Non
si può celebrare impunemente questa Pasqua senza chiedersi il significato
dell’oceano di sofferenze in cui è oggi immerso tutto il mondo e senza
chiedersi il significato della Pasqua stessa.
Di
per sé l’evento che ha dato origine alla Pasqua è stato un evento di ordinaria
violenza, storicamente irrilevante, (infatti non annotato dagli storici di
allora), in quanto simile a infinite altre sofferenze e morti inflitte nel
tempo, di condanna in condanna, di genocidio in genocidio, fino ad ora. E
nemmeno la sua ragione era inusuale, ma anzi del tutto comune, come risulta
dalla motivazione di un presunto interesse generale, datane da Caifa, per cui
occorreva “far fuori quest’uomo”, come papa Francesco ha riassunto la
situazione nell’omelia a Santa Marta, con un efficace linguaggio non religioso
che sarebbe piaciuto a Bonhoeffer. Quella che infatti veniva messa in campo era
una “ragion di Stato”, come poi sarebbe avvenuto infinite altre volte nella
storia. Gesù secondo il Sinedrio avrebbe messo a rischio il rapporto con gli
odiati occupanti romani, i quali sarebbero venuti e avrebbero distrutto il tempio
e la nazione. Dunque nella percezione degli Ebrei si trattava di un pericolo da
togliere (“è bene che un uomo solo muoia per il popolo e non vada in rovina la
nazione intera”), non di un sacrificio espiatorio da offrire in olocausto. La
lettura della uccisione di Gesù come un sacrificio è una lettura cristiana, che
viene dalla assimilazione mistica di Gesù al servo sofferente.
Perché
dunque un evento storicamente così ordinario e seriale ha avuto un impatto così
potente da dividere in due fasi la storia anche profana del mondo, e da essere
registrato come dirompente anche da parte di chi non condivide la fede nella
resurrezione?
Bisogna
tornare a Caifa, che l’evangelista Giovanni, riconoscendone l’autorità come
sommo sacerdote, considera come un profeta suo malgrado: egli “profetizzò che Gesù doveva
morire per la nazione; e non soltanto per la
nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”.
Di
tale profezia non si è realizzata la prima parte, perché in effetti i Romani
vennero e distrussero il tempio e la nazione, ma si realizzò invece la seconda,
perché l’abbraccio di Dio fu riconosciuto come esteso dagli Ebrei a tutte le
genti.
Ora
questo è avvenuto precisamente perché accettando la morte Gesù ha decostruito,
e invalidato per sempre, inchiodandola alla croce, la legge (“il chirografo”,
lo chiama Paolo) del sacrificio. Era l’ideologia per la quale la sofferenza e
la morte erano tributate a Dio come espiazione per i peccati, cosa questa che,
superati i sacrifici umani, era rappresentata nel sacrificio del capro
espiatorio, e ritualmente dell’agnello pasquale. Questa costruzione umana che
faceva di Dio colui che riceveva soddisfazione e lode dal dolore, diventava
impossibile a concepirsi nel momento in cui ad addossarsi i peccati era Dio
stesso e a patire era quello stesso Dio a cui quel patimento sarebbe stato
dovuto. Già Dio lo aveva fatto sapere: “Misericordia voglio e non sacrifici”, ma
Gesù lo rende irrefutabile col rivelare il proprio rapporto col Padre. Egli non
dice solo: “Quello che farete a uno di questi piccoli lo farete a me”, ma dice
anche: quello che fate a me lo fate al Padre. Questo è infatti il tema della
controversia con i capi dei sacerdoti e i farisei, il suo rapporto col Padre:
“Io e il Padre siamo una cosa sola”; e questo è ciò che poté essere espresso
poi nella formula cristologica “Unus de Trinitate passus est”. Da quel momento nessun sacrificio si può imputare
a Dio, nessuna morte può essere inflitta a suo nome, nessuna sofferenza può
essere causata per piacere a lui, e non solo le sofferenze imposte agli altri
ma anche quelle inflitte a se stessi, cosa lontanissima dalla comprensione di
un san Pier Damiani che afflisse tutta la Chiesa spargendo l’idea di un’ascesi
autopunitiva selvaggia.
E
proprio questa è la buona notizia, non c’è alcuna sofferenza che possa essere
ricondotta a un compiacimento di Dio; e poiché Dio è il bene, nessuna
sofferenza può essere inflitta a fin di bene, la pena di morte è ormai condannata
anche dal catechismo. Certamente la sofferenza resta, e molto si impara nel
soffrire, e talvolta essa dilaga, senza responsabilità di alcuno; e c’è pure una
sofferenza che è la conseguenza non voluta di scelte e comportamenti giusti e
necessari; ma nessuna sofferenza può essere voluta direttamente in quanto tale o
imposta per se stessa. Ad esempio oggi la sofferenza causata dalle misure prese
contro il virus è grande, ma essa è la condizione e l’effetto indesiderato
della lotta contro la pandemia, non è certo voluta da chi l’impone. Così come
l’ostinazione di tenere la gente in carcere, il chiedere “che sia fatta giustizia”,
il pensare che non sia fatta giustizia finché il reo non soffra e non pareggi
così il suo debito, cioè fino a quando non scatti la vendetta, pur civilizzata
perché fatta dallo Stato, è un’aberrazione.
Ma
c’è un altro risvolto della profezia di Caifa. L’elezione divina di Israele si
è estesa a tutti i popoli. E che ne è della terra, la cui promessa era legata a
quell’elezione? Non è più promessa? Si, resta la promessa, ma anch’essa ormai è
estesa a tutta la Terra; essa non riguarda più la sola terra di Canaan offerta
a un solo popolo, a esclusione di altri, bensì è la promessa di tutta la Terra
a tutta l’umanità nel suo insieme; nessuno può più rivendicare possessi
esclusivi, l’unità della comunità umana annunciata dalla Pasqua, porta con sé
anche l’unità della Terra, promessa non più a un solo popolo ma a tutti, una
Terra risanata dove scorra latte e miele, dove si costruiscano case e si
possano abitare, si piantino vigne e se ne possa godere il frutto, in cui si
possa vivere liberi e nessuno sia più straniero.
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