martedì 12 ottobre 2021

INVECE DEL MURO

 L’assalto vandalico alla sede della CGIL e la sfida della piazza fin sulla soglia dei palazzi del potere sono un campanello d’allarme e dicono che una società non può a lungo essere esposta all’eclissi della politica, all’irruenza di forze politiche sovraniste, a superficiali unanimismi di governo senza cadere nell’anarchismo e rischiare il fascismo. La politica non è pura tecnica, il cui unico requisito sia la competenza, come presume Calenda lamentandosi per la sua sconfitta romana, ma anche sentimento e visione come gli hanno giustamente spiegato le sardine. Se si fosse riconosciuta questa qualità più alta della politica, il governo non avrebbe ignorato che la vaccinazione universale obbligatoria non è un problema di efficienza ma un problema di solidarietà e di consenso e la polizia si sarebbe accorta che una folla arrabbiata di manifestanti non si muove da una piazza del Popolo gremita verso Porta Pinciana per una passeggiata a Villa Borghese ma per portare la protesta fino al santuario del mitico sindacato della sinistra.

Mentre accadevano tali cose altri eventi cruciali ci mettevano di fronte due proposte alternative per il futuro del mondo. La prima, formulata dalla Grecia e altri undici Paesi schierati sul confine orientale dell’Europa, è quella di chiuderne le frontiere, alzarvi muri e fili spinati e farne un’aggregazione di Stati confliggenti tra loro e con gli altri, l’altra è quella avanzata davanti al Colosseo il 7 ottobre nell’incontro tra le diverse fedi religiose e poi nel Sinodo cattolico inauguratosi sabato ed è quella di “religioni sorelle e popoli fratelli” per fare un mondo unito e prendersene cura: un mondo, non lo dimentichiamo, condannato a una prematura apocalisse se la crisi ecologica non sarà rovesciata e devastato ora da un virus che solo in poche aree più ricche è arginato dai vaccini.
Atene e Roma è il vecchio binomio che eravamo abituati a identificare con le radici dell’Europa e a considerare come grembo di culture universali. Quella universalità non ha retto alla prova della storia, i simboli si sono rovesciati. A Roma il Colosseo (citazione di papa Francesco) fu “luogo di brutali divertimenti di massa, messa in scena di uno spettacolo fratricida, di un gioco mortale fatto con la vita di molti”, cosa che continua ancor oggi nella successione di guerre e violenze; il “Dio ignoto” predicato sull’acropoli di Atene per unificare le genti ha dato luogo invece a una Chiesa che ha interpretato la missione come proselitismo e si è concepita come unica via di salvezza; e l’universalità del nomos dell’Occidente è stata pensata e gestita come superiorità su tutte le culture e come dominio sugli altri popoli.
L’Europa, che pur ha molto da farsi perdonare dalla Grecia, a cui non molti anni fa ha imposto in nome del danaro pesi inammissibili, giustamente ha ora rifiutato la sua proposta protezionista volta a respingere i migranti e a isolarla dal mondo; ma ciò vuol dire che bisogna inventarsi una politica alternativa, ridefinire in termini positivi la proposta dell’unità e dell’universalismo. La formula dell’Imam Ali ibn Abi Talib, genero di Maometto, rilanciata dal papa a Roma: “Le persone sono di due tipi: o tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità” è adeguata. Ciò vuol dire unità nel pluralismo, riconoscendosi fratelli “ciascuno con la propria identità religiosa”, come ha ribadito il papa nell’incontro al Colosseo; ma vuol dire anche non fare di questa identità un’esclusiva, e fare i conti con l’idea teologica di “elezione”, un solo Dio, un solo popolo, una sola terra, una sola legge, una sola fede. Una lettura fondamentalista di questa idea è stata la malattia infantile del monoteismo, un’infanzia peraltro durata fino ad ora, che per la Chiesa ha preso le forme della cristianità, che voleva dire incorporarsi il mondo, e che secondo lo storico Heer si è risolta nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. Come ha ricordato il papa al popolo della sua diocesi romana, sono stati i profeti stessi di Israele che hanno corretto il concetto di elezione, che non discrimina in nome di Dio, che non può essere imprigionato nell’idea di una esclusività, di un privilegio, ma deve essere un dono che qualcuno riceve per tutti, un dono per cui la salvezza di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità. Novità di interpretazione che nel cristianesimo è stata promossa da Paolo, ciò di cui gli ebrei si risentono, come ha mostrato la recente polemica dei rabbini, ma che l’ebreo Jacob Taubes gli ha riconosciuto come merito: Paolo è infatti l’antitesi dell’idea di selezione che riserva a pochi la realizzazione dell’umano e che nella modernità sarà teorizzata da Nieztsche; per Paolo, dice Taubes, il non-uomo diventa uomo, il non-popolo diventa popolo, la debolezza diventa forza. Ed è su questa linea che papa Francesco vuole mettere la Chiesa, non per fare un’altra Chiesa, come diceva Congar, ma “una Chiesa diversa”, non più la Chiesa dei grandi numeri (la Sala Nervi, detta aula Paolo VI, fu costruita perché san Pietro sembrava troppo piccola), non la missione come proselitismo e nemmeno la conventicola del 3, 4 o 5 per cento che frequenta e la pensa allo stesso modo, ma una Chiesa aperta che serve tutti, cammina insieme a tutti, “coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà”: e qui il vero sinodo, che significa appunto camminare insieme, sembra andare oltre l’ambito religioso, e proporsi piuttosto come quello dei popoli verso il diritto la giustizia e la pace.

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