La decisione dei vescovi, in Italia e in
Francia, di intervenire su Conte e su Macron per una deroga a favore della
Chiesa cattolica alle norme sul confinamento, ai fini di radunare il popolo per
l’Eucaristia, ha suscitato un dissenso profondo non solo da parte di “cristiani
critici” pronti e forse adusi a dar sulla voce alle gerarchie, ma anche da
parte di teologi autorevoli, intellettuali, vescovi. Così la messa che è la
grande istituzione per l’unità - la “comunione” - dei fedeli, è diventata causa
di divisione.
Si è perfino sostenuto che emergessero
due Chiese, una nella tradizione dei sacramenti e del culto, l’altra del
Vangelo. In ogni caso la Chiesa di tutti, la Chiesa dei poveri ama tutte e due,
anche perché esse non sono così nettamente distinte tra loro e c’è molto
traffico di frontalieri attraverso i loro confini.
Neanche noi abbiamo condiviso la
rivendicazione dei vescovi e motivi validissimi ne sono stati recati e messi in
circolazione da molti. Ciò che soprattutto ci ha turbato è stata la ragione, un
po’ ultimativa, addotta dai funzionari di un ufficio della CEI, secondo la quale
con meno messe ci sarebbe stato meno servizio ai poveri, alla comunità; come a
dire niente sacramento niente lavanda dei piedi, l’una cosa essendo alimento
dell’altra, e ciò come se la messa, e solo lei, fosse un distributore di
benzina o una centralina per il rifornimento di elettricità, senza cui la
macchina non va. È verissimo che per servire i poveri, lavarsi i piedi l’un
l’altro, essere cristiani ci vuole una ingente energia, ma, a non essere
pelagiani, si sa che questa energia viene dallo Spirito del Signore, e ci
mancherebbe altro che lo Spirito Santo si facesse interdire dalla scarsità di
messe in tempi di pandemia o in regioni amazzoniche, sarebbe come tagliare la
luce al palazzo occupato, che l’Elemosiniere del papa, il divino elettricista,
è andato a riattaccare.
Per uscire dalla controversia, se essa
non vuole essere tenuta in vita e strumentalizzata ad altri scopi, basterebbe
rifarsi alle parole di Gesù quando ha dato il suo pane, ed ha detto: “fate
questo in memoria di me”. Dunque il pane, che poi i teologi hanno spiegato come
transustanziazione, è il mezzo, il fine è ricordarsi di lui. E qui il mezzo non
è il messaggio, il fine è superiore al mezzo. Per questo abbiamo sempre pensato
che sarebbe bello che I cristiani si ricordassero di lui ogni volta che
spezzano e mangiano il pane, cioè sempre, tanto più se condiviso; e infatti c’è
un’antica tradizione popolare secondo cui a tavola il padre, o la madre, o uno
degli altri, benedice il pane prima che tutti lo mangino.
È bello che il pane sia legato alla
memoria, per questo le celebrazioni della Parola che si fermano alle letture
prima della consacrazione, come si usava a Bologna nell’entusiasmo della
riscoperta della Bibbia dopo il Concilio, in questo mancano, nel rendere
visibile la memoria. Per questo non c’è mai stata più memoria di Gesù in questi
tempi, di quanta c’è n’è ora intorno alla messa di Papa Francesco, che grazie
al virus è trasmessa e “vista” in TV ogni mattina da Santa Marta. E se il
pane rende visibile la memoria e la fa anche cibo, epidemia permettendo, la
memoria del Signore non vive di solo pane. E se no, come sarebbe giunta fin
qui?
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