domenica 1 aprile 2012

Una legge in mezzo al guado

di Raniero La Valle

L’innaturale alleanza dei tre partiti che sostengono il governo Monti, stipulata per fronteggiare l’emergenza, e legittimata dalla sua stessa provvisorietà, rischia di produrre, prima di sciogliersi, dei danni di lunga durata. Infatti i partiti di Alfano, di Bersani e di Casini hanno deciso tra loro di fare una nuova legge elettorale e una riforma della Costituzione che non promettono nulla di buono.

Secondo i primi accordi, a quanto se ne sa, la nuova legge elettorale risulterebbe da una miscela di proporzionale e maggioritario, di collegi uninominali e liste bloccate, di seggi regalati agli uni e tolti agli altri, di sbarramenti per non far entrare i partiti minori in Parlamento e “diritti di tribuna” per dar loro uno strapuntino da cui parlare, di designazione preelettorale del premier e discrezionalità postelettorale dei partiti nella formazione dei governi. Insomma, come certi incauti riformatori, quelli che hanno ideato questa legge vogliono tutto, il contrario di tutto e subito.

Non possiamo entrare qui nel merito delle singole misure, tanto più tecnicamente complicate quanto più figlie della contraddizione e del compromesso. Diremo però che questa nuova ipotetica legge non rimedia a nessuna delle storture che avevano fatto della vecchia e tuttora vigente legge Calderoli un “porcellum”.

La legge progettata non ha il coraggio di ripristinare le preferenze per dare la scelta dei parlamentari agli elettori e non agli apparati; ha il pudore di non insistere sul bipolarismo, però vorrebbe una partita con solo quattro o cinque giocatori; non elargisce più una maggioranza bulgara al partito o alla coalizione vincente, ma non ha il coraggio di una limpida scelta proporzionale per cui ciascuno rappresenti il suo elettorato reale; favorisce, ritagliando piccoli collegi, i partiti maggiori, e ai minori fissa una soglia del 4 o 5 per cento sotto la quale sono esclusi dal Parlamento; regala un po’ di seggi “di governabilità” al primo partito, ma ne regala anche, benché un po’ meno, al secondo; riserva ai partiti, dopo le elezioni, la scelta del presidente del consiglio da proporre al capo dello Stato, ma non osa rinunciare al populismo e al culto della personalità permettendo ai leaders di mettere il loro nome nel simbolo elettorale.

La vecchia legge concepiva poi il potere come un trofeo da conquistare e approdava allo spoil system, che voleva dire che il vincitore si prendeva tutte le spoglie, chi vinceva prendeva tutto (governo, sottogoverno, RAI, Mondadori e quant’altro), e chi perdeva, perdeva tutto. La nuova legge, dato che nessuno è sicuro della vittoria e ciascuno vuole limitare i danni della sconfitta, sembra invece concepire il potere come un bottino da spartire; come dice il libro dei Giudici: “Han trovato bottino, stan facendo le parti, una fanciulla, due fanciulle per ogni uomo, un bottino di vesti variopinte per Sisara, una veste variopinta a due ricami…”. Se la prima era una legge di rapina, questa è una legge di spartizione; ma è pur sempre una legge preda.

In termini politici la superiorità della legge progettata rispetto alla legge Calderoli sta nel fatto che non obbliga più alle coalizioni, che costringono ad alleanze forzate, e non divide più il Paese nei due poli di amici e nemici. È un grande progresso; ma nel progettare il pluralismo essa non va più in là della dottrina dei due forni: c’è il forno del PD e il forno del PDL, e poi c’è il fornaio che è Casini. Cioè sarà una minoranza ad avere in mano le chiavi del gioco.

Ma c’è un problema ancora più grave che una cattiva riforma elettorale, ed è che la si vuole collegare a una repentina riforma costituzionale, che va dal passaggio al monocameralismo alla riduzione del numero dei parlamentari, dall’aumento dei poteri del presidente del Consiglio allo svuotamento del controllo di fiducia della Camera. La pretesa sarebbe di varare la riforma, con una maggioranza che impedirebbe perfino il ricorso al referendum popolare, entro i pochi mesi che restano di questa legislatura.

Qui le obiezioni sono di metodo e di merito. Nel metodo, va eccepito che una riforma così incisiva richiederebbe un ampio dibattito nel Paese, e non potrebbe acquisire la necessaria dignità e autorevolezza se fosse attuata a fine vita da un Parlamento che in gran parte è screditato, sia per il modo della sua formazione, sia per molti suoi comportamenti. Nel merito va respinto il proposito di creare meccanismi che rendano il governo di fatto inamovibile per cinque anni: così accadrebbe se non potesse darsi sfiducia al governo se non “costruttiva”, cioè con premeditazione del ribaltone, e se la Camera non potesse votare la sfiducia sulle leggi senza avere una vocazione al suicidio, il voto contrario comportando non il licenziamento del governo ma lo scioglimento della stessa Camera.

Non sarebbe prudente, nel caso, avere un governo Monti inamovibile per cinque anni: in cinque anni si può rieducare un Paese, ad esempio convertendolo dalla cultura dei diritti alla cultura dei mercati, e l’idea di una pedagogia riformatrice per un Paese “non ancora pronto”, il presidente Monti l’ha enunciata con la consueta cartesiana chiarezza.



Nessun commento:

Posta un commento