lunedì 20 aprile 2020

IL PAPA IN QUESTIONE

Questa volta il papa, che solitamente non risponde ai suoi critici  («bisogna avere il coraggio di tacere,  davanti all’accanimento soltanto il silenzio», ha detto in un’omelia a Santa Marta),  si è fatto mettere in questione sulla scelta di celebrare la Pasqua nella basilica di san Pietro vuota.
«Mi ha scritto un vescovo – ha confidato – un bravo vescovo, bravo, e mi ha rimproverato. “Ma come mai, perché non mettere 30 persone almeno, perché si veda gente? Non ci sarà pericolo…”…. Io non capii, nel momento. Ma siccome è un bravo vescovo, molto vicino al popolo, qualcosa vorrà dirmi… Poi ho capito. Lui mi diceva: “Stia attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i sacramenti, a non viralizzare il popolo di Dio”». Ossia a non renderli impalpabili, evanescenti. E il papa ha commentato: «La Chiesa, i sacramenti, il popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità col Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanervi». Perché «questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. Sì, è intima, è personale, ma in comunità; una familiarità senza il pane, senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti, è pericolosa. Può diventare una familiarità gnostica»: una familiarità, una vita, una religione senza i corpi.
Ci sembra che qui ci sia una grande lezione. Una Chiesa che celebra senza la comunione dei corpi non è che lo fa per spiritualismo, perché c’è una tradizione che ha contrapposto il corpo all’anima, o perché scambia il “viene un tempo ed è questo” con un’escatologia fatta in casa. Una Chiesa che celebra senza l’incontro dei corpi, senza il popolo, lo fa perché anche il mondo è ridotto così, a vivere con i corpi separati e appartati, senza un popolo che possa riempire il deserto delle strade, delle piazze, dei giardini, dei musei, delle scuole. Perciò la Chiesa ne condivide la condizione, e lo fa “svuotando se stessa”, come il suo Signore, vivendo con dolore la sua kenosi, non per conformismo o per una resa al mondo, ma per amore. Poteva non farlo, accampando la propria diversità, vantando di essere protetta dal miracolo o giustificata dall’eroismo, o millantando una magica immunità dal contagio delle funzioni religiose (e come potrebbe essere contaminante – dice qualcuno - il corpo e il sangue di Cristo!). Ma sarebbe stata un’ecatombe, peggio del Pio Albergo Trivulzio (e le storie raccontano di antiche epidemie incrementate dalle processioni penitenziali). Se poi avesse piazzato 30 persone ben distanziate nell’immensa basilica, “perché si veda gente”, avrebbe normalizzato l’assenza,  avrebbe tolto il dramma alla Pasqua, davvero avrebbe fatto una finzione mediatica solo per mandarla in televisione: né corpo, né sacramento, né popolo, ma solo un “Truman show", una “celebrazione della Messa da remoto”, come ineffabilmente pretendeva di disporre un emendamento presentato da Giorgia Meloni al decreto del governo sulle misure contro il virus.
È chiaro che c’è il pericolo di un assuefarsi a questo “stare insieme, ma non insieme”, come l’ha definito il papa, a questa comunione spirituale senza comunicare nel pane, a questa familiarità col Signore  “per me soltanto, staccata dal popolo”, quasi non fosse una Chiesa. Ma questo pericolo c’è anche per il mondo, anzi soprattutto per lui, il vivere in vitro, senza comunicazione reale, lavoratori senza compagni, fabbriche tutte robot e pochi operai, scuole senza compagni di banco, tavole senza commensali. Tutto questo ha oggi un senso, e anzi è un dovere, perché non sia tutta una Lombardia, “ma per uscire dal tunnel, non per rimanervi”. E la Chiesa non può uscire prima degli altri, lei sola, perché è la Chiesa, c’è perfino il Concordato. Occorre uscirne tutti insieme, il mondo e la Chiesa, non la Chiesa senza il mondo. Non chiese aperte e case chiuse.
Non a caso il papa ha incastonato questa riflessione a Santa Marta tra la preghiera per le donne incinte che si domandano angosciate  “in quale mondo vivrà” il loro figlio, e il pensiero della “festa”, che pur celebreremo perché  “certamente sarà un mondo diverso, ma sarà sempre un mondo che il Signore amerà tanto”.
E nel giorno di Pasqua il papa si è fatto mettere ancora in questione, e questa volta dai movimenti popolari, con cui già si era incontrato tre volte, a cui ha rivolto una lettera di conforto, ma anche di gratitudine per il loro atteggiamento indomito che, ha scritto, «mi aiuta, mi mette in questione (me questiona), e mi insegna molto». Anche per questa lettera è stato posto sotto accusa dagli “accaniti” contro di lui, per aver fatto “politica in presa diretta”. E che scandalo sarebbe? È sempre il discorso su “quale mondo” che fa Francesco; ma non è forse un discorso su “quale mondo” che faceva Gesù e per cui ha dato la vita? Un mondo fatto non solo dagli gnomi della finanza o da quanti vivono, più o meno fortunosamente, sopra il livello della povertà, ma anche dai senza tetto, dai migranti, dai poveri. Un mondo dove a lottare «dalle periferie dimenticate per creare soluzioni degne per i problemi più urgenti degli esclusi» sono i venditori ambulanti, i riciclatori, i giostrai, i piccoli agricoltori, gli operai, i sarti, quanti svolgono attività di assistenza, lavoratori informali, persone che non hanno un salario stabile per far fronte a questo momento, e per le quali le quarantene sono insostenibili. Perciò forse, scrive il papa, «è giunto il momento di pensare a un salario universale che riconosca e dia dignità» e trasformi «in realtà questa parola d’ordine tanto umana e tanto cristiana: nessun lavoratore senza diritti». Una Politica, appunto.

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