Questa Pasqua non potrà essere dimenticata. Insieme a molte altre emozioni, essa ci ha consegnato due immagini potenti, che sembrano simili, ma veicolano per contro significati assai diversi. Le due immagini sono la piazza e la basilica di san Pietro, entrambe vuote, pur celebrandovisi i riti.
La piazza san Pietro l’abbiamo vista deserta, sia la sera della preghiera solitaria del papa sul sagrato, il 27 marzo, sia il venerdì santo, sia quando nel pieno sole di mezzogiorno del lunedì dell’Angelo il papa si è affacciato a benedire senza parole, al solo suono delle campane. L’impatto di quella piazza vuota è stato fortissimo, e tuttavia non tale da suscitare desolazione e sgomento, non tale da sembrare (almeno a noi) incompatibile con la natura del luogo. La piazza san Pietro è di fatto, e forse così è stata pensata, un grande palcoscenico. È la tribuna dei grandi annunci, come quelli che comunicano il “gaudium magnum” dell’elezione di un nuovo papa; è il luogo in cui il papa eletto si materializza alla vista; è lo scenario, con il suo fondale e le sue quinte, nel quale va in scena il grande spettacolo della Chiesa di Roma, dei suoi fasti, della sua presa sul mondo e anche della sua presa del mondo, con quelle grandi braccia dell’emiciclo protese a stringere tutti, a gremirsi di una folla docile e fedele, fatta spettacolo anch’essa. Un palcoscenico vuoto non fa problema, è sempre pronto ad essere riempito, magari anche da un solo attore, da un primo attore, così come da molti protagonisti, o anche da cori e voci e presenze invisibili, come è accaduto proprio quel venerdì di marzo, quando Francesco ha esteso la vecchia e ben ponderata indulgenza a tutti quanti fossero uniti a quella piazza “anche solo col desiderio”; come pure è accaduto la sera del venerdì santo, quando la rappresentazione della Via Crucis ha trovato su quel palcoscenico la sua realizzazione perfetta, non col corredo di immagini sacre pur sempre opache al mistero, ma perché intessuta delle voci dolenti che raccontavano storie umanissime di prigionieri e guardie, assassini e vittime, colpevoli e innocenti, volontari e cappellani, preti e madri: una specie di Antologia di Spoon River, ma pasquale, non di morti ma di viventi e risorti.
Non si può dire altrettanto della visione della basilica deserta, durante la Messa del giovedì santo, durante la veglia pasquale, l’”exsultet”, la Messa senza omelia del giorno di Pasqua, il successivo tenerissimo messaggio al mondo. Questa immagine veramente era durissima a viversi. Perché le chiese si, sono fatte per riempirsi di fedeli, per fare assemblea, riunire non solo gli spiriti ma i corpi di quanti seguono un figlio di Dio che è entrato nel mondo dicendo: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”.
E lo sgomento cresceva al pensare che questa non sarebbe stata solo una condizione passeggera, ma sarebbe continuata a lungo, per quanto tempo ci fosse voluto a liberarsi dal virus o a conviverci, come dicono le voci sempre più preoccupate degli scienziati, che allontanano sempre più nel futuro la fine della crisi, e come dice la severa analisi di padre Gaël Giraud sulla Civiltà Cattolica (che abbiamo pubblicato sul nostro sito), con la previsione che a questa pandemia ne seguirà un’altra e per venirne fuori occorrerà un cambiamento dei modi di produzione, di consumo e di vita, delle relazioni sociali, del sistema sanitario e bancario, dei beni comuni e del rapporto con l’ambiente, e non solo.
Dunque, per quanto tempo sarebbero durati questi vuoti? E passi per il vuoto del palcoscenico, ma come pensare i vuoti tra una persona e l’altra, tra un corpo e gli altri corpi, la solitudine impedita di essere colmata, i travisamenti non più proibiti per legge ma obbligatori, con mascherine, rivestimenti e mute, e interdetta anche l’ora d’aria, proprio quando grazie all’improvvisa caduta dell’inquinamento le farfalle sono tornate nei giardini di Londra, e le lucciole a Milano, dove Pasolini le aveva date per perse, e il clima è stato buono a godersi, come ormai non si vedeva da tempo? E come pensare il vuoto entro cui va racchiusa ogni persona, perché ciascuno resti con il suo virus? C’è il rischio che diventi sedizioso anche il gesto cristiano per eccellenza, il gesto supremo e assoluto, quello del Samaritano, che è tutto espresso in moti del corpo: gli passò accanto, lo vide, fu preso da misericordia, gli si fece vicino, fasciò le ferite, vi versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò a una locanda, se ne prese cura. È impensabile che questo accada? Ma se già succede con i migranti che salgono in Europa, incappati in ladroni, torturatori e trafficanti, percossi e abbandonati nel mare, e lì lasciati morire perché non c’è più nessuno che va a passare accanto a loro!
Con questi vuoti o distanziamenti tra persona e persona, non prossimi gli uni agli altri, senza mani che si stringano, voci che si fondino, bocche che si bacino, carni che si uniscano, il mondo non era mai stato pensato, nessun creatore lo avrebbe fatto così, né così è stato fatto. Per un tempo e un altro tempo ancora questo è possibile, è necessario, anzi è meritevole. Ma per un tempo senza fine o di cui non sia avvistabile la fine non può sussistere un mondo così, non sarebbe più neanche un mondo. Perciò bisogna uscirne al più presto, e per farlo diventa un dovere imprescindibile, un compito politico necessario ed urgente ciò che fino ad oggi è sembrato impossibile, togliere sovranità al denaro, rovesciare la divisa del capitalismo per cui “tutto ha un prezzo, niente ha valore”, uscire dall’economia che uccide, costruire ospedali e non armi, bandire le atomiche e le guerre, desistere dallo sfruttamento selvaggio del suolo, delle foreste, del mare, dei fossili, del cielo, bandire il “prima noi”, il “salvarsi da soli”, rifondare il diritto, costruire una Costituzione mondiale, istituire organisni sovraordinati che la attuino e garantiscano nel pluralismo dei regimi politici e dei governi.
Questo dobbiamo fare perché questo vuoto tra le persone, che nessun web può colmare né lavoro “da remoto”, è il male da cui liberarci, la minaccia da sventare, il germe da estirpare prima che attecchisca, prima che con il suo artificio contamini la cultura, la politica, le relazioni sociali. E a dirci che questo può avvenire e avverrà è venuta la Pasqua, che unendo terra e cielo ha rinnovato l’antica promessa: ce la possiamo fare, se il Signore è risorto, non è la morte che può vincere, questo l’annuncio che è risuonato come non mai nel silenzio profondissimo in cui sono echeggiate queste parole.
Però c’è l’altro vuoto, quello delle chiese, che pur con tutto il suo dolore e sconcerto parla un tutt’altro linguaggio: non è solo un male a cui porre fine, ma è anche un segno potente, una pedagogia, un annuncio. Papa Francesco se ne è fatto carico, assumendolo non come il vuoto di una Chiesa dispersa, ma come la figura di chi “svuotò se stesso”, scambiando la sua forma divina con la condizione umana del servo, spogliato di tutto sulla croce. E allora come intonare il pianto sugli inabitati spazi e i marmi di san Pietro, altre volte traboccanti di folle o di vescovi riuniti a Concilio, quando del tempio di Gerusalemme Gesù aveva detto che non sarebbe rimasta pietra su pietra? Come sfidare le autorità civili pretendendo l’apertura delle chiese, quando doveva venire il tempo, ed è questo, di adorare il Padre in spirito e verità? Come non uscire dai recinti sacri per raggiungere le periferie delle genti, “in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene”, per farsi “annunciatori di vita in tempo di morte”, come ha detto il papa nella notte santa, raccogliendo l’invito del Risorto a precederlo in Galilea? E non a caso Francesco ha sottolineato che quella era la regione più lontana da Gerusalemme, “più distante dalla sacralità della Città santa”, popolata da genti diverse che praticavano vari culti, la «Galilea delle genti».
Davvero sembra che tutto il pontificato di Francesco sia stato una preparazione a interpretare quest’ora, dall’annuncio nuovo del Dio della misericordia, non geloso non violento e fedele, alla Chiesa in uscita, ospedale da campo e non servizio religioso ai combattenti, da Lampedusa a Lesbo, dal “chi sono io per giudicare” all’invito ai confessori di perdonare sempre, anche fuori della confessione sacramentale, dalla Laudato sì alla Querida Amazonia, da Abu Dhabi sulla fraternità umana alla comunione spirituale proposta ogni mattina da Santa Marta, dal concentrare tutto nel crocefisso e nel vangelo alla consolazione offerta a quanti nella Chiesa sono privi dell’Eucarestia e degli altri sacramenti, ma non per questo orfani della mano del Signore posata sopra di loro.
Molti si aspettavano la riforma della Chiesa nei modi da loro sempre pensati, e si lamentano perché non ne vedono abbastanza tracce, ma intanto non ci accorgiamo che la riforma di Francesco è ben più profonda e gravida di futuro dei nostri progetti anche più avanzati, è “capace di quella santa novità” che solo una Pasqua fino in fondo macinata e vissuta permette di concepire e generare.
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