di Raniero La Valle
Le “primarie” del Partito Democratico sono andate a buon fine esprimendo una netta maggioranza a favore di Bersani. Da più parti è stato sottolineato il valore dei tre milioni di partecipanti al voto, e perciò è stato detto che le primarie sono una cosa bellissima e tutte le elezioni, anche di partito, si dovrebbero fare così. Ma che questa volta sia andata a finire bene non significa affatto che l’istituto ne esca convalidato.Anzitutto ha sequestrato per più di due mesi il Partito Democratico dalla vita politica attiva, facendolo concentrare su di sé e lasciando che il governo facesse il buono e cattivo tempo. In secondo luogo c’è mancato poco che mettesse in contrapposizione elettorato e partito, facendo uscire dai gazebo un segretario diverso da quello voluto dagli iscritti. In terzo luogo ha offerto a elettori di altri partiti, e anche della destra, la possibilità di interferire o addirittura determinare una scelta di partito in quello snodo delicatissimo che è la formazione della sua classe dirigente.
Se le primarie sono finalizzate alla scelta di candidati per cariche elettive pubbliche riguardanti tutti i cittadini (come avviene in America) esse sono giustificate perché anche un elettore repubblicano può essere interessato alla scelta del candidato democratico dal quale, se vince, sarà governato. Ma elezioni primarie per cariche interne di partito sono prive di senso, perché i partiti sono associazioni volontarie la cui responsabilità è degli associati, che si mettono insieme per uno specifico progetto politico e sociale, e non sono espressione di una generica società civile. I partiti sono voluti dalla Costituzione come strumenti, e non come fine a se stessi. L’idea che al Paese si debba promettere e fornire un bel partito, piuttosto che una buona politica, e rigirarselo tra le mani e contemplarlo in modo narcisistico, è una delle aberrazioni della cosiddetta transizione italiana.
In verità in questo innamoramento del vecchio gruppo dirigente del PD per le primarie, è tornata una vecchia sindrome autodistruttiva della sinistra italiana. C’è un partito “nuovo”, frutto di sacrifici e speranze, che gode di simpatie antiche ed è ancora radicato nel territorio? Bene, facciamo le primarie e mettiamolo in mano al primo che passa. C’era il partito comunista che pur con tutti i suoi limiti rappresentava il fulcro della sinistra e un architrave della democrazia? Bene, facciamo la Bolognina, togliamo il disturbo e mettiamone i resti alla mercé di un alveare impazzito. C’era una sinistra democristiana che era riuscita ad impedire che il “partito cattolico” si identificasse con una secca opzione conservatrice? Bene, sciogliamo la Democrazia cristiana e lasciamo la prateria alle scorrerie della Lega e alla colonizzazione berlusconiana. C’era la Costituzione, l’unica cosa che reggeva attraverso venti e maree, terrorismo e partitocrazia? Bene, picconiamola prima ancora della caduta del muro di Berlino (c’era un uomo “di sinistra” al Quirinale), rimettiamola in gioco come i pezzi di un meccano, facciamo vedere che con un po’ di maggioranza chiunque la Costituzione se la può cambiare anche da solo.
Poi ci si interroga sul perché del successo della destra. E anche qui la sinistra appare stregata: crede che la destra abbia messo in campo chissà quali risorse, per tirar fuori questo populismo autoritario che cavalca la crisi vendendo illusioni e godendo di alti sondaggi; si chiede a quali arti la destra abbia saputo ricorrere, per installarsi saldamente al potere; si chiede quale cultura, anche se non si vede, essa nasconda dietro l’evidente analfabetismo di molti dei suoi cantori; pensa che chissà di quali novità è stata capace per scalzare la vecchia egemonia della cultura democratica e progressista.
Ma non c’è bisogno di attribuire alla destra tali magie. Essa non ha inventato nulla di nuovo, non ha aperto una fase nuova. È la stessa destra italiana da Bava Beccaris al fascismo all’asse Bossi-Berlusconi. Il nuovo, che era venuto ad interrompere questa linea continua, è stata la Costituzione, sono stati i partiti popolari, i sindacati, le lotte sociali, la proporzionale, la scuola di massa, la televisione pubblica, l’unità delle forze democratiche. È questo nuovo che è stato rimosso. E nella misura in cui queste cose vengono tolte una a una, la destra riprende lo spazio e dilaga, usando tutti gli strumenti che la sinistra ha messo nelle sue mani.
L’elezione di Bersani è una buona notizia, perché sembra voler rovesciare il fatalismo della sconfitta, a cominciare dalla ripresa di una politica di larghe alleanze.
Se le primarie sono finalizzate alla scelta di candidati per cariche elettive pubbliche riguardanti tutti i cittadini (come avviene in America) esse sono giustificate perché anche un elettore repubblicano può essere interessato alla scelta del candidato democratico dal quale, se vince, sarà governato. Ma elezioni primarie per cariche interne di partito sono prive di senso, perché i partiti sono associazioni volontarie la cui responsabilità è degli associati, che si mettono insieme per uno specifico progetto politico e sociale, e non sono espressione di una generica società civile. I partiti sono voluti dalla Costituzione come strumenti, e non come fine a se stessi. L’idea che al Paese si debba promettere e fornire un bel partito, piuttosto che una buona politica, e rigirarselo tra le mani e contemplarlo in modo narcisistico, è una delle aberrazioni della cosiddetta transizione italiana.
In verità in questo innamoramento del vecchio gruppo dirigente del PD per le primarie, è tornata una vecchia sindrome autodistruttiva della sinistra italiana. C’è un partito “nuovo”, frutto di sacrifici e speranze, che gode di simpatie antiche ed è ancora radicato nel territorio? Bene, facciamo le primarie e mettiamolo in mano al primo che passa. C’era il partito comunista che pur con tutti i suoi limiti rappresentava il fulcro della sinistra e un architrave della democrazia? Bene, facciamo la Bolognina, togliamo il disturbo e mettiamone i resti alla mercé di un alveare impazzito. C’era una sinistra democristiana che era riuscita ad impedire che il “partito cattolico” si identificasse con una secca opzione conservatrice? Bene, sciogliamo la Democrazia cristiana e lasciamo la prateria alle scorrerie della Lega e alla colonizzazione berlusconiana. C’era la Costituzione, l’unica cosa che reggeva attraverso venti e maree, terrorismo e partitocrazia? Bene, picconiamola prima ancora della caduta del muro di Berlino (c’era un uomo “di sinistra” al Quirinale), rimettiamola in gioco come i pezzi di un meccano, facciamo vedere che con un po’ di maggioranza chiunque la Costituzione se la può cambiare anche da solo.
Poi ci si interroga sul perché del successo della destra. E anche qui la sinistra appare stregata: crede che la destra abbia messo in campo chissà quali risorse, per tirar fuori questo populismo autoritario che cavalca la crisi vendendo illusioni e godendo di alti sondaggi; si chiede a quali arti la destra abbia saputo ricorrere, per installarsi saldamente al potere; si chiede quale cultura, anche se non si vede, essa nasconda dietro l’evidente analfabetismo di molti dei suoi cantori; pensa che chissà di quali novità è stata capace per scalzare la vecchia egemonia della cultura democratica e progressista.
Ma non c’è bisogno di attribuire alla destra tali magie. Essa non ha inventato nulla di nuovo, non ha aperto una fase nuova. È la stessa destra italiana da Bava Beccaris al fascismo all’asse Bossi-Berlusconi. Il nuovo, che era venuto ad interrompere questa linea continua, è stata la Costituzione, sono stati i partiti popolari, i sindacati, le lotte sociali, la proporzionale, la scuola di massa, la televisione pubblica, l’unità delle forze democratiche. È questo nuovo che è stato rimosso. E nella misura in cui queste cose vengono tolte una a una, la destra riprende lo spazio e dilaga, usando tutti gli strumenti che la sinistra ha messo nelle sue mani.
L’elezione di Bersani è una buona notizia, perché sembra voler rovesciare il fatalismo della sconfitta, a cominciare dalla ripresa di una politica di larghe alleanze.
Raniero La Valle
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