di Raniero La Valle
Questo articolo uscirà sul prossimo n. 6 di “Presbyteri”, rivista di spiritualità pastorale, dedicato al tema: “In una economia di possesso, la rivoluzione del dono”.
Non solo sempre più poveri busseranno alla tua porta, ma a sempre più poveri sarà impedito perfino di arrivare alla tua porta, di bussare, di chiedere asilo politico. I poveri sono fatti morire in mare, purché non arrivino sulle coste smeralde dell’Europa, non sbarchino, non si disperdano tra tutti i Paesi e le città europee, non si integrino con gli altri poveri e con i molti ricchi. Il ministro Maroni li fa intercettare nel Mediterraneo, le navi della Marina militare fanno finta di salvarli, loro vengono da giorni di navigazione e di paura, non hanno con sé nemmeno le valige di cartone con cui i nostri emigranti andavano in America o in Australia, hanno solo quello che hanno indosso, cioè niente, sono esseri umani spauriti e in fuga, donne incinte, bambini; ma le navi che dovrebbero salvarli li rigettano negli inferni da cui sono venuti, “ordine infame” è definito dagli stessi marinai quello che devono eseguire. Il ministro si gloria, la Lega aumenta i suoi voti al Nord, il decreto sicurezza toglie agli stranieri senza permesso ogni diritto umano, non possono nemmeno nascere, se non apolidi e clandestini, non possono farsi curare e partorire in ospedale, dalla scuola vengono respinti (si fa eccezione per i bambini, perché almeno questo è impopolare) non possono affittare una casa; talvolta, in qualche città del Nord, non possono nemmeno sedersi sulle panchine (si fa eccezione per gli ultrasettantenni, perché vietarlo anche ai vecchi sarebbe impopolare). L’Europa, con il trattato di Dublino e le direttive comunitarie, dice che ogni Paese in cui gli emigranti sbarcano – cioè quelli sul mare, Italia, Grecia, Cipro, Malta – se la deve cavare da solo, gli altri non c’entrano; né c’è modo per i migranti di entrare direttamente negli altri Paesi europei, perché ai vettori è proibito imbarcarli sulle navi e sugli aerei, se non hanno il visto d’ingresso dei Paesi di destinazione. L’Europa non è più una città aperta sul mare, è una fortezza sigillata; così ci illudiamo di salvare quel poco che abbiamo delle nostre sicurezze e del nostro benessere. E non ci sono solo i migranti; secondo la competente agenzia delle Nazioni Unite i profughi nel mondo nel 2007 erano 37,4 milioni; nel 2050 si potrebbe arrivare a 200 milioni di esuli. A quali porte potranno bussare?
Dunque c’è anche proibito di dare il dono della nostra accoglienza e della nostra ospitalità. Se lo facciamo, commettiamo un reato, ti possono prendere la casa. Inutilmente dice il Siracide che l’elemosina espia i peccati, come l’acqua spegne un fuoco acceso. L’elemosina non basta, e nemmeno è permessa.
Come la crisi del ‘29
Il peccato, se c’è, è strutturale, come la Chiesa ha imparato a dire a partire da Medellin e dalla teologia della liberazione in poi. C’è una questione economica globale. E c’è una crisi che investe ogni economia. Parlandone a Verona, il 16 aprile scorso, il segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, mons. Crepaldi, ha sentito il bisogno di citare addirittura l’enciclica Quadragesimo Anno che Pio XI scrisse nel 1931, in piena depressione economica seguita alla famosa crisi del 1929. Pio XI spiegava che si era costituita una “dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”. Secondo Pio XI ciò aveva distrutto lo stesso mercato, a cui era “subentrata la egemonia economica, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui la patria è dove si sta bene”. Tre erano, secondo quel Papa, i motivi della crisi: il primo, la bramosia dei facili guadagni sicché costoro “con la sfrenata speculazione fanno salire ed abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro”, il secondo, le leggi a favore del capitale che “ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza”, sicché “sotto la coperta difesa di una società che chiamano ‘anonima’ si commettono le peggiori ingiustizie e frodi”; il terzo, “una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna”.
“Una lettura molto istruttiva anche per noi”, ha detto mons. Crepaldi. Ma è legittimo paragonare la crisi attuale con quella del ’29? Lo è. Ha detto Allen Sinai, uno dei maggiori economisti di Wall Street: “Guardiamo alla realtà di oggi. La crisi è così immensa, così grave, così simile a quella degli anni ’30, che non escludo che si stia andando incontro a una nuova grande depressione. Non è detto che vada a finire così, ma le possibilità crescono ogni giorno. Tutti gli indicatori sono in caduta verticale: posti di lavoro, redditi personali, produzione industriale, prezzi delle materie prime. E Borse, inevitabilmente. Oggi i mercati si trovano brutalmente davanti a questo rischio. E forse è qualcosa di più di un rischio”.
La novità è che in America quella che è andata in crisi è proprio la “middle class”, il ceto medio che è il vero depositario del “sogno americano”. Senza questo non si sarebbe verificato il miracolo della vittoria di Obama, che oggi si presenta al mondo (soprattutto dopo il discorso del 4 giugno al Cairo) come la nuova voce profetica di questo inizio di millennio. Ma la crisi non investe solo l’America. Anche le nuove economie, che erano in ascesa, sono in affanno. L’una o l’altra delle “tigri asiatiche” forse diventerà solo una lince, o forse un gatto, che sono felini assai meno prestanti. Una volta, agli investitori occidentali che non sapevano dove mettere il loro denaro, si diceva di andare in Asia, di investire a Mumbay, a Shangai o a Dubai. Oggi non lo si dice più.
La sofferenza, la fame, le malattie, la miseria dell’Africa, del III e del IV mondo, non si sono arrestate, almeno 10 milioni di bambini all’anno muoiono di fame e di malattie curabilissime, ma nessuno ne parla più perché ormai tutti si occupano della crisi economica e finanziaria del I mondo e dell’Occidente L’ultimo rapporto della FAO che sommessamente si intitola: “Lo stato della insicurezza alimentare nel mondo nel 2008” in realtà è il grido di una tragedia: i curvati dalla fame nel mondo sono 963 milioni, 40 milioni in più del 2007 e 115 milioni in più del triennio 2003-2005. questo vuol dire che lungi dal ridursi alla metà, come era stato promesso dai vertici della FAO per il 2015, essa di anno in anno aumenta; negli ultimi anni anzi si è avuto un peggioramento strutturale della situazione, perché c’è stato un aumento del prezzo dei generi alimentari e delle sementi. Solo nella regione dell’America Latina e dei Caraibi che nel 2007 aveva registrato i maggiori passi avanti nella riduzione della fame prima dell’impennata dei prezzi alimentari, il numero degli affamati è salito a 51 milioni. Nel Vicino Oriente e nel Nord Africa il numero dei sottonutriti è salito dai 15 milioni del biennio 1990-92 a 37 milioni nel 2007. Nella geografia della fame l’Africa subsahariana è al primo posto, con 236 milioni di persone senza cibo, seguita dall’Asia-Pacifico (156 milioni) e dalla Cina (142 milioni). Secondo la FAO la crisi ha colpito soprattutto i più poveri, i senza terra e i nuclei familiari con donne capofamiglia. E la crisi c’è anche in Italia, dove i poveri sono legione, il lavoro se ne va e il PIL diminuisce, anche se solo per il governo essa non esiste e l’Italia sta benissimo, le banche sono in fiore.
In questa spaccatura dell’umanità tra ricchi e poveri si inseriscono elementi paradossali che sono messi in luce da una Nota del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace, approvata dalla Segreteria di Stato in vista della conferenza di Doha sul finanziamento allo sviluppo, tenutasi dal 29 novembre al 2 dicembre dell’anno scorso. Il primo paradosso sta nel fatto che nell’attuale sistema globale “sono i paesi poveri a finanziare i paesi ricchi che ricevono risorse provenienti sia dalle fughe di capitale privato, sia dalle decisioni governative di accantonare riserve ufficiali sotto forma di attività finanziarie ‘sicure’ collocate nei mercati finanziariamente evoluti o nei mercati offshore”. Il secondo sta nel fatto che “le rimesse degli emigrati comportano un afflusso di risorse che a livello macro superano largamente i flussi di aiuto pubblico allo sviluppo. È come dire che i poveri del Sud finanziano i ricchi del Nord e gli stessi poveri del Sud devono emigrare e lavorare al Nord per sostenere le loro famiglie al Sud”. Secondo questo rapporto della Santa Sede la crisi finanziaria in atto “è l’esito di una prassi quotidiana che aveva il suo caposaldo nell’assoluta priorità del capitale rispetto al lavoro – incluso il lavoro alienato degli stessi operatori finanziari (ore di lavoro lunghissime e stressanti, orizzonte temporale di riferimento per le decisioni cortissimo)”. In tal modo sui mercati finanziari di ogni tipo si è dispiegata “una trama di pratiche economiche e finanziarie dissennate: fughe di capitali di proporzioni gigantesche, flussi ‘legali’ motivati da obiettivi di evasione fiscale e incanalati anche attraverso la sovra/sottofatturazione dei flussi commerciali internazionali, riciclaggio dei proventi di attività illegali”. E ora, “con la crisi, è venuta meno la fiducia fideistica riposta nel mercato, inteso come meccanismo capace di autoregolarsi e di generare sviluppo per tutti”.
Tutto il potere al Mercato
Sotto accusa c’è dunque il mercato. Allora il mercato è cattivo? No, ma è cattiva la sua raggiunta, pretesa onnipotenza. Non eravamo abituati a considerarlo come un Potere. La storia dell’Occidente, dall’XI secolo in poi, è stata tutta intessuta del conflitto tra Chiesa e Stato, nel tentativo, sempre fallito per ambedue, di appropriarsi in modo esclusivo del monopolio del potere. Ora c’è un libro di Paolo Prodi (terzo di una trilogia di cui già ci siamo occupati su Presbyteri a proposito del secondo, “Una storia della giustizia”) che introduce in questa storia l’insorgere di un altro potere, il Mercato, non il minore in questa gara. In questo libro (“Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”[1]) si mostra come il Mercato si sia fatto spazio tra i due, lo Stato e la Chiesa, fino a giungere all’attuale supremazia, sopravanzando l’uno e l’altra. Il Mercato esclude tutto ciò che non è oggetto di scambio, e non dà valore alle cose se non attraverso lo scambio; perciò il furto, appropriazione senza scambio, ne è la specifica violazione (condannato dalla Chiesa come peccato, dal Mercato come colpa, dal diritto positivo come reato) e la gratuità ne è esclusa.
Niente di male, se il mercato non è tutto. Il problema è che via via si sono incluse nella logica dello scambio, del do ut des, del mercato, aree della vita e della realtà umana che con il mercato non hanno nulla a che fare (il simbolo estremo ne è la simonia, ma anche la prostituzione). Secondo Carl Schmitt il dividere, l’appropriarsi, il produrre, che sono le funzioni tipiche del mercato, sono alla radice stessa del nomos dell’Occidente (“nomos” viene dal verbo “nemein”, spartire, dividere), cioè della sua civiltà. L’universale pervasività del Mercato è un fenomeno tuttavia relativamente recente, non sempre esso ha invaso tutta la realtà e tutta la vita. Il mercato stava in una parte del villaggio, della città; si andava al mercato. Uno nasceva fuori del mercato, viveva, acquisiva talenti, coltivava il suo campo, lavorava e prendeva un salario e poi, con quello che aveva, andava al mercato a scambiarlo con altre cose di cui aveva bisogno e che altri vi avevano portato. Le risorse si formavano fuori del mercato e si scambiavano nel mercato. E nel mercato si scambiavano le merci, ma si incontravano le persone, si incrociavano le parole, si manifestavano sentimenti. Ancora oggi quello che resta delle vecchie campagne elettorali persona a persona, si fa nei mercati. Le donne avevano una grande parte nel mercato. Si potrebbe dire che nella maggior parte delle società il mercato era soprattutto femminile. Marianella, la giovane donna martire dei diritti umani, con mons. Romero, nel Salvador, aveva cominciato la sua rivoluzione per i diritti, contro le oligarchie e i poteri dittatoriali del suo Paese, “coscientizzando” e organizzando le donne dei mercati.
Ora invece succede che il mercato è tutto, e fuori del mercato non c’è nulla, e le persone non ci sono più. Di conseguenza tutto è merce. Il denaro stesso, che serviva a scambiare le merci, è diventato una merce, la merce superiore a tutte le altre merci, con cui si guadagna di più. Perciò si è smesso di investire nella produzione, e si sono investiti tutti i denari nel denaro e in quelle volatili tracce elettroniche che sui computer rappresentano il denaro. Così è venuta la bolla speculativa, così l’economia ha preso le distanze dalle cose, dalla vita reale; e anche da quelle cose che ingiustamente erano considerate merci, a cominciare dal lavoro. Ridotto il lavoro a merce, e la merce a denaro, il Mercato si è mangiato tutto, e ora che il Mercato è entrato in crisi, trascina tutto con sé nella crisi.
La gratuità è un’alternativa?
Tuttavia il Mercato non ha rinunciato alla sua onnipotenza, anche nel momento della sua massima debolezza. Può la gratuità essere un’alternativa? Possiamo parlare di un’economia del dono? Se nell’economia piantiamo il pungolo della gratuità certamente vi apriamo una contraddizione, ma non riusciamo a costruire un’altra economia. La gratuità è il principio di un altro ordine, che non è quello economico; un ordine che sta tra il già e il non ancora. Non a caso i Padri della Chiesa per nominare un ordine del tutto alternativo all’ordine mondano hanno coniato un ossimoro, e parlato di “economia della grazia”. L’economia della grazia giudica l’economia del contraccambio, ma non la sostituisce. Nell’economia dello scambio, nel Mercato diventato onnivoro, la gratuità non solo è bandita, ma è screditata ed irrisa; sicché essa si deve rifugiare in nicchie da cui, pur mantenendo la sua forza critica e “profetica” sostanzialmente non disturba l’ordine economico dato (il commercio equo e solidale, i bilanci familiari, le aziende no profit, gli aiuti allo sviluppo e altre meritevolissime iniziative che si appellano alla diversità ma lasciano le cose come stanno).
Tuttavia il cuneo della gratuità, della condivisione, del bene comune, piantato nel cuore dell’ordine del profitto, nel momento della sua crisi, può dirigere questa crisi verso esiti più umani, soprattutto se la critica del sistema del contraccambio e del profitto si svolge non solo sul piano dell’antagonismo pragmatico e politico, ma riesce ad articolarsi sul piano della teoria economica, delle dottrine politiche e della stessa antropologia.
Ciò dice quanto il compito sia arduo, e non possa essere surrogato né da pur generosi volontarismi, né dal puro e semplice annuncio evangelico della superiorità, e anzi dell’avvento, dell’ordine della gratuità e della grazia oltre l’ordine della retribuzione e della legge.
La critica e il superamento dell’ordine economico dato è un’alta impresa teorica, che pur avendo raggiunto vette assai alte nella modernità come nel tentativo marxiano (con qualche spunto anche nella cosiddetta dottrina sociale cristiana), non è riuscita finora ad andare a buon fine. Anche teorici di formazione marxista che hanno dato ragione del fallimento del marxismo sia come teoria della crisi che come teoria della rivoluzione, pur avendo aperto nuove piste non sono riusciti ad andare molto più lontano, e hanno lasciato la consegna di “cercare ancora”: è il caso, in Italia, di Claudio Napoleoni, che ha azzardato l’utopia di una economia intesa non più come “scienza della scarsità”, quale la definiscono gli economisti classici, ma come scienza della libera e solidale fruizione da parte di tutti gli uomini dei beni della terra[2].
Essendo questo lo stato dell’arte non si possono oggi avanzare teorie che delineino un ordine economico veramente diverso e alternativo rispetto al (dis)ordine esistente. Ed è proprio questa mancanza di ricette razionalmente persuasive per un cambiamento, che spiega la débacle della sinistra politica nei punti avanzati dello sviluppo (come si è visto or ora in Europa), e che rende apparentemente invincibile l’attuale capitalismo realizzato in modalità globale, anche se esso è caduto in una gravissima crisi ed è sotto giudizio in quanto non atto ad assicurare nemmeno la continuità della vita sulla terra.
Ciò che si può fare, fino a quando e perché maturi una vera alternativa, è di comprendere meglio la situazione esistente, di innestarvi intanto correttivi, limiti e comportamenti virtuosi ispirati a una coscienza morale, e individuare qualche linea sulle quali possa essere pensato un superamento.
Crisi di tutto l’ordine economico e politico
Per poter fare questo, occorre comprendere come la crisi di oggi non è solo una crisi economica, ma una crisi di tutto l’ordine economico e politico in cui viene in qualche modo a concludersi l’intero ciclo storico dell’Occidente. In questo senso la crisi viene da ancor prima della società capitalistica; già nel 1951 Giuseppe Dossetti la diagnosticava come la crisi dell’intero “organon” dell’Occidente, e il già citato Claudio Napoleoni, trent’anni dopo, interrogandosi sulle ragioni del fallimento di Marx, rispondeva che Marx aveva criticato il capitalismo, ma non si era accorto che il male criticato nel capitalismo c’era anche prima; e questo male originario era l’alienazione. Non solo l’alienazione degli operai al processo produttivo, non solo la riduzione del lavoro a merce, che è l’alienazione specifica del capitalismo, ma un’alienazione ancora più originaria, che era l’alienazione dell’uomo stesso al prodotto, alla cosa, in un sistema in cui tutto può essere prodotto, tutto è ridotto a cosa, tutto può essere comprato e venduto, tutto può essere appropriato. E se tutto può essere appropriato, anche l’essere umano è appropriato, alienato, spossessato di sé. Sicché, concludeva Napoleoni, “perché la liberazione sia possibile il compito che si pone è di guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo, diverso cioè da quello stabilito dalla prospettiva della produzione, appropriazione, dominazione”.
Qui l’accento è messo sull’appropriazione. Secondo uno dei più importanti ecologisti italiani, Giorgio Nebbia, “la crisi ecologica è sostanzialmente crisi del bene collettivo; alcuni traggono benefici senza alcun costo; tengono, per esempio, pulita la propria casa, il proprio oikos, scaricando i rifiuti all’esterno, nell’ambiente, in una più vasta casa d’altri. La salvezza va allora cercata mettendo in discussione i principi stessi della proprietà privata, ricuperando il carattere pubblico dei beni come l’aria o il mare o le acque e introducendo il principio di delitto per chi tali beni viola o rapina o sporca. Gli obiettivi dell’economia finanziaria e quelli dell’economia sociale non possono coincidere; la proprietà collettiva delle fonti di energia, dalle regioni montagnose dove i fiumi nascono, fino ai più remoti pozzi di petrolio, è la sola garanzia per un uso e una conservazione efficace”[3]. Torna di attualità il socialismo, o come lo chiama Nebbia, “l’inevitabilità di un comunismo di base”? Senza ipotecare il futuro, si può dire intanto che il presidente americano Obama ha rotto il tabù della assoluta autonomia dell’economico dal politico, della inviolabilità delle sacre leggi della concorrenza (che sono i tabù di Maastricht) mettendo soldi pubblici nelle banche e acquistando allo Stato il 60 per cento delle azioni della General Motors. Tornano, e dove!, le Partecipazione Statali.
I beni comuni
Ma allora si può ricominciare sottraendo intanto all’appropriazione beni che non sono ancora appropriati, o che sono stati appropriati ingiustamente. Si può cominciare con lo stabilire che ci sono dei beni che non possono essere spartiti. E non perché sono beni di nessuno (“res nullius”, che era il pretesto con cui i conquistatori spagnoli si presero tutti i beni degli Indiani americani appena “scoperti”), ma perché sono beni di tutti, sono beni “comuni”. Si tratta infatti di beni che appartengono all’intera umanità, e non a una sola generazione umana, ma al succedersi delle generazioni, ai padri ed ai figli; e sono beni che servono all’utilità comune; questi beni sono la terra, l’aria, il clima, l’acqua, le foreste, i fondi marini, i corpi celesti, le orbite spaziali e i satelliti che ci si possono mettere sopra, le bande elettromagnetiche, le frequenze radiotelevisive (quelle regalate, col potere, da Craxi a Berlusconi); e se poi passiamo dai beni materiali ai beni immateriali, beni comuni sono il diritto, e perciò i diritti fondamentali (che non si possono dare e togliere agli stranieri a piacere), il patrimonio spirituale dell’umanità, le lingue, le culture, le religioni, fino al bene più comune e più universale di tutti che è Dio stesso, che da nessuno può essere sequestrato, appropriato, tenuto come un possesso esclusivo, reso “sacro” e perciò separato e messo da parte per alcuni, nemmeno da alcuna religione e da alcuna Chiesa (è stata questa la grande scoperta e la grande proclamazione del Concilio).
Quando i beni comuni vengono rapinati, appropriati, rivendicati come esclusivamente propri, si rompe la convivenza umana, e la vita diventa impossibile. E’ la storia raccontata da Ieramac, la donna di Chico Mendes, l’eroe che in Brasile aveva difeso dai latifondisti la foresta amazzonica, la vita dei seringeuiros (i raccoglitori di caucciù), il fiume. Per dodici volte avevano tentato di ammazzarlo, la tredicesima ci riuscirono. Dopo di allora, dice la sua compagna, “il potere dei forti si è indurito ancora di più. Ora viene da lontano. Ha nomi stranieri, potenti in ogni parte del mondo. Le imprese transnazionali sono penetrate nell’Acre brasiliano con la forza e l’arroganza che nemmeno il più incallito latifondista aveva mai osato esibire. Questi mostri finanziari uccidono la foresta per una brama di profitto, la trivellano per succhiare petrolio, aprono squarci enormi tra gli alberi, mettono in subbuglio l’ecosistema, ammalano i contadini. E mettono mano sul Rio, sul fiume sacro per tutti noi che lo abitiamo. L’ultima frontiera è l’accaparramento dell’acqua. Vogliono rubarci l’acqua, impossessarsi delle sorgenti, imporci la tassa per bere”. E dice a sua volta dona Flor, la protagonista del libro di Jorge Amado, che vive a San Salvador in un barrio costruito sulle palafitte: “Viviamo immersi nell’acqua, ma non abbiamo acqua da bere”. Come scriveva Taylor Coleridge: “Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere” [4]. E’ lo stesso lamento che fanno i palestinesi: gli israeliani si prendono l’acqua del Giordano, prima che arrivi nei territori palestinesi. Così ai palestinesi è negata l’acqua dolce del lago di Tiberiade, e resta solo l’acqua amara del Mar Morto.
Nei beni comuni, riconosciuti come comuni, senza discriminazione tra ricchi e poveri, senza ragioni di scambio, extra commercium, fuori del Mercato, c’è allora forse il principio e il punto di partenza di una nuova economia.
È a queste profondità, e con queste implicazioni politiche, economiche, religiose e antropologiche, che si pone la questione della gratuità.
Raniero La Valle
raniero.lavalle@tiscali.it
Dunque c’è anche proibito di dare il dono della nostra accoglienza e della nostra ospitalità. Se lo facciamo, commettiamo un reato, ti possono prendere la casa. Inutilmente dice il Siracide che l’elemosina espia i peccati, come l’acqua spegne un fuoco acceso. L’elemosina non basta, e nemmeno è permessa.
Come la crisi del ‘29
Il peccato, se c’è, è strutturale, come la Chiesa ha imparato a dire a partire da Medellin e dalla teologia della liberazione in poi. C’è una questione economica globale. E c’è una crisi che investe ogni economia. Parlandone a Verona, il 16 aprile scorso, il segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, mons. Crepaldi, ha sentito il bisogno di citare addirittura l’enciclica Quadragesimo Anno che Pio XI scrisse nel 1931, in piena depressione economica seguita alla famosa crisi del 1929. Pio XI spiegava che si era costituita una “dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”. Secondo Pio XI ciò aveva distrutto lo stesso mercato, a cui era “subentrata la egemonia economica, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui la patria è dove si sta bene”. Tre erano, secondo quel Papa, i motivi della crisi: il primo, la bramosia dei facili guadagni sicché costoro “con la sfrenata speculazione fanno salire ed abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro”, il secondo, le leggi a favore del capitale che “ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza”, sicché “sotto la coperta difesa di una società che chiamano ‘anonima’ si commettono le peggiori ingiustizie e frodi”; il terzo, “una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna”.
“Una lettura molto istruttiva anche per noi”, ha detto mons. Crepaldi. Ma è legittimo paragonare la crisi attuale con quella del ’29? Lo è. Ha detto Allen Sinai, uno dei maggiori economisti di Wall Street: “Guardiamo alla realtà di oggi. La crisi è così immensa, così grave, così simile a quella degli anni ’30, che non escludo che si stia andando incontro a una nuova grande depressione. Non è detto che vada a finire così, ma le possibilità crescono ogni giorno. Tutti gli indicatori sono in caduta verticale: posti di lavoro, redditi personali, produzione industriale, prezzi delle materie prime. E Borse, inevitabilmente. Oggi i mercati si trovano brutalmente davanti a questo rischio. E forse è qualcosa di più di un rischio”.
La novità è che in America quella che è andata in crisi è proprio la “middle class”, il ceto medio che è il vero depositario del “sogno americano”. Senza questo non si sarebbe verificato il miracolo della vittoria di Obama, che oggi si presenta al mondo (soprattutto dopo il discorso del 4 giugno al Cairo) come la nuova voce profetica di questo inizio di millennio. Ma la crisi non investe solo l’America. Anche le nuove economie, che erano in ascesa, sono in affanno. L’una o l’altra delle “tigri asiatiche” forse diventerà solo una lince, o forse un gatto, che sono felini assai meno prestanti. Una volta, agli investitori occidentali che non sapevano dove mettere il loro denaro, si diceva di andare in Asia, di investire a Mumbay, a Shangai o a Dubai. Oggi non lo si dice più.
La sofferenza, la fame, le malattie, la miseria dell’Africa, del III e del IV mondo, non si sono arrestate, almeno 10 milioni di bambini all’anno muoiono di fame e di malattie curabilissime, ma nessuno ne parla più perché ormai tutti si occupano della crisi economica e finanziaria del I mondo e dell’Occidente L’ultimo rapporto della FAO che sommessamente si intitola: “Lo stato della insicurezza alimentare nel mondo nel 2008” in realtà è il grido di una tragedia: i curvati dalla fame nel mondo sono 963 milioni, 40 milioni in più del 2007 e 115 milioni in più del triennio 2003-2005. questo vuol dire che lungi dal ridursi alla metà, come era stato promesso dai vertici della FAO per il 2015, essa di anno in anno aumenta; negli ultimi anni anzi si è avuto un peggioramento strutturale della situazione, perché c’è stato un aumento del prezzo dei generi alimentari e delle sementi. Solo nella regione dell’America Latina e dei Caraibi che nel 2007 aveva registrato i maggiori passi avanti nella riduzione della fame prima dell’impennata dei prezzi alimentari, il numero degli affamati è salito a 51 milioni. Nel Vicino Oriente e nel Nord Africa il numero dei sottonutriti è salito dai 15 milioni del biennio 1990-92 a 37 milioni nel 2007. Nella geografia della fame l’Africa subsahariana è al primo posto, con 236 milioni di persone senza cibo, seguita dall’Asia-Pacifico (156 milioni) e dalla Cina (142 milioni). Secondo la FAO la crisi ha colpito soprattutto i più poveri, i senza terra e i nuclei familiari con donne capofamiglia. E la crisi c’è anche in Italia, dove i poveri sono legione, il lavoro se ne va e il PIL diminuisce, anche se solo per il governo essa non esiste e l’Italia sta benissimo, le banche sono in fiore.
In questa spaccatura dell’umanità tra ricchi e poveri si inseriscono elementi paradossali che sono messi in luce da una Nota del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace, approvata dalla Segreteria di Stato in vista della conferenza di Doha sul finanziamento allo sviluppo, tenutasi dal 29 novembre al 2 dicembre dell’anno scorso. Il primo paradosso sta nel fatto che nell’attuale sistema globale “sono i paesi poveri a finanziare i paesi ricchi che ricevono risorse provenienti sia dalle fughe di capitale privato, sia dalle decisioni governative di accantonare riserve ufficiali sotto forma di attività finanziarie ‘sicure’ collocate nei mercati finanziariamente evoluti o nei mercati offshore”. Il secondo sta nel fatto che “le rimesse degli emigrati comportano un afflusso di risorse che a livello macro superano largamente i flussi di aiuto pubblico allo sviluppo. È come dire che i poveri del Sud finanziano i ricchi del Nord e gli stessi poveri del Sud devono emigrare e lavorare al Nord per sostenere le loro famiglie al Sud”. Secondo questo rapporto della Santa Sede la crisi finanziaria in atto “è l’esito di una prassi quotidiana che aveva il suo caposaldo nell’assoluta priorità del capitale rispetto al lavoro – incluso il lavoro alienato degli stessi operatori finanziari (ore di lavoro lunghissime e stressanti, orizzonte temporale di riferimento per le decisioni cortissimo)”. In tal modo sui mercati finanziari di ogni tipo si è dispiegata “una trama di pratiche economiche e finanziarie dissennate: fughe di capitali di proporzioni gigantesche, flussi ‘legali’ motivati da obiettivi di evasione fiscale e incanalati anche attraverso la sovra/sottofatturazione dei flussi commerciali internazionali, riciclaggio dei proventi di attività illegali”. E ora, “con la crisi, è venuta meno la fiducia fideistica riposta nel mercato, inteso come meccanismo capace di autoregolarsi e di generare sviluppo per tutti”.
Tutto il potere al Mercato
Sotto accusa c’è dunque il mercato. Allora il mercato è cattivo? No, ma è cattiva la sua raggiunta, pretesa onnipotenza. Non eravamo abituati a considerarlo come un Potere. La storia dell’Occidente, dall’XI secolo in poi, è stata tutta intessuta del conflitto tra Chiesa e Stato, nel tentativo, sempre fallito per ambedue, di appropriarsi in modo esclusivo del monopolio del potere. Ora c’è un libro di Paolo Prodi (terzo di una trilogia di cui già ci siamo occupati su Presbyteri a proposito del secondo, “Una storia della giustizia”) che introduce in questa storia l’insorgere di un altro potere, il Mercato, non il minore in questa gara. In questo libro (“Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”[1]) si mostra come il Mercato si sia fatto spazio tra i due, lo Stato e la Chiesa, fino a giungere all’attuale supremazia, sopravanzando l’uno e l’altra. Il Mercato esclude tutto ciò che non è oggetto di scambio, e non dà valore alle cose se non attraverso lo scambio; perciò il furto, appropriazione senza scambio, ne è la specifica violazione (condannato dalla Chiesa come peccato, dal Mercato come colpa, dal diritto positivo come reato) e la gratuità ne è esclusa.
Niente di male, se il mercato non è tutto. Il problema è che via via si sono incluse nella logica dello scambio, del do ut des, del mercato, aree della vita e della realtà umana che con il mercato non hanno nulla a che fare (il simbolo estremo ne è la simonia, ma anche la prostituzione). Secondo Carl Schmitt il dividere, l’appropriarsi, il produrre, che sono le funzioni tipiche del mercato, sono alla radice stessa del nomos dell’Occidente (“nomos” viene dal verbo “nemein”, spartire, dividere), cioè della sua civiltà. L’universale pervasività del Mercato è un fenomeno tuttavia relativamente recente, non sempre esso ha invaso tutta la realtà e tutta la vita. Il mercato stava in una parte del villaggio, della città; si andava al mercato. Uno nasceva fuori del mercato, viveva, acquisiva talenti, coltivava il suo campo, lavorava e prendeva un salario e poi, con quello che aveva, andava al mercato a scambiarlo con altre cose di cui aveva bisogno e che altri vi avevano portato. Le risorse si formavano fuori del mercato e si scambiavano nel mercato. E nel mercato si scambiavano le merci, ma si incontravano le persone, si incrociavano le parole, si manifestavano sentimenti. Ancora oggi quello che resta delle vecchie campagne elettorali persona a persona, si fa nei mercati. Le donne avevano una grande parte nel mercato. Si potrebbe dire che nella maggior parte delle società il mercato era soprattutto femminile. Marianella, la giovane donna martire dei diritti umani, con mons. Romero, nel Salvador, aveva cominciato la sua rivoluzione per i diritti, contro le oligarchie e i poteri dittatoriali del suo Paese, “coscientizzando” e organizzando le donne dei mercati.
Ora invece succede che il mercato è tutto, e fuori del mercato non c’è nulla, e le persone non ci sono più. Di conseguenza tutto è merce. Il denaro stesso, che serviva a scambiare le merci, è diventato una merce, la merce superiore a tutte le altre merci, con cui si guadagna di più. Perciò si è smesso di investire nella produzione, e si sono investiti tutti i denari nel denaro e in quelle volatili tracce elettroniche che sui computer rappresentano il denaro. Così è venuta la bolla speculativa, così l’economia ha preso le distanze dalle cose, dalla vita reale; e anche da quelle cose che ingiustamente erano considerate merci, a cominciare dal lavoro. Ridotto il lavoro a merce, e la merce a denaro, il Mercato si è mangiato tutto, e ora che il Mercato è entrato in crisi, trascina tutto con sé nella crisi.
La gratuità è un’alternativa?
Tuttavia il Mercato non ha rinunciato alla sua onnipotenza, anche nel momento della sua massima debolezza. Può la gratuità essere un’alternativa? Possiamo parlare di un’economia del dono? Se nell’economia piantiamo il pungolo della gratuità certamente vi apriamo una contraddizione, ma non riusciamo a costruire un’altra economia. La gratuità è il principio di un altro ordine, che non è quello economico; un ordine che sta tra il già e il non ancora. Non a caso i Padri della Chiesa per nominare un ordine del tutto alternativo all’ordine mondano hanno coniato un ossimoro, e parlato di “economia della grazia”. L’economia della grazia giudica l’economia del contraccambio, ma non la sostituisce. Nell’economia dello scambio, nel Mercato diventato onnivoro, la gratuità non solo è bandita, ma è screditata ed irrisa; sicché essa si deve rifugiare in nicchie da cui, pur mantenendo la sua forza critica e “profetica” sostanzialmente non disturba l’ordine economico dato (il commercio equo e solidale, i bilanci familiari, le aziende no profit, gli aiuti allo sviluppo e altre meritevolissime iniziative che si appellano alla diversità ma lasciano le cose come stanno).
Tuttavia il cuneo della gratuità, della condivisione, del bene comune, piantato nel cuore dell’ordine del profitto, nel momento della sua crisi, può dirigere questa crisi verso esiti più umani, soprattutto se la critica del sistema del contraccambio e del profitto si svolge non solo sul piano dell’antagonismo pragmatico e politico, ma riesce ad articolarsi sul piano della teoria economica, delle dottrine politiche e della stessa antropologia.
Ciò dice quanto il compito sia arduo, e non possa essere surrogato né da pur generosi volontarismi, né dal puro e semplice annuncio evangelico della superiorità, e anzi dell’avvento, dell’ordine della gratuità e della grazia oltre l’ordine della retribuzione e della legge.
La critica e il superamento dell’ordine economico dato è un’alta impresa teorica, che pur avendo raggiunto vette assai alte nella modernità come nel tentativo marxiano (con qualche spunto anche nella cosiddetta dottrina sociale cristiana), non è riuscita finora ad andare a buon fine. Anche teorici di formazione marxista che hanno dato ragione del fallimento del marxismo sia come teoria della crisi che come teoria della rivoluzione, pur avendo aperto nuove piste non sono riusciti ad andare molto più lontano, e hanno lasciato la consegna di “cercare ancora”: è il caso, in Italia, di Claudio Napoleoni, che ha azzardato l’utopia di una economia intesa non più come “scienza della scarsità”, quale la definiscono gli economisti classici, ma come scienza della libera e solidale fruizione da parte di tutti gli uomini dei beni della terra[2].
Essendo questo lo stato dell’arte non si possono oggi avanzare teorie che delineino un ordine economico veramente diverso e alternativo rispetto al (dis)ordine esistente. Ed è proprio questa mancanza di ricette razionalmente persuasive per un cambiamento, che spiega la débacle della sinistra politica nei punti avanzati dello sviluppo (come si è visto or ora in Europa), e che rende apparentemente invincibile l’attuale capitalismo realizzato in modalità globale, anche se esso è caduto in una gravissima crisi ed è sotto giudizio in quanto non atto ad assicurare nemmeno la continuità della vita sulla terra.
Ciò che si può fare, fino a quando e perché maturi una vera alternativa, è di comprendere meglio la situazione esistente, di innestarvi intanto correttivi, limiti e comportamenti virtuosi ispirati a una coscienza morale, e individuare qualche linea sulle quali possa essere pensato un superamento.
Crisi di tutto l’ordine economico e politico
Per poter fare questo, occorre comprendere come la crisi di oggi non è solo una crisi economica, ma una crisi di tutto l’ordine economico e politico in cui viene in qualche modo a concludersi l’intero ciclo storico dell’Occidente. In questo senso la crisi viene da ancor prima della società capitalistica; già nel 1951 Giuseppe Dossetti la diagnosticava come la crisi dell’intero “organon” dell’Occidente, e il già citato Claudio Napoleoni, trent’anni dopo, interrogandosi sulle ragioni del fallimento di Marx, rispondeva che Marx aveva criticato il capitalismo, ma non si era accorto che il male criticato nel capitalismo c’era anche prima; e questo male originario era l’alienazione. Non solo l’alienazione degli operai al processo produttivo, non solo la riduzione del lavoro a merce, che è l’alienazione specifica del capitalismo, ma un’alienazione ancora più originaria, che era l’alienazione dell’uomo stesso al prodotto, alla cosa, in un sistema in cui tutto può essere prodotto, tutto è ridotto a cosa, tutto può essere comprato e venduto, tutto può essere appropriato. E se tutto può essere appropriato, anche l’essere umano è appropriato, alienato, spossessato di sé. Sicché, concludeva Napoleoni, “perché la liberazione sia possibile il compito che si pone è di guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo, diverso cioè da quello stabilito dalla prospettiva della produzione, appropriazione, dominazione”.
Qui l’accento è messo sull’appropriazione. Secondo uno dei più importanti ecologisti italiani, Giorgio Nebbia, “la crisi ecologica è sostanzialmente crisi del bene collettivo; alcuni traggono benefici senza alcun costo; tengono, per esempio, pulita la propria casa, il proprio oikos, scaricando i rifiuti all’esterno, nell’ambiente, in una più vasta casa d’altri. La salvezza va allora cercata mettendo in discussione i principi stessi della proprietà privata, ricuperando il carattere pubblico dei beni come l’aria o il mare o le acque e introducendo il principio di delitto per chi tali beni viola o rapina o sporca. Gli obiettivi dell’economia finanziaria e quelli dell’economia sociale non possono coincidere; la proprietà collettiva delle fonti di energia, dalle regioni montagnose dove i fiumi nascono, fino ai più remoti pozzi di petrolio, è la sola garanzia per un uso e una conservazione efficace”[3]. Torna di attualità il socialismo, o come lo chiama Nebbia, “l’inevitabilità di un comunismo di base”? Senza ipotecare il futuro, si può dire intanto che il presidente americano Obama ha rotto il tabù della assoluta autonomia dell’economico dal politico, della inviolabilità delle sacre leggi della concorrenza (che sono i tabù di Maastricht) mettendo soldi pubblici nelle banche e acquistando allo Stato il 60 per cento delle azioni della General Motors. Tornano, e dove!, le Partecipazione Statali.
I beni comuni
Ma allora si può ricominciare sottraendo intanto all’appropriazione beni che non sono ancora appropriati, o che sono stati appropriati ingiustamente. Si può cominciare con lo stabilire che ci sono dei beni che non possono essere spartiti. E non perché sono beni di nessuno (“res nullius”, che era il pretesto con cui i conquistatori spagnoli si presero tutti i beni degli Indiani americani appena “scoperti”), ma perché sono beni di tutti, sono beni “comuni”. Si tratta infatti di beni che appartengono all’intera umanità, e non a una sola generazione umana, ma al succedersi delle generazioni, ai padri ed ai figli; e sono beni che servono all’utilità comune; questi beni sono la terra, l’aria, il clima, l’acqua, le foreste, i fondi marini, i corpi celesti, le orbite spaziali e i satelliti che ci si possono mettere sopra, le bande elettromagnetiche, le frequenze radiotelevisive (quelle regalate, col potere, da Craxi a Berlusconi); e se poi passiamo dai beni materiali ai beni immateriali, beni comuni sono il diritto, e perciò i diritti fondamentali (che non si possono dare e togliere agli stranieri a piacere), il patrimonio spirituale dell’umanità, le lingue, le culture, le religioni, fino al bene più comune e più universale di tutti che è Dio stesso, che da nessuno può essere sequestrato, appropriato, tenuto come un possesso esclusivo, reso “sacro” e perciò separato e messo da parte per alcuni, nemmeno da alcuna religione e da alcuna Chiesa (è stata questa la grande scoperta e la grande proclamazione del Concilio).
Quando i beni comuni vengono rapinati, appropriati, rivendicati come esclusivamente propri, si rompe la convivenza umana, e la vita diventa impossibile. E’ la storia raccontata da Ieramac, la donna di Chico Mendes, l’eroe che in Brasile aveva difeso dai latifondisti la foresta amazzonica, la vita dei seringeuiros (i raccoglitori di caucciù), il fiume. Per dodici volte avevano tentato di ammazzarlo, la tredicesima ci riuscirono. Dopo di allora, dice la sua compagna, “il potere dei forti si è indurito ancora di più. Ora viene da lontano. Ha nomi stranieri, potenti in ogni parte del mondo. Le imprese transnazionali sono penetrate nell’Acre brasiliano con la forza e l’arroganza che nemmeno il più incallito latifondista aveva mai osato esibire. Questi mostri finanziari uccidono la foresta per una brama di profitto, la trivellano per succhiare petrolio, aprono squarci enormi tra gli alberi, mettono in subbuglio l’ecosistema, ammalano i contadini. E mettono mano sul Rio, sul fiume sacro per tutti noi che lo abitiamo. L’ultima frontiera è l’accaparramento dell’acqua. Vogliono rubarci l’acqua, impossessarsi delle sorgenti, imporci la tassa per bere”. E dice a sua volta dona Flor, la protagonista del libro di Jorge Amado, che vive a San Salvador in un barrio costruito sulle palafitte: “Viviamo immersi nell’acqua, ma non abbiamo acqua da bere”. Come scriveva Taylor Coleridge: “Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere” [4]. E’ lo stesso lamento che fanno i palestinesi: gli israeliani si prendono l’acqua del Giordano, prima che arrivi nei territori palestinesi. Così ai palestinesi è negata l’acqua dolce del lago di Tiberiade, e resta solo l’acqua amara del Mar Morto.
Nei beni comuni, riconosciuti come comuni, senza discriminazione tra ricchi e poveri, senza ragioni di scambio, extra commercium, fuori del Mercato, c’è allora forse il principio e il punto di partenza di una nuova economia.
È a queste profondità, e con queste implicazioni politiche, economiche, religiose e antropologiche, che si pone la questione della gratuità.
Raniero La Valle
raniero.lavalle@tiscali.it
[1] Paolo Prodi. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Il Mulino, Bologna, 2009.
[2] Claudio Napoleoni, Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma, 1990
[3] Giorgio Nebbia, I tre mondi del XXI secolo, e-mail dell’11 dicembre 2008.
[4] V. Francesco Comina, Sulle strade dell’acqua, Dramma in due atti e in quattro continenti, Il Margine, Trento, 2008.
Desidero ringraziarla non solo per questo articolo ma per il suo impegno a favore dei più piccoli.
RispondiEliminaGrazie perchè le Sue parole non rinunciano al tentativo di rendere questa società più umana, nonostante tutto.
La coraggiosa testimonianza alla verità è merce rara oggi giorno. E' acqua nel deserto dell'arroganza e della disumanizzazione delle relazioni.
Di quest'acqua che Lei abbondantemente ci serve, neppure un bicchiere sarà dimenticato.
Cordialmente.
Giorgio Crespi
MEZZAGO (MB)
giopi61@alice.it
www.musike777.blogspot.com