Lo scandalo della Protezione Civile e la cancellazione della città dell’Aquila
di Roberto De Marco (dall’ultimo numero della rivista “Democrazia e Diritto”)
Un terremoto occorso esattamente trent’anni fa coinvolse tre regioni di questo paese, uccise quasi tremila persone, mise a nudo un sistema di protezione civile inadeguato, fece vacillare il Governo, evidenziò un deficit di prevenzione inaccettabile, certamente ingiustificato per un paese che competeva per le posizioni di vertice tra quelli più “ricchi” e industrializzati.
Quel terremoto in Irpinia del 1980 è stata l’ultima grande catastrofe di questo paese. Altri eventi severi e drammatici hanno successivamente scosso l’opinione pubblica, ma nessuno di questi è confrontabile con i quattro o cinque eventi che nel secolo scorso, complessivamente lasciarono sotto le macerie oltre 120 mila persone.
Insomma, giusto trent’anni di una relativa tregua, nel corso dei quali era lecito attendersi se non la soluzione del problema sismico in Italia, che è questione assai complicata, almeno significativi passi
Quel terremoto in Irpinia del 1980 è stata l’ultima grande catastrofe di questo paese. Altri eventi severi e drammatici hanno successivamente scosso l’opinione pubblica, ma nessuno di questi è confrontabile con i quattro o cinque eventi che nel secolo scorso, complessivamente lasciarono sotto le macerie oltre 120 mila persone.
Insomma, giusto trent’anni di una relativa tregua, nel corso dei quali era lecito attendersi se non la soluzione del problema sismico in Italia, che è questione assai complicata, almeno significativi passi
avanti sul terreno della prevenzione dagli effetti del terremoto. Prevenzione sismica che, è bene ricordare, promette non la eliminazione del danno ma la salvaguardia della vita umana.
Su questo sfondo, il terremoto dell’Abruzzo ha fornito ulteriori elementi per una drammatica conferma della vulnerabilità delle nostre città e dei nostri paesi. Conferma dell’assenza di un’efficace azione di riduzione del rischio sismico nei confronti della quale vi è stato un atteggiamento incurante, omissivo da parte dei tanti governi che si sono succeduti.
Gli effetti del terremoto a L’Aquila, dove da quasi cent’anni tutti gli edifici di nuova costruzione dovrebbero esser stati progettati e realizzati rispettando la normativa sismica, ha drammaticamente mostrato i limiti di quanto messo in campo per proteggere la popolazione del terremoto. Sarebbe tuttavia fuorviante ritenere che le ragioni di quanto successo lo scorso 6 aprile siano solo quelle contenute nei fascicoli della Procura della Repubblica. Certamente comportamenti irresponsabili; certamente un deficit di prevenzione, ma anche una più generale disattenzione verso i richiami ad una consapevole gestione del territorio, al rischio di un allentamento dei controlli, ad una sine cura verso le vecchie vulnerabilità mentre se ne realizzano di nuove.
Tutto questo è noto e tutto si può dire meno che l’ultimo terremoto accaduto abbia potuto destare sorpresa per dove è capitato e per quello che ha combinato. Si può assai ragionevolmente affermare che la stessa cosa capiterà, purtroppo, per il prossimo, ovunque accada. Scenari di evento sono disponibili da molto tempo, anche per le maggiori città italiane a più elevato rischio; forniscono un quadro di riferimento affidabile, che non lascia margini di incertezza molto ampi su quale sarebbe l’impatto se si riproponesse un terremoto simile a quelli già occorsi nell’area esaminata. Sembra tuttavia che la situazione, anche in quest’ultimo dopo terremoto, non volga al meglio. Dopo una catastrofe qualsiasi, nel momento dell’imbarazzo, viene recitato il consueto “la messa in sicurezza del territorio come più importante opera pubblica del paese”. Poi si risolve il problema contingente con un po’ di prevenzione impropria, che è quella del giorno dopo, e magari si stanzia, in tutta fretta, per la riduzione del rischio sismico nel paese, una quantità di risorse pari ad un paio di chilometri di alta velocità. Si sa anche di promettere cose impossibili: per come questo paese è ridotto e per come vanno le cose, metterlo in sicurezza significherebbe, come si diceva, risolvere le sue infinite, vecchie fragilità e, soprattutto, non crearne di nuove. Sarebbe allora meglio cominciare a far qualcosa di concreto “da una parte”, da una di quelle aree ben note, dove più elevati livelli di rischio preoccupano. Come preoccupava, per esempio, anche L’Aquila prima del terremoto di aprile.
A fronte di questa situazione, la risposta del Governo al quadro delineato dall’esperienza abruzzese è stato il decreto legge 30 dicembre 2009 “Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regine Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile”. Tra le “altre disposizioni urgenti” richiamate nel titolone, ve ne è una a grande rilevanza istituzionale: si costituisce una società per azioni intitolata Protezione Civile Servizi. A molti perplessi osservatori è sembrata una cosa molto discutibile; a chi segue più da vicino le vicende del sistema di protezione civile, è sembrato essere soprattutto il punto di arrivo di un percorso iniziato nel settembre 2001 quando, con uno dei primi atti del precedente Governo Berlusconi, si sopprimeva l’Agenzia di Protezione Civile e si ricostituiva il preesistente Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’abolizione dell’Agenzia di P.C. fu un’operazione conclusa senza dover dare approfondite motivazioni. Si disse semplicemente: troppa autonomia. Era vero, vi era nella scelta di quel modello, in voga sul finire degli anni ‘90, la richiesta di una maggiore autonomia, ma in ragione esclusivamente della considerazione che la Protezione Civile dovesse diventare un presidio ad alta competenza tecnico-scientifica, un modello organizzativo al quale si dovesse concedere una maggiore flessibilità soprattutto sul piano della operatività, dell’iniziativa in emergenza, e soprattutto, in prevenzione. Restava, ovviamente, fortemente dipendente dall’esecutivo, soprattutto nella gestione della delicata fase della straordinarietà che si apriva con la dichiarazione dello stato di emergenza per calamità vere. Non si prefigurava assolutamente la messa a sistema del superamento dei vincoli di garanzia normativa, trasparenza, competenza, e quant’altro deve presidiare la cosa pubblica. Insomma era una richiesta di autonomia che non somigliava nemmeno vagamente a quello a cui, di lì a poco, si sarebbe assistito in termini di alterazione dell’assetto istituzionale ed amministrativo. Tutto ciò è avvenuto inserendo nello stesso decreto di ricostituzione del nuovo/vecchio Dipartimento, poche righe di cui solo gli addetti ai lavori colsero la reale portata, senza le quali la saga della Protezione Civile ai tempi di Berlusconi non si sarebbe mai potuta compiere.
Si diceva, in quelle righe, che le prerogative riservate ad alluvioni e terremoti, si sarebbero potute usare anche per ogni cosa il Consiglio dei Ministri, su proposta del suo Presidente, avesse voluto dichiarare grande evento. E quindi, semplicemente, a “tutto”. E tutto è stato. Mai una Protezione Civile che si fosse interessata davvero solo di alluvioni e terremoti, avrebbe avuto i soldi, le risorse umane e strumentali, i gradi di autonomia, la possibilità di esprimersi sopra le righe -che sembra non essere tollerata solo nelle esperienze internazionali- assicurati all’esercito di Bertolaso. Di tutto questo, il terremoto Abruzzo, come si vedrà, è stato la più completa esemplificazione; il decreto ora varato ne consolida alcuni degli aspetti più significativi.
A quasi un decennio di distanza da quel provvedimento, indiscutibilmente, la Protezione Civile di questo paese ha subito una trasformazione radicale, verrebbe da dire una mutazione genetica. Mutazione da struttura fortemente specializzata, istituzionalmente dedicata a realizzare il coordinamento dell’emergenza e della messa in sicurezza della popolazione rispetto alle molte calamità che colpiscono il paese, verso l’organizzarsi, invece, come braccio operativo di un sistema di governo fondato sull’assunto che il raggiungimento di un obiettivo, solo in qualche caso riconducibile all’azione di P.C., lo si possa conseguire sospendendo l’efficacia del corpo normativo vigente, sostituendolo con una legislazione straordinaria, fondata sul potere di ordinanza e sull’utilizzo di alcuni “strumenti accessori” che più avanti vedremo. Di fatto, il Governo, ma sarebbe meglio dire il Presidente del Consiglio dei Ministri, si è dato uno strumento a suo totale ed esclusivo servizio, a valenza generale, con un ambito di utilizzabilità praticamente infinito, giustificabile dalla presunzione di straordinarietà dell’evento. Si è trattato di centinaia di celebrazioni, eventi sportivi, meeting internazionali e tantissime altre, diverse cose. Quando poi sono capitate davvero catastrofi, o comunque situazioni incidenti sulla sicurezza delle popolazioni, la regola è stata quella di esautorare i livelli locali di governo e negare gli spazi partecipativi ai cittadini anche nella ricostruzione, nelle scelte fortemente condizionanti il proprio futuro. Le scelte, ben oltre la fase dell’emergenza, sono state tutte accentrate e assunte monocraticamente.
Nel far questo, ovviamente, sono rimaste sul campo molte vittime: le garanzie normative, superate sistematicamente dall’approccio derogatorio; la trasparenza, che il presupposto dell’urgenza, spesso fittizio, ha consentito di limitare; l’efficacia dei controlli nella spesa pubblica; la competenza istituzionale e la specificità di funzioni espresse dalle amministrazioni dello Stato e locali, emarginate dall’imposizione delle funzioni commissariali. E poi, anche e soprattutto, il confronto parlamentare.
Sul piano politico poi, con tutta evidenza, è stata ignorata la portata di alcuni comportamenti che, riproponendo un modello fortemente centralista, hanno intaccato alla radice il principio di sussidiarietà, dando così il segno di una involuzione proprio di quel federalismo che è considerato uno dei presupposti del progetto riformista di questo Governo. E le regioni, che pure avevano ottenuto che la protezione civile diventasse, per revisione costituzionale, materia concorrente, si sono rese in molti casi quantomeno consenzienti testimoni dell’instaurarsi di un siffatto sistema. Lo hanno fatto per obiettive difficoltà nel farsi carico di un problema certamente complesso, in emergenza o in prevenzione, ma spesso anche per discutibilissimi grandi eventi. Per risolvere situazioni contingenti è sembrato talvolta indispensabile, ma spesso semplicemente più facile, affidarsi alla protezione civile di Palazzo Chigi. Insomma si è fatto un passo indietro rispetto all’assolvimento di compiti istituzionali ben individuati e questo, alla distanza, si paga.
Il decreto in esame, si diceva, chiude in realtà un percorso; se così è lo sguardo deve essere necessariamente più ampio, leggendone la reale portata nei termini di una definitiva istituzionalizzazione di un metodo nuovo e diverso di gestione della cosa pubblica, che chiede tuttavia il sacrificio, tra l’altro, di alcuni fondamenti procedurali e di garanzia. Per tutto quanto fin qui detto, è necessario richiamare l’attenzione sul fatto che è sbagliato ritenere che il tema in discussione oggi sia “la protezione civile”, di fatto si tratta di confrontarsi con il tentativo di consolidare un marchingegno a valenza incredibilmente ampia, di instaurare un sistema che non sembra preoccuparsi eccessivamente del merito delle questioni, ma piuttosto del perfetto funzionamento degli strumenti più adatti all’acquisizione di consenso.
Gran parte dei problemi che questo Governo ha dovuto affrontare li ha avviati a soluzione attraverso il ricorso alla Protezione Civile, al poderoso potenziale derogatorio già indicato, che ne contraddistingue l’azione. Il Governo ha in realtà costituito un sistema di potere al centro del quale vi è la funzione di protezione civile, la sua utilizzabilità a larghissimo spettro, la presunzione di poter risolvere, senza impacci, ogni problema a fronte del conferimento di poteri straordinari. In un contesto di disattenzione piuttosto diffusa rispetto alle garanzie che si andavano via via perdendo, il Governo si è posto tutt’al più il problema, quando non si trattava di fronteggiare catastrofi, di trovare una giustificazione a tale straordinarietà. Non è stato difficile. Di volta in volta, o tutt’insieme, sono state invocate l’inefficienza della funzione pubblica, la complessità normativa, le costrizioni amministrative, l’applicazione “soffocante” dei controlli. Tutto grossolanamente riassunto nel termine burocrazia, che in realtà deve esser letto soprattutto come insofferenza alle regole. Non si è avuto timore, così facendo, di far intravedere la realtà di un paese che, non sapendo risolvere i problemi con strumenti ordinari, supera lo sbando in cui si trova con dannosissime semplificazioni. D’altronde, l’eliminazione delle eventuali disfunzioni dell’apparato pubblico non è mai stata davvero all’ordine del giorno di quest’esecutivo, salvo non volersi riferire al depistaggio messo in campo dal Ministro Brunetta. Insomma, è stato sufficiente delegittimare la funzione pubblica, riversare su l’amministrazione, pregiudizialmente inefficiente, ogni colpa. Il disegno prende forma, si completa con il decreto legge in esame: si esternalizza, si crea una s.p.a. di Protezione Civile, si sostituisce il pubblico con il privato in un contesto, per altro, di grande delicatezza istituzionale.
Ma nel percorso di completamento del “disegno 2001-2010”, vi sono state un altro paio di tappe importanti che val la pena di segnalare, non senza qualche preoccupazione. La prima si riferisce all’emergenza rifiuti a Napoli, significativa in forza del fatto che, in quell’occasione, venne introdotto un nuovo strumento ancor più straordinario. La proposizione della potestà commissariale e l’utilizzo del potere d’ordinanza, pur avendo consentito di bypassare oltre quaranta tra leggi e normative, lasciava in piedi il problema difficilissimo di tacitare la popolazione dissidente. Senza alcun imbarazzo, così, si è provveduto semplicemente alla militarizzazione delle aree. Discariche ed impianti sono divenute aree d’interesse strategico nazionale. Il che, di fatto, vuol dire che chiunque osi tentare di superare il limite invalicabile, per vedere dall’altra parte che succede, è passibile dell’applicazione dell’art 682 del Codice Penale che prevede l’arresto fino ad un anno.
Le “buone pratiche” evidentemente hanno successo, e così un’altra spinosa questione potrà essere risolta con gli stessi strumenti: il “nuovo” nucleare che avanza. Poiché l’aspetto più complesso è la scelta dei siti, la pratica del così detto effetto N.I.M.B.Y. (non nel mio giardino) da parte dei cittadini antinuclearisti, rappresenta ovviamente una minaccia. Così l’art.25 del disegno di legge approvato dal Senato il 9 luglio 2009, nel delegare al Governo la materia nucleare, prevede esplicitamente la dichiarazione di aree d’interesse strategico nazionale per i siti che saranno scelti. Un altro problema è così risolto, mentre altri si delineano all’orizzonte. Trova una collocazione ben precisa la dichiarazione di “emergenza carceri” fatta in Parlamento del Guardasigilli; probabilmente anche Stanca sarà salvato dal naufragio nella Milano del fantastico Expo da una dose massiccia di straordinarietà, somministrata a forza di ordinanze. Poi, magari, per la Torino-Lione, alla fine, se quelle teste calde dei valligiani non permetteranno nemmeno di fare i sondaggi….Ecco il sistema.
E poi un’emergenza vera, L’Aquila. E sulle modalità adottate dalla P.C. per affrontare il disastro è necessario fare un’ampia riflessione a partire da quando la “P.C. dei grandi eventi” ha dovuto ispirarsi alla “P.C. delle catastrofi” per poterne condividere le medesime prerogative. La letterale esplosione nell’utilizzo del ricorso alla prima delle due, ha trasformato ciò che era stato fin allora considerato un fatto lecito solo nella contingenza della catastrofe, in una disinvolta normalità applicabile a mille altre situazioni assolutamente estranee. L’ampiezza delle deroghe, l’attribuzione delle funzioni commissariali costantemente affidate al Capo della P.C., (un componente cioè dell’apparato centrale, diretta emanazione del Presidente del Consiglio), il conseguente avvilimento dei livelli locali di governo (era precedente consuetudine che il Commissario straordinario fosse il Presidente della Regione interessata dall’evento) ha creato un diverso, in qualche modo più autoritario, modello di riferimento.
Con il terremoto dell’Aquila si è realizzata l’inversione: si è fatto tesoro dei risultati conseguiti dalla pratica della “P.C. dei grandi eventi”. Quello adottato è ispirato al modus operandi utilizzato per i rifiuti a Napoli, governato con la durezza del confronto negato ai cittadini; quello della preparazione del G8 a La Maddalena o quello della gestione dell’infrastrutturazione per i mondiali di nuoto 2009 a Roma, dai contorni di una gigantesca stazione d’appalto dimostratasi per altro davvero poco affidabile.
Il risultato della gestione dell’intervento in Abruzzo, quindi, non è quello proposto dagli organi d’informazione embedded, distratti o narcotizzati, ma piuttosto quello che sta emergendo dopo le enfasi estive:
l’eccessiva semplificazione con cui è stato gestito il lunghissimo periodo sismico che ha preceduto la scossa principale del 6 aprile, interpretato in modo inquietante solo dalla popolazione. Semplificazione fondata su un ultimativo, purtroppo ineccepibile “i terremoti non si possono prevedere”, senza tuttavia escludere che molto di più si sarebbe potuto e dovuto fare in via precauzionale;
l’interpretazione davvero singolare che è stata data alla fase della ricostruzione, gestita con gli strumenti dell’emergenza, con le logiche e i ”legittimi abusi” propri di una fase che avrebbe dovuto riguardare esclusivamente la messa in sicurezza della popolazione;
l’overdose di sicurezza, come tale difficilmente criticabile, offerta dagli alloggi durevoli sismicamente isolati, ma che lascia molte perplessità se letta in un quadro più generale di allocazione di risorse (poche) per la prevenzione, rispetto ad un generale contesto di incidenza del rischio simico (molto elevato e diffuso) nel paese;
la sperimentazione, in alternativa all’avvio della ricostruzione, di una massiccia nuova edificazione, compendiata nell’originale slogan “dalle tende alle case” ma più realisticamente mutuabile in “da L’Aquila ad una nuova, diversa città”, che ha visto la realizzazione di una città diffusa fatta di case durevoli per la metà della popolazione del capoluogo distrutto;
l’adozione di un sistema di gestione del dopo terremoto, fondato su un esasperato centralismo, sulla cancellazione della logica partecipativa e, come si diceva, sulla negazione del principio di sussidiarietà, che ormai sembrava essersi consolidato.
Tutto ciò sta determinando una totale indeterminatezza nel percorso di uscita dall’emergenza; nel ripristino, per quanto possibile, di normali condizioni di vita (ventimila cittadini passeranno l’inverno negli alberghi della costa adriatica); nella definizione progettuale dell’assetto socio-economico dell’area, da fondare su una “ricostruzione” effettiva e non solo edilizia.
Se questa è la sintesi dell’esperienza abruzzese, vi è un aspetto più sottile, solo percepito soprattutto dal popolo delle tende. Riguarda il tratto duro, perentorio, in qualche misura autoritario di una P.C. che si è andata via trasformando nel percorso qui descritto in una macchina dove il profilo profondamente umanitario che l’aveva sempre contraddistinta, ha lasciato ampi spazi all’efficientismo e al pragmatismo assoluto. Così la solidarietà è sembrata esser rimasta patrimonio esclusivo dalla componente, così diversa, del volontariato e dei Vigili del Fuoco.
Questo decreto quindi, come ultimo atto, almeno per ora, di un percorso al quale bisognerebbe invece guardare nel suo complessivo significato, per meglio poter cogliere le ragioni di alcune nuove disposizione in esso contenute.
Giunge finalmente il trasferimento del commissariamento, che viene posto in capo al Presidente della Regione e ad altri livelli di rappresentanza del territorio. Lo si fa ora quando, in altri terremoti o alluvioni, era divenuta consuetudine farlo il giorno dopo. Lo si fa quando ciò che premeva al Governo (una città nuova per 17mila abitanti, per esempio) è stato ormai fatto. Lo si fa quando, la cosa più difficile da fare, ricostruire L’Aquila, affidata al nuovo commissario è tuttavia collocata all’interno di una serie di paletti lasciati ben infissi nel terreno, E tra questi certamente Protezione Civile spa. Premeva al Governo raccogliere consensi con l’incredibile impresa passata attraverso l’espressione “dalle tende alle case”; operazione dannosa quanto disinvolta, a causa della quale, un terremoto di inizi primavera costringe migliaia di senza tetto a trascorre un inverno sulla costa adriatica. Premeva al Capo del Governo mietere consenso e su L’Aquila ha fondato un forte recupero di popolarità.
Nell’adottare la soluzione creativa delle case durevoli, il Governo ha anche speso troppo. Oltre la costruzione delle venti nuove periferie, dovrà affrontare il costo di una ricostruzione vera del centro storico che, all’inizio non voleva finanziare. Ha speso anche male, gettando le premesse per la decadenza di una città bella e preziosa come l’Aquila. Sulla ricostruzione del capoluogo ancora nulla si sa, almeno ufficialmente. Si sa tuttavia che non seguirà la logica del “come prima, dove prima”; non si sa invece quando, per cosa e per chi sarà ricostruita. La speculazione volteggia pericolosamente sulla città; è con tutto questo che il nuovo Commissario/Presidente della Regione si dovrà cominciare a confrontare, a quasi un anno dal disastro.
Così, la creazione della Protezione Civile società per azioni proprio dall’esperienza abruzzese trae spunto, ed alla ricostruzione della città, come società in house alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è anche destinata. L’ampio confronto che è intervenuto in sede comunitaria sulla costituzione di questo tipo di società nella Pubblica Amministrazione e sui limiti dell’utilizzo, molti lo considerano ancora non del tutto concluso. Una cosa tuttavia è consolidata: la straordinarietà del mezzo (società a capitale pubblico) a fronte dell’ unico sistema ordinario, di riferimento che deve rimanere incardinato su pubblicità e trasparenza della prassi di affidamento. Una società in house di totale proprietà della Presidenza del Consiglio dei Ministri, gestita attraverso la Protezione Civile ma non solo alle sue esigenze destinata, che potrà completare l’universale spettro della derogabilità, della celerità, della flessibilità di cui il Capo del Governo ampiamente già dispone e di cui ha bisogno per gestire il paese delle emergenze vere e fittizie. Perplessità alla istituzionalizzazione di questa nuova modalità di far protezione civile se ne registrano moltissime. Importantissima è soprattutto la posizione che pare sia stata assunta dalla Conferenza delle regioni, sostenuta da motivate obiezioni. Sarà sufficiente tutto questo per rivedere la norma in sede di conversione? Probabilmente no. La posta in gioco è alta, certamente più alta di quel che appare, e il voto di fiducia è divenuto quasi regola.
Il decreto sarà convertito e sarà dato luogo a un sistema senza precedenti di aggregazione di prerogative pubbliche e private, da utilizzare per qualsiasi, davvero qualsiasi, cosa si voglia fare. E’ per questo che il discorso travalica la “questione protezione civile”. Il terremoto in Abruzzo, poi, dissipa ogni dubbio circa l’effettiva volontà di attuare una simile logica: lì è stata già applicata, ancorché alcuni aspetti non avessero ancora forza normativa; ad altri sconfinati ambiti sarà esportata, prefigurando davvero un eccesso di potere.
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