giovedì 30 gennaio 2014

ROTTAMAZIONI IN CORSO


La nuova legge elettorale e il destino della Repubblica
di Raniero La Valle

Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi. Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
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domenica 26 gennaio 2014

Appello dei giuristi: Italicum peggio del Porcellum, fermatevi

Riforme. L’appello dei più autorevoli costituzionalisti italiani ai parlamentari. Sotto accusa premio di maggioranza, liste bloccate e sbarramento

La pro­po­sta di riforma elet­to­rale depo­si­tata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segre­ta­rio del Par­tito Demo­cra­tico Mat­teo Renzi e il lea­der di Forza Ita­lia Sil­vio Ber­lu­sconi con­si­ste sostan­zial­mente, con pochi cor­ret­tivi, in una rifor­mu­la­zione della vec­chia legge elet­to­rale – il cosid­detto “Por­cel­lum” – e pre­senta per­ciò vizi ana­lo­ghi a quelli che di que­sta hanno moti­vato la dichia­ra­zione di inco­sti­tu­zio­na­lità ad opera della recente sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale n.1 del 2014.

Que­sti vizi, afferma la sen­tenza, erano essen­zial­mente due.

Il primo con­si­steva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rap­pre­sen­tanza poli­tica deter­mi­nata, in con­tra­sto con gli arti­coli 1, 3, 48 e 67 della Costi­tu­zione, dall’enorme pre­mio di mag­gio­ranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – asse­gnato, pur in assenza di una soglia minima di suf­fragi, alla lista che avesse rag­giunto la mag­gio­ranza rela­tiva. La pro­po­sta di riforma intro­duce una soglia minima, ma sta­bi­len­dola nella misura del 35% dei votanti e attri­buendo alla lista che la rag­giunge il pre­mio del 53% dei seggi rende insop­por­ta­bil­mente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del prin­ci­pio di rap­pre­sen­tanza lamen­tata dalla Corte: il voto del 35% degli elet­tori, tra­du­cen­dosi nel 53% dei seggi, ver­rebbe infatti a valere più del dop­pio del voto del restante 65% degli elet­tori deter­mi­nando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione pro­fonda della com­po­si­zione della rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica sulla quale si fonda l’intera archi­tet­tura dell’ordinamento costi­tu­zio­nale vigente” e com­pro­met­tendo la “fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva dell’Assemblea”. Senza con­tare che, in pre­senza di tre schie­ra­menti poli­tici cia­scuno dei quali può rag­giun­gere la soglia del 35%, le ele­zioni si tra­sfor­me­reb­bero in una roulette.

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venerdì 24 gennaio 2014

Senato e Camera come enti inutili


Il regalo avvelenato della nuova legge elettorale

Raniero La Valle - Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione 

La proposta Renzi-Berlusconi comprendente la legge elettorale sottoposta ora alla Camera e la rapida abolizione del Senato, va respinta.

In via di principio va dato un segnale di irricevibilità di una proposta di assetto istituzionale ideata col concorso determinante di una personalità politica in stato di interdizione dai pubblici uffici. Sarebbe mal posta la questione moralistica del “non trattare con un condannato” o una questione d’immagine dei luoghi e delle modalità degli incontri; è invece una grave questione di ordine istituzionale il fatto che il maggiore partito italiano ed il suo segretario eludano e contraddicano la decisione cautelare della magistratura che con l’interdizione dai pubblici uffici interpreta l’interesse pubblico ad evitare che un soggetto già giudicato come dannoso possa ulteriormente nuocere alla comunità. La pena accessoria dell’interdizione non è infatti, nella ratio dell’ordinamento dello Stato di diritto, una misura vendicativa volta ad infierire sul colpevole, ma è una misura di prevenzione a beneficio della collettività perché essa non sia esposta ai rischi prevedibili provenienti dall’esercizio di funzioni pubbliche da parte di quel condannato.

Nel merito la proposta elettorale avanzata da Renzi in sintonia con Forza Italia, configurando un modello che modifica l’ordine dei fattori ma non la sostanza del “Porcellum” maggioritario, dimostra che la via di un’assicurazione della governabilità attraverso artifici elettorali ed istituzionali è ormai preclusa. Non solo essa non garantisce il risultato di una vera governabilità (data l’eterogeneità delle coalizioni cui soglie e premi di maggioranza costringono i partiti) – e dunque è priva di razionalità secondo la sentenza della Corte – ma è causa ed incentivo di sempre più gravi sconvolgimenti democratici.
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giovedì 16 gennaio 2014

SE LA CHIESA RISPONDE


di Raniero La Valle

Era stato mons. Lorenzo Baldisseri, di fresco nominato segretario del Sinodo dei vescovi, a rompere gli indugi e gli autismi curiali e a dire urbi et orbi che tutti potevano liberamente mandare testi di riflessioni e suggerimenti al Sinodo straordinario sulla famiglia, anche senza passare attraverso il canale canonico dei vescovi. Ora quel monsignore è stato fatto cardinale, segno che non ha preso una cantonata, che il papa è d’accordo con lui e che a dare la parola alla Chiesa non si è redarguiti ma si è promossi.  
Del resto c’è una coerenza: che senso avrebbe l’insistenza di papa Francesco sulle periferie, se il rapporto della Chiesa con le periferie fosse un rapporto discendente, paternalistico, di una Chiesa che scende dalle pedane e dai pulpiti per andare a ispezionare le periferie, e non invece un rapporto per cui la Chiesa riconosce tutta se stessa come periferia, e ascolta, e perciò dà la parola, alle periferie?

Il riconoscimento delle Comunità di base

Negli stessi giorni in cui le periferie erano chiamate a dire la loro sulla pastorale (ma anche sulla teologia) delle famiglie, il papa mandava un messaggio alle Comunità di base del Brasile riunite per il loro XIII incontro interecclesiale nello Stato del Cearà, richiamando la legittimazione data a tali Comunità dall’assemblea episcopale di Aparecida e riproponendo loro il dovere della evangelizzazione; e siccome questo è il “dovere di tutta la Chiesa e di tutto il popolo di Dio”, per il papa ciò equivaleva a dire che le Comunità di base, a differenza di ciò che si è ritenuto altrove, sono parte integrante e legittima della Chiesa.
Dunque questa è una Chiesa in movimento, cui la riforma in corso del papato sta dando nuova vita; farà pure degli errori, ma questo è il prezzo di ogni riforma, tanto che il papa ha detto ai giovani in Brasile di fare confusione, chiasso, “casino”, e nella “Evangelii Gaudium” ha scritto di preferire “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per le chiusure e le comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.
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domenica 5 gennaio 2014

Due risposte per il Sinodo dei Vescovi


I testi che qui pubblichiamo sono le risposte che la scuola di ricerca e critica delle antropologie, “Vasti”, che è stata attiva a Roma nell’ultimo decennio, ha inviato in data 29 dicembre 2013 alla segreteria del Sinodo dei Vescovi, in riscontro al questionario sulla famiglia inviato dallo stesso Sinodo a tutta la Chiesa. Le risposte vertono su due temi cruciali che saranno oggetto della discussione del prossimo Sinodo straordinario, previsto per l’ottobre prossimo. Il primo tema riguarda il rapporto tra legge naturale, legge positiva e Vangelo, e il secondo affronta la questione dei sacramenti ai divorziati risposati. Le risposte sono state elaborate con la collaborazione del prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo del diritto, e del prof. don Giovanni Cereti, teologo e studioso della Chiesa primitiva, in seguito alla consultazione che su questi temi è stata promossa da papa Francesco sia tra i cattolici che tra i non credenti.
                   
A - DIRITTO NATURALE, DIRITTO COSTITUZIONALE E FAMIGLIA
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei vescovi:
2 - Sul matrimonio secondo la legge naturale
a) Quale posto occupa il concetto di legge naturale nella cultura civile, sia a livello istituzionale, educativo e accademico, sia a livello popolare? Quali visioni dell’antropologia sono sottese a questo dibattito sul fondamento naturale della famiglia?
b) Il concetto di legge naturale in relazione all’unione tra l’uomo e la donna è comunemente accettato in quanto tale da parte dei battezzati in generale?
c) Come viene contestata nella prassi e nella teoria la legge naturale sull’unione tra l’uomo e la donna in vista della formazione di una famiglia? Come viene proposta e approfondita negli organismi civili ed ecclesiali?
d) Se richiedono la celebrazione del matrimonio battezzati non praticanti o che si dichiarino non credenti, come affrontare le sfide pastorali che ne conseguono?
Risposta alle domande 2a 2b 2c 2d.
La questione della legge naturale - o diritto naturale – è una delle questioni più gravi e decisive che la Chiesa si trova davanti se vuole rispondere alla necessità, affermata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II e dal Concilio stesso, di enunciare i contenuti perenni della fede nei modi che la nostra età esige (ea ratione quam tempora postulant nostra), cioè secondo “le forme della indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.
Riguardo alla questione cruciale del diritto e del rapporto tra legge e Vangelo, questa esigenza non può risolversi in un “aggiornamento” di pura cosmesi.
Ora la formula “legge naturale” (o diritto naturale) ha presso gli uomini e la cultura di oggi un significato diverso da quello che essa aveva presso gli antichi, e quindi un dialogo della Chiesa con l’età moderna che utilizzi questa formula è destinato alla più radicale incomprensione reciproca.

I limiti del giusnaturalismo

Il diritto naturale appartiene a una prima fase della storia del diritto quando, mancando una legislazione fornita di autorità e comunemente riconosciuta, il criterio di riconoscimento di ciò che fosse diritto stava in ciò che gli uomini stessi sentissero come giusto e corrispondesse a una verità o razionalità derivanti da un ordine di natura. È questa l’esperienza del nomos greco, del diritto romano e poi del diritto comune.
In questa esperienza millenaria diritto e morale finivano per coincidere, e le norme erano dedotte da un ordine esterno al diritto, supposto come oggettivo e come vero (“naturale”, appunto) e quindi, come tale, acquisibile alla conoscenza.
Di fatto però questa fase del diritto era aperta alle più gravi ingiustizie per l’arbitrarietà e il relativismo con cui la presunta giustizia era interpretata e nei più diversi modi applicata.
Inoltre, in un contesto culturale in cui la diseguaglianza, il diritto del più forte, la superiorità dell’uomo sulla donna erano considerati normali e secondo natura, la legge naturale ha potuto essere usata come fonte di legittimazione e consacrazione di un diritto positivo che si andava costruendo in modo da riprodurre e perpetuare rapporti di diseguaglianza, di discriminazione tra le persone e di sottomissione della donna; nei confronti di questa, in particolare, per secoli il diritto positivo ha assunto una posizione di netto sfavore, non senza il supporto di riferimenti culturali, morali e biblici, trasfusi in una legge naturale oggettivizzata e assolutizzata; pericolo che non è venuto meno neanche oggi. 

I limiti del giuspositivismo

La seconda fase è quella del diritto positivo, per il quale è diritto non ciò che di volta in volta è considerato giusto (secondo l’opinione di Gaio piuttosto che secondo quella di Ulpiano e così via), ma ciò che è sancito da un’autorità legittima ed ha certezza e validità per tutti. Qui a prevalere in ciò che istituisce la legge non è un principio astratto e inafferrabile di “verità” o di giustizia, ma l’autorità del legislatore (“Auctoritas non veritas facit legem”, secondo la massima di Hobbes). È questa l’esperienza di tutti gli Stati moderni di diritto.
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venerdì 3 gennaio 2014

L’UMANO NON È SOLO NATURA

Le risposte al Sinodo dei vescovi
 di Raniero La Valle 
Tra le 38 domande che il papa ha fatto rivolgere ai vescovi e a tutta la Chiesa in preparazione del Sinodo straordinario sulla famiglia, ce ne sono alcune che fanno riferimento alla “legge naturale”, dando per scontato che il matrimonio sia un istituto di diritto naturale e che a questo diritto di natura  corrisponda un solo modello di matrimonio, tra i molti storicamente esistenti, cioè il matrimonio monogamico indissolubile tra un uomo e una donna, assurto per i battezzati alla dignità di sacramento.
Basta questo per dire come la Chiesa di Bergoglio si stia per affacciare sul mare aperto, ponendo all’ordine del giorno la questione antropologica fondamentale, su cui si gioca il futuro dell’età moderna, il problema cioè di “che cos’è umano”. È una questione che va al di là di quella della famiglia, e riguarda tutta la vita dell’uomo sulla terra. La posta è molto alta. Per dire che cos’è l’uomo non basta infatti chiedersi ciò che già e fin dall’inizio è iscritto nella sua natura; per sapere oggi che cos’è umano si deve interrogare la cultura che l’uomo ha aggiunto alla natura,  la storia in cui egli è cresciuto,  il diritto positivo con cui  ha incivilito il vecchio stato selvaggio, e la grazia con cui Dio ha messo il divino nell’umano, facendo dell’uomo una “nuova creatura”. È umano non solo ciò che lo è per natura, ma ciò che è umano per cultura e per grazia.
Se questa seconda tesi è vera, è chiaro che la domanda antropologica interpella la fede. Perché se bastasse la “legge naturale” e questa fosse una legge “promulgata dalla ragione” grazie alla “partecipazione della creatura razionale alla legge eterna di Dio” e come tale fosse accessibile a tutti e capace di fondare “un’etica universale”, come spiegava nel 2007 Benedetto XVI alla Commissione teologica internazionale, non ci sarebbe bisogno d’altro, né di cultura, né di diritto positivo, e nemmeno sarebbe stato necessario che Dio si facesse uomo, e ne venisse fuori il Vangelo. E agli uomini si potrebbe dire: avete il diritto naturale? Ebbene, salvatevi con quello.
Senonchè la Chiesa è oggi impegnata proprio a raccontare la fede, e non al solito modo, come stava scritto nei vecchi libri penitenziali o negli editti costantiniani, ma “in quel modo che la nostra età esige”, come aveva deciso di fare il Concilio secondo il mandato conferitogli da papa Giovanni; e come il Concilio fece ben più di quanto dopo si sia voluto ammettere.. Ed ora è proprio questo che il nuovo papa ha ricominciato a fare: come ha detto nell’intervista programmatica alla “Civiltà cattolica”, pubblicata il 19 settembre, “il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta”; e al di là delle controversie ermeneutiche su “continuità” e “discontinuità”, questa “dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi è assolutamente irreversibile”. E infatti oggi si prega in modo diverso, con parole diverse, con rapporti di comunione diversi.
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