lunedì 6 aprile 2020

LA PROFEZIA DI CAIFA


Non si può celebrare impunemente questa Pasqua senza chiedersi il significato dell’oceano di sofferenze in cui è oggi immerso tutto il mondo e senza chiedersi il significato della Pasqua stessa.

Di per sé l’evento che ha dato origine alla Pasqua è stato un evento di ordinaria violenza, storicamente irrilevante, (infatti non annotato dagli storici di allora), in quanto simile a infinite altre sofferenze e morti inflitte nel tempo, di condanna in condanna, di genocidio in genocidio, fino ad ora. E nemmeno la sua ragione era inusuale, ma anzi del tutto comune, come risulta dalla motivazione di un presunto interesse generale, datane da Caifa, per cui occorreva “far fuori quest’uomo”, come papa Francesco ha riassunto la situazione nell’omelia a Santa Marta, con un efficace linguaggio non religioso che sarebbe piaciuto a Bonhoeffer. Quella che infatti veniva messa in campo era una “ragion di Stato”, come poi sarebbe avvenuto infinite altre volte nella storia. Gesù secondo il Sinedrio avrebbe messo a rischio il rapporto con gli odiati occupanti romani, i quali sarebbero venuti e avrebbero distrutto il tempio e la nazione. Dunque nella percezione degli Ebrei si trattava di un pericolo da togliere (“è bene che un uomo solo muoia per il popolo e non vada in rovina la nazione intera”), non di un sacrificio espiatorio da offrire in olocausto. La lettura della uccisione di Gesù come un sacrificio è una lettura cristiana, che viene dalla assimilazione mistica di Gesù al servo sofferente.

Perché dunque un evento storicamente così ordinario e seriale ha avuto un impatto così potente da dividere in due fasi la storia anche profana del mondo, e da essere registrato come dirompente anche da parte di chi non condivide la fede nella resurrezione?

Bisogna tornare a Caifa, che l’evangelista Giovanni, riconoscendone l’autorità come sommo sacerdote, considera come un profeta suo malgrado: egli “profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione;  e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”. 

Di tale profezia non si è realizzata la prima parte, perché in effetti i Romani vennero e distrussero il tempio e la nazione, ma si realizzò invece la seconda, perché l’abbraccio di Dio fu riconosciuto come esteso dagli Ebrei a tutte le genti.

Ora questo è avvenuto precisamente perché accettando la morte Gesù ha decostruito, e invalidato per sempre, inchiodandola alla croce, la legge (“il chirografo”, lo chiama Paolo) del sacrificio. Era l’ideologia per la quale la sofferenza e la morte erano tributate a Dio come espiazione per i peccati, cosa questa che, superati i sacrifici umani, era rappresentata nel sacrificio del capro espiatorio, e ritualmente dell’agnello pasquale. Questa costruzione umana che faceva di Dio colui che riceveva soddisfazione e lode dal dolore, diventava impossibile a concepirsi nel momento in cui ad addossarsi i peccati era Dio stesso e a patire era quello stesso Dio a cui quel patimento sarebbe stato dovuto. Già Dio lo aveva fatto sapere: “Misericordia voglio e non sacrifici”, ma Gesù lo rende irrefutabile col rivelare il proprio rapporto col Padre. Egli non dice solo: “Quello che farete a uno di questi piccoli lo farete a me”, ma dice anche: quello che fate a me lo fate al Padre. Questo è infatti il tema della controversia con i capi dei sacerdoti e i farisei, il suo rapporto col Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”; e questo è ciò che poté essere espresso poi nella formula cristologica “Unus de Trinitate passus est”.  Da quel momento nessun sacrificio si può imputare a Dio, nessuna morte può essere inflitta a suo nome, nessuna sofferenza può essere causata per piacere a lui, e non solo le sofferenze imposte agli altri ma anche quelle inflitte a se stessi, cosa lontanissima dalla comprensione di un san Pier Damiani che afflisse tutta la Chiesa spargendo l’idea di un’ascesi autopunitiva selvaggia.

E proprio questa è la buona notizia, non c’è alcuna sofferenza che possa essere ricondotta a un compiacimento di Dio; e poiché Dio è il bene, nessuna sofferenza può essere inflitta a fin di bene, la pena di morte è ormai condannata anche dal catechismo. Certamente la sofferenza resta, e molto si impara nel soffrire, e talvolta essa dilaga, senza responsabilità di alcuno; e c’è pure una sofferenza che è la conseguenza non voluta di scelte e comportamenti giusti e necessari; ma nessuna sofferenza può essere voluta direttamente in quanto tale o imposta per se stessa. Ad esempio oggi la sofferenza causata dalle misure prese contro il virus è grande, ma essa è la condizione e l’effetto indesiderato della lotta contro la pandemia, non è certo voluta da chi l’impone. Così come l’ostinazione di tenere la gente in carcere, il chiedere “che sia fatta giustizia”, il pensare che non sia fatta giustizia finché il reo non soffra e non pareggi così il suo debito, cioè fino a quando non scatti la vendetta, pur civilizzata perché fatta dallo Stato, è un’aberrazione.

Ma c’è un altro risvolto della profezia di Caifa. L’elezione divina di Israele si è estesa a tutti i popoli. E che ne è della terra, la cui promessa era legata a quell’elezione? Non è più promessa? Si, resta la promessa, ma anch’essa ormai è estesa a tutta la Terra; essa non riguarda più la sola terra di Canaan offerta a un solo popolo, a esclusione di altri, bensì è la promessa di tutta la Terra a tutta l’umanità nel suo insieme; nessuno può più rivendicare possessi esclusivi, l’unità della comunità umana annunciata dalla Pasqua, porta con sé anche l’unità della Terra, promessa non più a un solo popolo ma a tutti, una Terra risanata dove scorra latte e miele, dove si costruiscano case e si possano abitare, si piantino vigne e se ne possa godere il frutto, in cui si possa vivere liberi e nessuno sia più straniero.

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