Il regalo avvelenato della nuova legge
elettorale
Raniero La Valle - Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione
In via di
principio va dato un segnale di irricevibilità di una proposta di assetto
istituzionale ideata col concorso determinante di una personalità politica in
stato di interdizione dai pubblici uffici. Sarebbe mal posta la questione
moralistica del “non trattare con un condannato” o una questione d’immagine dei
luoghi e delle modalità degli incontri; è invece una grave questione di ordine
istituzionale il fatto che il maggiore partito italiano ed il suo segretario
eludano e contraddicano la decisione cautelare della magistratura che con
l’interdizione dai pubblici uffici interpreta l’interesse pubblico ad evitare
che un soggetto già giudicato come dannoso possa ulteriormente nuocere alla
comunità. La pena accessoria dell’interdizione non è infatti, nella ratio dell’ordinamento dello Stato di
diritto, una misura vendicativa volta ad infierire sul colpevole, ma è una
misura di prevenzione a beneficio della collettività perché essa non sia
esposta ai rischi prevedibili provenienti dall’esercizio di funzioni pubbliche da
parte di quel condannato.
Nel merito la
proposta elettorale avanzata da Renzi in sintonia con Forza Italia,
configurando un modello che modifica l’ordine dei fattori ma non la sostanza del
“Porcellum” maggioritario, dimostra che la via di un’assicurazione della
governabilità attraverso artifici elettorali ed istituzionali è ormai preclusa.
Non solo essa non garantisce il risultato di una vera governabilità (data
l’eterogeneità delle coalizioni cui soglie e premi di maggioranza costringono i
partiti) – e dunque è priva di razionalità secondo la sentenza della Corte – ma
è causa ed incentivo di sempre più gravi sconvolgimenti democratici.
Se non si
esce da quella logica non si potrà che mercanteggiare, in infinite variazioni, quanto
debbano essere piccoli i piccoli partiti per essere esclusi dal Parlamento e
dal voto, quanto debbano essere grandi i grandi partiti per meritare il premio
di maggioranza, quanto debba essere bassa la soglia di accesso alla
ripartizione dei seggi se si fa parte di una coalizione e quanto debba essere
alta se invece non se ne fa parte, come debbano essere architettati gli
sbarramenti per ripescare le minoranze o i partiti locali, per discriminare tra
partiti e movimenti, per far passare la trave e filtrare il moscerino. E ciò
naturalmente secondo l’unico criterio dell’interesse di quanti hanno di volta
in volta forza contrattuale nel negoziato.
Si può avere
una prova delle ricadute negative di questi esercizi di alchimia elettorale,
nel fatto che oggi la riforma elettorale è presentata in un pacchetto, insieme
all’abolizione del Senato e alla riforma del titolo quinto della Costituzione. La
questione del bicameralismo è senza dubbio molto seria, e l’idea di un suo
superamento ha fatto negli ultimi anni molti proseliti. Però essa con la
riforma della legge elettorale non ha nulla a che fare; certo, se si abolisce
il Senato non si deve neanche eleggerlo, ma questa non è una riforma
elettorale, è il passaggio a un altro ordinamento. Tanto è vero che le due cose
non sono connesse, che la legge elettorale si deve fare subito, mentre per il
Senato si devono aspettare i tempi costituzionalmente necessari alla riforma;
dunque in ogni caso nella legge elettorale il Senato viene oggi preso così
com’è. Allora sarebbe più serio discutere dell’abbandono del Senato come
problema in sé, senza la ridicola motivazione del risparmio, perché se si
tratta di risparmiare il discorso varrebbe anche per la Camera, e avrebbe
ragione Berlusconi quando propone di ridurre la Camera alla riunione dei sei o
sette capigruppo. Può darsi che il bicameralismo sia diventato troppo lento,
però non lo si può liquidare come un ping-pong, e bisognerebbe almeno chiedersi
quale posto esso ha nella tradizione democratica e perché i Costituenti del ‘47
lo hanno introdotto, non certo per rinverdire il Senato regio, ma per dare
maggiori garanzie di libertà e di diritti, e puntare su una legislazione più
controllata e lungimirante, cosa che in molte occasioni il Senato della
Repubblica è effettivamente riuscito a fare.
Se non si
discute nel merito, assumere come se fosse un’idea ormai di senso comune che il
Senato sia un ente inutile, fa nascere il sospetto che la vera idea sia che il
Parlamento è inutile, e intanto almeno se ne abolisce la metà.
Altrettanto
sconcertante è la coazione a ripetere per cui oggi viene presentata come un
meraviglioso risultato di efficienza una proposta di legge elettorale che
riproduce esattamente tutti i vizi di incostituzionalità denunciati dalla
sentenza della Corte, e quindi tende consapevolmente a instaurare sul terreno
vitale dei diritti politici un diritto illegittimo. Basta pensare ai due
differenti quozienti elettorali, che esprimono il rapporto voti-seggi, uno dei
quali è definito “quoziente di maggioranza”, l’altro “quoziente di minoranza”
con la conclamata violazione del principio costituzionale dell’eguaglianza del
voto; basta pensare alla sproporzione tra la soglia del 35 per cento dei voti richiesta
per accedere al premio di maggioranza, e il tetto del 53 per cento dei seggi
fissato per legge sia alla Camera che al Senato; tutto ciò integra quel vizio
denunciato dalla Corte Costituzionale di “una compressione della funzione
rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e
tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della
rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura
dell’ordinamento costituzionale vigente”.
L’insegnamento
che si può trarre da questa vicenda è che occorre del tutto cambiare discorso.
Espedienti migliori di quelli che oggi sono proposti per mettere insieme urne e
governabilità si possono certo trovare; ma per arrestare decisamente
l’inquinamento del sistema, meglio è ricollocare nel suo giusto ambito la
questione della governabilità, che non è tecnica ma politica, e restituire alla
politica, non alle acrobazie elettorali, il compito di assicurare stabilità ai
governi del Paese.
Questo vuol
dire restituire alle urne il vero e primario compito di esprimere la
rappresentanza, ciò che non conosce strumento migliore che un’elezione col
sistema proporzionale, senza premi di maggioranza e sbarramenti innaturali che sommandosi
insieme devastano il Parlamento trasformando le elezioni in una successione
ereditaria, e addirittura per nomina, dalle vecchie alle nuove nomenclature
degli stessi partiti già insediati nel sistema.
Il compito
della governabilità deve ricadere sulla politica, e in particolare sui partiti
che a ciò sono deputati dalla Costituzione. Ai partiti deve pertanto essere
restituito il ruolo loro attribuito dall’art. 49 della Carta che li ha
individuati come gli strumenti attraverso cui, con metodo democratico, i
cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale. Se essi non
esercitano più questo ruolo, se sono rottamati o liquidati nella pubblica
opinione, e non sono sostituiti da altri strumenti, non c’è più alcun concorso
dei cittadini alla determinazione della politica nazionale; l’unica facoltà dei
cittadini resta quella di eleggere dei rappresentanti, a cui è delegato tutto
il potere, ma allora in questo caso è ancora più importante che la rappresentanza
del popolo in Parlamento sia autentica, e non artefatta e infedele grazie a
truffe elettorali.
Spostare
l’accento dalla governabilità per via di artifici elettorali alla governabilità
per via politica, significa aprire una fase di ricostruzione e rivalutazione
dei partiti. Essi sono oggi giustamente in crisi, anche perché non sono stati
assistiti da una legislazione che ne esaltasse il ruolo e ne garantisse
l’integrità. A questa legislazione è ora necessario mettere mano, mediante
riforme che forniscano ai partiti un vero statuto di diritto, ne garantiscano
la democrazia interna e il “modus operandi” democratico, ne assicurino la
trasparenza, li rendano responsabili in sede civile e penale e ne promuovano l’efficacia.
Non per
tornare a fare dei partiti il nuovo “Principe”, ma per restituire ai cittadini
la vera possibilità di essere sovrani.
Si deve
infine rilevare il rischio politico comportato dalla legge elettorale
concordata tra Berlusconi e Renzi. La soglia premiale del 35 per cento è così
bassa da permettere fin dal primo turno quella instaurazione del regime
berlusconiano che inutilmente è stato perseguito per vent’anni. Di fatto
Berlusconi ha accettato il secondo turno perché conta di vincere al primo; e
nella diaspora del Partito Democratico, che sotto la direzione di Renzi vede compromesso
l’intento originario di una integrazione tra le ex culture democristiana e
comunista, questo risultato diviene possibile. Il Partito Democratico, fallito
il progetto antideologico del bipolarismo in cui aveva creduto, rischia di non
sopravvivergli. Esso però potrebbe recuperare un suo ruolo nella storia della
democrazia del nostro Paese se si proponesse al suo elettorato come una forza
in grado di fronteggiare la vera sfida ideologica che oggi è in atto: quella che viene dai nuovi
poteri economici e finanziari ascesi
grazie alla diserzione della politica e lasciati liberi di perseguire i loro obiettivi
antisociali dalla debolezza della democrazia e dalla mancanza di forze in grado
di contrastarli sul piano politico.
Presidente
dei Comitati Dossetti per
la Costituzione
Salve.
RispondiEliminaCondivido la diagnosi ma non la terapia.
Non sono un grillino sfegatato, ma a fronte di questi inciuciari anche il più sprovveduto dei grillini diventa un gigante. E poiché la politica richiede anzitutto realismo, mi sa che questi faranno il bastardellum, con qualche variante di poco conto, e noi non potremo impedirglielo.
Ma potremo ben portare il 35% dei voti al M5S. Così incomincerà davvero la cura dimagrante per tutti. Poi chi vivrà vedrà e deciderà.