpi, la solitudine impedita di essere colmata, i travisamenti non più proibiti per legge ma obbligatori, con mascherine, rivestimenti e mute, e interdetta anche l’ora d’aria, proprio quando grazie all’improvvisa caduta dell’inquinamento le farfalle sono tornate nei giardini di Londra, e le lucciole a Milano, dove Pasolini le aveva date per perse, e il clima è stato buono a godersi, come ormai non si vedeva da tempo? E come pensare il vuoto entro cui va racchiusa ogni persona, perché ciascuno resti con il suo virus? C’è il rischio che diventi sedizioso anche il gesto cristiano per eccellenza, il gesto supremo e assoluto, quello del Samaritano, che è tutto espresso in moti del corpo: gli passò accanto, lo vide, fu preso da misericordia, gli si fece vicino, fasciò le ferite, vi versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò a una locanda, se ne prese cura. È impensabile che questo accada? Ma se già succede con i migranti che salgono in Europa, incappati in ladroni, torturatori e trafficanti, percossi e abbandonati nel mare, e lì lasciati morire perché non c’è più nessuno che va a passare accanto a loro!
Con questi vuoti o distanziamenti tra persona e persona, non prossimi gli uni agli altri, senza mani che si stringano, voci che si fondino, bocche che si bacino,  carni che si uniscano, il mondo non era mai stato pensato, nessun creatore lo avrebbe fatto così, né così è stato fatto. Per un tempo e un altro tempo ancora questo è possibile, è necessario, anzi è meritevole. Ma per un tempo senza fine o di cui non sia avvistabile la fine non può sussistere un mondo così, non sarebbe più neanche un mondo. Perciò bisogna uscirne al più presto, e per farlo diventa un dovere imprescindibile, un compito politico necessario ed  urgente ciò che fino ad oggi è sembrato impossibile, togliere sovranità al denaro, rovesciare la divisa del capitalismo per cui “tutto ha un prezzo, niente ha valore”, uscire dall’economia che uccide, costruire ospedali e non armi, bandire le atomiche e le guerre, desistere dallo sfruttamento selvaggio del suolo, delle foreste, del mare, dei fossili, del cielo, bandire il “prima noi”, il “salvarsi da soli”, rifondare il diritto, costruire una Costituzione mondiale, istituire organisni sovraordinati che la attuino e garantiscano nel pluralismo dei regimi politici e dei governi.  
Questo dobbiamo fare perché questo vuoto tra le persone, che nessun web può colmare né lavoro “da remoto”, è il male da cui liberarci, la minaccia da sventare, il germe da estirpare prima che attecchisca, prima che con il suo artificio contamini la cultura, la politica, le relazioni sociali. E a dirci che questo può avvenire e avverrà è venuta la Pasqua, che unendo terra e cielo ha rinnovato l’antica promessa: ce la possiamo fare, se il Signore è risorto, non è la morte che può vincere, questo l’annuncio che è risuonato come non mai nel silenzio profondissimo in cui sono echeggiate queste parole.
 
Però c’è l’altro vuoto, quello delle chiese, che pur con tutto il suo dolore e sconcerto parla un tutt’altro linguaggio: non è solo un male a cui porre fine, ma è anche un segno potente, una pedagogia, un annuncio. Papa Francesco se ne è fatto carico, assumendolo non come il vuoto di una Chiesa dispersa, ma come la figura di chi “svuotò se stesso”, scambiando la sua forma divina con la condizione umana del servo, spogliato di tutto sulla croce. E allora come intonare il pianto sugli inabitati spazi e i marmi di san Pietro, altre volte traboccanti di folle o di vescovi riuniti a Concilio, quando del tempio di Gerusalemme Gesù aveva detto che non sarebbe rimasta pietra su pietra? Come sfidare le autorità civili pretendendo l’apertura delle chiese, quando doveva venire il tempo, ed è questo, di adorare il Padre in spirito e verità? Come non uscire dai recinti sacri per raggiungere le periferie delle genti, “in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene”, per farsi “annunciatori di vita in tempo di morte”, come ha detto il papa nella notte santa, raccogliendo l’invito del Risorto a precederlo in Galilea? E non a caso Francesco ha sottolineato che quella era la regione più lontana da Gerusalemme, “più distante dalla sacralità della Città santa”, popolata da genti diverse che praticavano vari culti, la «Galilea delle genti».
Davvero sembra che tutto il pontificato di Francesco sia stato una preparazione a interpretare quest’ora, dall’annuncio nuovo del Dio della misericordia, non geloso non violento e fedele, alla Chiesa in uscita, ospedale da campo e non servizio religioso ai combattenti, da Lampedusa a Lesbo, dal “chi sono io per giudicare” all’invito ai confessori di perdonare sempre, anche fuori della confessione sacramentale, dalla Laudato sì alla Querida Amazonia, da Abu Dhabi sulla fraternità umana alla comunione spirituale proposta ogni mattina da Santa Marta, dal concentrare tutto nel crocefisso e nel vangelo alla consolazione offerta a quanti nella Chiesa sono privi dell’Eucarestia e degli altri sacramenti, ma non per questo orfani della mano del Signore posata sopra di loro. 
Molti si aspettavano la riforma della Chiesa nei modi da loro sempre pensati, e si lamentano perché non ne vedono abbastanza tracce, ma intanto non ci accorgiamo che la riforma di Francesco è ben più profonda e gravida di futuro dei nostri progetti anche più avanzati, è “capace di quella santa novità” che solo una Pasqua fino in fondo macinata e vissuta permette di concepire e generare.

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lunedì 6 aprile 2020

LA PROFEZIA DI CAIFA


Non si può celebrare impunemente questa Pasqua senza chiedersi il significato dell’oceano di sofferenze in cui è oggi immerso tutto il mondo e senza chiedersi il significato della Pasqua stessa.

Di per sé l’evento che ha dato origine alla Pasqua è stato un evento di ordinaria violenza, storicamente irrilevante, (infatti non annotato dagli storici di allora), in quanto simile a infinite altre sofferenze e morti inflitte nel tempo, di condanna in condanna, di genocidio in genocidio, fino ad ora. E nemmeno la sua ragione era inusuale, ma anzi del tutto comune, come risulta dalla motivazione di un presunto interesse generale, datane da Caifa, per cui occorreva “far fuori quest’uomo”, come papa Francesco ha riassunto la situazione nell’omelia a Santa Marta, con un efficace linguaggio non religioso che sarebbe piaciuto a Bonhoeffer. Quella che infatti veniva messa in campo era una “ragion di Stato”, come poi sarebbe avvenuto infinite altre volte nella storia. Gesù secondo il Sinedrio avrebbe messo a rischio il rapporto con gli odiati occupanti romani, i quali sarebbero venuti e avrebbero distrutto il tempio e la nazione. Dunque nella percezione degli Ebrei si trattava di un pericolo da togliere (“è bene che un uomo solo muoia per il popolo e non vada in rovina la nazione intera”), non di un sacrificio espiatorio da offrire in olocausto. La lettura della uccisione di Gesù come un sacrificio è una lettura cristiana, che viene dalla assimilazione mistica di Gesù al servo sofferente.

Perché dunque un evento storicamente così ordinario e seriale ha avuto un impatto così potente da dividere in due fasi la storia anche profana del mondo, e da essere registrato come dirompente anche da parte di chi non condivide la fede nella resurrezione?

Bisogna tornare a Caifa, che l’evangelista Giovanni, riconoscendone l’autorità come sommo sacerdote, considera come un profeta suo malgrado: egli “profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione;  e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”. 

Di tale profezia non si è realizzata la prima parte, perché in effetti i Romani vennero e distrussero il tempio e la nazione, ma si realizzò invece la seconda, perché l’abbraccio di Dio fu riconosciuto come esteso dagli Ebrei a tutte le genti.

Ora questo è avvenuto precisamente perché accettando la morte Gesù ha decostruito, e invalidato per sempre, inchiodandola alla croce, la legge (“il chirografo”, lo chiama Paolo) del sacrificio. Era l’ideologia per la quale la sofferenza e la morte erano tributate a Dio come espiazione per i peccati, cosa questa che, superati i sacrifici umani, era rappresentata nel sacrificio del capro espiatorio, e ritualmente dell’agnello pasquale. Questa costruzione umana che faceva di Dio colui che riceveva soddisfazione e lode dal dolore, diventava impossibile a concepirsi nel momento in cui ad addossarsi i peccati era Dio stesso e a patire era quello stesso Dio a cui quel patimento sarebbe stato dovuto. Già Dio lo aveva fatto sapere: “Misericordia voglio e non sacrifici”, ma Gesù lo rende irrefutabile col rivelare il proprio rapporto col Padre. Egli non dice solo: “Quello che farete a uno di questi piccoli lo farete a me”, ma dice anche: quello che fate a me lo fate al Padre. Questo è infatti il tema della controversia con i capi dei sacerdoti e i farisei, il suo rapporto col Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”; e questo è ciò che poté essere espresso poi nella formula cristologica “Unus de Trinitate passus est”.  Da quel momento nessun sacrificio si può imputare a Dio, nessuna morte può essere inflitta a suo nome, nessuna sofferenza può essere causata per piacere a lui, e non solo le sofferenze imposte agli altri ma anche quelle inflitte a se stessi, cosa lontanissima dalla comprensione di un san Pier Damiani che afflisse tutta la Chiesa spargendo l’idea di un’ascesi autopunitiva selvaggia.

E proprio questa è la buona notizia, non c’è alcuna sofferenza che possa essere ricondotta a un compiacimento di Dio; e poiché Dio è il bene, nessuna sofferenza può essere inflitta a fin di bene, la pena di morte è ormai condannata anche dal catechismo. Certamente la sofferenza resta, e molto si impara nel soffrire, e talvolta essa dilaga, senza responsabilità di alcuno; e c’è pure una sofferenza che è la conseguenza non voluta di scelte e comportamenti giusti e necessari; ma nessuna sofferenza può essere voluta direttamente in quanto tale o imposta per se stessa. Ad esempio oggi la sofferenza causata dalle misure prese contro il virus è grande, ma essa è la condizione e l’effetto indesiderato della lotta contro la pandemia, non è certo voluta da chi l’impone. Così come l’ostinazione di tenere la gente in carcere, il chiedere “che sia fatta giustizia”, il pensare che non sia fatta giustizia finché il reo non soffra e non pareggi così il suo debito, cioè fino a quando non scatti la vendetta, pur civilizzata perché fatta dallo Stato, è un’aberrazione.

Ma c’è un altro risvolto della profezia di Caifa. L’elezione divina di Israele si è estesa a tutti i popoli. E che ne è della terra, la cui promessa era legata a quell’elezione? Non è più promessa? Si, resta la promessa, ma anch’essa ormai è estesa a tutta la Terra; essa non riguarda più la sola terra di Canaan offerta a un solo popolo, a esclusione di altri, bensì è la promessa di tutta la Terra a tutta l’umanità nel suo insieme; nessuno può più rivendicare possessi esclusivi, l’unità della comunità umana annunciata dalla Pasqua, porta con sé anche l’unità della Terra, promessa non più a un solo popolo ma a tutti, una Terra risanata dove scorra latte e miele, dove si costruiscano case e si possano abitare, si piantino vigne e se ne possa godere il frutto, in cui si possa vivere liberi e nessuno sia più straniero.
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venerdì 3 aprile 2020

LA DIAGNOSI, LA CURA

La tempesta che si è abbattuta su di noi con questa pandemia svela il pensiero di molti cuori. Il primo a essere svelato è il cuore della Chiesa, che mai è stata così “prossima” all’umanità intera come ora. Certo essa è stata sempre vicina ai suoi fedeli, ma c’è voluto un papa come papa Giovanni per dire, in punto di morte, che “ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque il diritto della persona umana e non solo quelli della Chiesa cattolica”; e ciò non perché “è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. 
E questo lo vediamo ogni mattina nella messa che Francesco celebra a Santa Marta, che ormai perfino la TV italiana riprende; un papa intriso di dolore, che condivide con tutti, si tratti dei morenti nella solitudine o dei senza tetto sdraiati tutti insieme, “in osservazione”, in un parcheggio di Las Vegas.
E lo abbiamo visto realizzarsi venerdì 27 marzo quando, sotto la pioggia apparentemente disabitata di piazza san Pietro, si è prodotto un evento che è sembrato prefigurare un nuovo modo di essere Chiesa. Per la prima volta quella piazza è apparsa non come il recinto del tempio, ma piuttosto come l’atrio delle Genti, e in esso è sceso un sacerdote uscito dal santo dei santi a officiare non per i suoi, ma per tutti. Già il mercoledì precedente nella preghiera cristiana del Pater noster il papa  aveva voluto riunire i cristiani di ogni confessione.  Ed ecco che ora veniva chiamata a raccolta tutta la Terra. Non cambiava la Chiesa, l’ekklesìa, cioè l’assemblea,  ma questa volta era invisibile, fermata agli ingressi dal virus, e tuttavia proprio per questo più vera, perché in quell’assenza si faceva presente l’umanità tutta, all’ora della sua prova; e si è visto il papa ai piedi della basilica di san Pietro, e non dal balcone, abbracciare il mondo intero, perfino quelli che non erano nemmeno collegati  “attraverso le  diverse tecnologie di comunicazione”, come al momento della benedizione ha detto il cerimoniere pontificio, ma vi si univano “col solo desiderio”. Il rito era quello dell’indulgenza che viene “concessa”, come dicono i vecchi canoni, per la “rimessione della pena temporale dovuta per i peccati”; ma ormai dalla Bolla “Misericordiae vultus” che indisse l’Anno della misericordia sappiamo che l’indulgenza non è un pareggiare i conti coi peccati, ma intende piuttosto cancellare “l’impronta negativa” che essi hanno lasciato nei comportamenti e nei pensieri del credente, sulla cui intera vita si estende il perdono di Dio. La controversia con Lutero è davvero lontana. E a essere eletti sono tutti; c’è una potenzialità salvifica del desiderio, a cominciare dal desiderio di Dio, tutti quelli che solamente lo desiderano, sono accolti dal Padre, sono cittadini del cielo.
Ma non sono svelati solo i pensieri del cuore di Dio. È messo a nudo il cuore degli uomini, e molte cose che erano nascoste, vengono invece alla luce.  Il tempo della pandemia è un tempo di rovesciamenti. Il più mirabile è che proprio quando più siamo e dobbiamo essere separati gli uni dagli altri, più siamo vicini, e quanto più il mondo diventa una pelle di leopardo di quarantene, più esso si unisce. Scattano forme imprevedibili di solidarietà. Pensavamo che i gemellaggi non servissero a niente, magari solo a un bel viaggio dei rispettivi sindaci o consiglieri. Ed ecco che a Recanati, gemellata chissà perché con la città cinese di Xiangcheng, arrivano porto franco 60.000 mascherine direttamente da quella contea dell’Henan, e negli ospedali del Nord arrivano medici e attrezzature da Cuba, dalla Russia e dalla Cina; e nell’area più tormentata, a Bergamo e Brescia, arrivano 30 medici e infermieri dall’Albania, ciò che il suo Primo ministro, Edwin Rama, motiva dicendo: “non siamo ricchi, ma neanche privi di memoria”. Si tratta della memoria non solo dell’Italia che accolse i profughi e i naufraghi albanesi in cerca di un nuovo destino, ma dell’Italia che nel 1991 organizzò una spedizione militare oltremare per aiutare il Paese. Si chiamò “operazione Pellicano”, durò due anni, i soldati portarono cibo  e medicinali (e talvolta anche il loro rancio) fino alle più sperdute contrade delle montagne albanesi; e per cancellare il ricordo dell’invasione e annessione di quel regno all’Italia perpetrate dal fascismo, quell’esercito andò e operò in Albania senza portare armi con sé, per la prima volta una Forza Armata senz’armi.  Le destre in Italia erano furibonde.
A fronte di questi legami universali che si vanno tessendo nel pieno di una crisi di proporzioni inaudite, c’è un’Europa che non risponde a questa “chiamata della storia”, come la definisce il nostro presidente del Consiglio; ci sono Paesi che vogliono tenersi strette le loro ricchezze, come l’Olanda, che non vogliono rischiare, come la Germania, che buttano a mare la democrazia, come l’Ungheria, o che perfino sono stati tentati di brevettare e non condividere gli eventuali rimedi trovati contro il virus, come gli Stati Uniti di Trump. Si possono deplorare queste storture, ma più importante ancora è ricavarne la lezione. E la lezione è che ormai i problemi da cui dipendono la vita, la salute e la stessa sopravvivenza del mondo si pongono a livello globale e non possono essere affrontati né trovare soluzione che allo stesso livello globale. “Siamo tutti nella stessa barca”, parola di papa; e questa  non è una pia esortazione, una mozione degli affetti o semplicemente una pretesa etica. È una notizia, è una diagnosi.
Ma al contrario di quanto avviene col virus, per il quale non si riesce ad andare oltre la diagnosi, qui la risposta, la cura, la possiamo adottare. Ed è il salire a una nuova e più vera dimensione dell’internazionalismo:  non quello delle aggregazioni regionali e parziali, ma quello della mondialità e dell’intero. Le intese, le alleanze, le integrazioni stipulate tra singoli Stati o racchiuse in determinate aree geografiche sono state dettate finora da finalità specifiche e interessi particolari, economici e politici. Si pensi al Patto atlantico, al Patto di Varsavia, all’Organizzazione degli Stati americani, alla Lega araba, al Mercosur, al CETA, alle Comunità economiche africane;  l’Europa stessa, che oggi è tutt’uno col suo regime economico ma è stata mitizzata come creatura nata da un patto tra ex nemici, ha il suo vizio d’origine nell’essere stata pensata e costruita come “piccola Europa”, ristretta a sei Paesi militarmente integrati e contrapposta a tutta l’altra Europa a sua volta arroccata dietro il suo muro e la cortina di ferro elevata da entrambe.
Queste unioni sono state prodotte dalla storia e dalla politica, ne subiscono i contraccolpi, e sono tormentate e precarie secondo l’artificio che le ha generate. Anche l’unione dell’intera collettività umana che giunga a costituirsi come nuovo soggetto giuridico sulla terra, sarebbe un prodotto della politica e della storia, ma, di più, essa sarebbe anche secondo natura.  Natura e diritto, giustizia e pace potrebbero allora baciarsi in una Costituzione della Terra.
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