domenica 29 settembre 2013

Alla settimana alfonsiana 26 settembre 2013 - “Oggi sarai con me in Paradiso”


di Raniero La Valle

“Oggi sarai con me in paradiso”, “Hodie mecum eris in paradiso”, Luca 23,43.
Da questo testo vorrei ricavare tre suggerimenti:
1) Il primo. Il testo dice: “sarai”, non “ritornerai”. Eppure sul tema del ritorno in paradiso è fiorita tutta una letteratura spirituale ed una predicazione religiosa.
Il ritorno al paradiso suppone che il paradiso stia nel passato: è il luogo che abbiamo perduto e al quale dobbiamo tornare. A questa idea corrisponde una precisa teologia: è la teologia della salvezza che sta nel passato, della terra promessa che è quella da cui siamo usciti, del Padre da cui ci saremmo allontanati e al quale dovremmo tornare.
E’ la teologia del reditus, del ritorno; non è la teologia della rivoluzione, e non è nemmeno la teologia della conservazione: è la teologia della restaurazione.

Il paradiso perduto

Essa suppone un ordine che stava nel passato, un ordine del cosmo che si è rotto. Le ragioni che si portano di questa rottura primordiale sono molteplici. La prima, avanzata dalla letteratura apocalittica ebraica dopo l’esilio a Babilonia, è che il mondo non era come Dio lo aveva voluto. La creazione gli era riuscita male, e doveva quindi essere rifatta da capo; oppure essa si era guastata a causa di una congiura di angeli che avevano sciupato l’opera di Dio, come ancora dice il catechismo della Chiesa cattolica, infaustamente promulgato nel 1992; l’altra ragione, avanzata dalla dottrina cristiana, è che questa catastrofe originale sarebbe avvenuta per colpa nostra. Questa colpa starebbe nel fatto che noi abbiamo compiuto un peccato così potente da sconvolgere tutto l’ordine del cosmo, la natura e la cultura, la terra e gli uomini di tutte le generazioni. Questa colpa sarebbe stata tale da offendere Dio con un’offesa infinita, tale da potere essere lavata solo col sangue di un Dio, e quindi col sangue del Figlio. Questo è quello che a partire da Anselmo da Aosta si tramandava nelle nostre teologie.
In questa visione pertanto il Paradiso stava prima della storia, prima del peccato originale, prima che l’uomo e la donna fossero cacciati dal giardino dell’Eden e condannati alla morte, al sudore del lavoro, ai pruni e alle spine della terra e ai parti con dolore. Era peraltro un paradiso molto precario, subito perduto, come se Cristo non ci fosse stato; ma ciò contraddice tutta la cristologia nicena, su cui è costruito il cristianesimo, secondo la quale Cristo redentore è coeterno al Padre, ed è all’opera fin dalla fondazione del mondo.
E infatti, come finalmente dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen Gentium”, Dio non cacciò nessuno dopo la caduta, ma intuitu Christi, in vista di Cristo Redentore, non abbandonò l’uomo e mai gli negò gli aiuti necessari alla salvezza.
L’idea del paradiso che sta nel passato e al quale, mondati, dovremo tornare, non è peraltro un’idea innocua, e per questo ne parliamo.
E’ infatti l’idea di una storia pensata all’indietro, che marcia in senso antiorario, è l’idea che la perfezione stava all’inizio, e che dopo la sua perdita non ci sono state che macerie, oppure, come diceva il papa Ratzinger felicemente ex regnante, ci sarebbe stato “un fiume sporco”, che è la storia. La perfezione dell’inizio, secondo questa concezione, sarebbe invece rimasta nell’ordine della natura, che perciò è considerato come immutabile, è concepito come sacro, e come tale portatore di principi non negoziabili, e fonte di un diritto di natura di cui la Chiesa sarebbe infallibile interprete e di cui dovrebbe farsi garante contro il diritto positivo e, secondo Ratzinger, contro la democrazia delle maggioranze.
Il paradiso però non è questo, e non si trova così. Il paradiso è proprio quello che distoglie dalla prigionia del passato e scompiglia questa concezione di una storia rivolta all’indietro.
Lo leggiamo nelle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, dove la storia è presentata sotto le vesti dell’Angelus Novus dipinto in un quadro di Klee. Questo Angelus Novus, che sarebbe l’angelo della storia, e perciò secondo questa allegoria sarebbe la storia stessa, ha gli occhi spalancati, le ali distese e il viso rivolto al passato. Ma nel passato egli vede solo catastrofi che accumulano senza tregua rovine su rovine e le rovesciano ai suoi piedi. L’angelo – cioè la storia – vorrebbe fermarsi a sanare le rovine e ricomporre l’infranto. Ma lì non c’è il paradiso. Dal paradiso invece, dice Benjamin, spira una tempesta che si è impigliata nelle sue ali ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ma lui se ne allontana, non ne è trattenuto. La tempesta che viene dal paradiso invece lo spinge avanti, spinge avanti la storia, il paradiso è più avanti, l’attrae verso di sé.


Il paradiso futuro

Il paradiso dunque sta nel futuro, la perfezione non è al principio, ma è alla fine. Antico e Nuovo Testamento annunciano cieli nuovi e terre nuove, non il ripristino dei vecchi.
Com’è noto però le tesi teologiche non restano confinate sul terreno religioso ma si trasformano in dottrine e concetti politici come, secondo Carl Schmitt, è avvenuto per tutti i principali concetti politici dell’Occidente; così la tesi teologica del ritorno al paradiso si è secolarizzata prendendo le forme del pensiero reazionario: più restaurazione che conservazione, più controrivoluzione che centrismi moderati.
Per il pensiero reazionario la società ideale è quella che c’era prima, la situazione da ripristinare è quella perduta. Questa pulsione al ritorno al passato non è solo degli assolutismi, insofferenti delle nuove forme democratiche; è anche la tesi delle banche secondo cui per stare nella competizione l’Europa dovrebbe rinunciare a molte conquiste di civiltà degli ultimi 50 anni, è anche la fissazione di Bruxelles di riportare i bilanci al vecchio mito del pareggio, è anche l’attacco berlusconiano alla politica per il rovesciamento delle regole moderne e l’abrogazione delle norme a lui sgradite, ed oggi è la libidine delle riforme costituzionali per tornare allo Statuto Albertino e allo Stato liberale in salsa semipresidenziale.
Però è accaduto che la tesi teologica del paradiso che sta dietro di noi, della fissità dell’ordine della natura, della salvezza che sta nel ripristino del passato, è stata destituita di validità dal Concilio Vaticano II, che ha invece sposato la tesi dell’evoluzione e del compimento nel futuro. Dice infatti la Gaudium et Spes che oggi è cambiata la cultura e il modo di pensare, in modo tale che di fronte alle profonde mutazioni in corso, il “genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove” (Gaudium et Spes n. 5).
Così anche il paradiso non appare più come un ritorno lì da dove fummo cacciati, ma un andare dove mai fummo.

La salvezza è per oggi

2) Il secondo suggerimento che viene da questo testo è che esso dice: oggi. Il paradiso, la salvezza, è per l’oggi, non bisogna aspettare la fine dei tempi, non bisogna aspettare chissà quali scuotimenti perché il paradiso possa venire. In questo senso è un testo antiapocalittico. Gesù annuncia il Vangelo, non l’apocalisse, annuncia la grazia, non la vendetta di Dio, come ha mostrato nella sinagoga di Nazareth: oggi – egli disse infatti – questa profezia si è compiuta davanti a voi.
L’apocalisse è la teologia della catastrofe. Essa sostiene che la salvezza del mondo nuovo, il paradiso, non può giungere se non dopo che questo mondo sarà stato distrutto.
L’ideologia apocalittica è basata sull’idea disperata che il mondo è sbagliato e cattivo, ma è anche persuasa che esso sarà totalmente risanato e sostituito da un mondo migliore. Ma ciò avverrà attraverso una tragedia.
Se ne trova la rappresentazione più plastica nel IV libro di Esdra, un’apocalisse ebraica che appare nel I secolo all’inizio dell’era cristiana. Essa descrive il mondo nei termini di una drastica antitesi: “L’Altissimo ha fatto non una sola età, ma due”. Il primo mondo si è gravemente corrotto, “ciò che era buono se ne andò, ciò che era cattivo rimase”; ma “quel male che era stato seminato, non è ancora venuto il tempo di mieterlo. Se non sarà mietuto quello che è stato seminato, e se non scomparirà il luogo dove è stato seminato il male, non verrà il campo dove è stato seminato il bene”. Estirpare per piantare. Se il mondo non scompare quello buono non verrà. Bisogna affrettarsi “a uscire da questi tempi”, “il mondo ha perduto la sua giovinezza”, ci sarà un passaggio da un’età all’altra, ma sarà tutt’altro che indolore, perché “l’Altissimo ha fatto questa età per molti, quella futura per pochi”. A Dio fa dire infatti il veggente: “mi rallegrerò dei pochi che si salveranno, per i quali il mio Nome è onorato, e non mi rattristerò per i tanti che periranno, perché sono quelli che già ora sono simili a vapore, e fatti uguali a fiamma o a fumo: sono bruciati, arsi, estinti”; invece si salverà “l’acino” che Dio si era  riservato, “il germoglio” e la pianta che aveva “portato a termine con tanta fatica”, e cioè Israele.
Dunque il paradiso ci sarà, ma per pochi, e non per oggi ma per un lontano domani.

Contro le teologie apocalittiche

Questa concezione ha avuto una profonda influenza sul messianismo ebraico, che si è imbevuto di questa idea della catastrofe tanto da far dire ad alcuni sapienti di Israele: “il Messia deve venire, ma io non lo voglio vedere”.
Oggi vi sono delle correnti sioniste religiose che interpretano la fondazione dello Stato di Israele come “l’inizio della redenzione”, ma prima che lo Stato di Israele venisse istituito, fino all’inizio dell’impresa sionista, la posizione più diffusa tra i rabbini è sempre stata che non si dovesse “forzare la fine”, che si dovessero aspettare i tempi lunghi di Dio, che Israele non dovesse essere ristabilito per mano d’uomo; secondo questa visione l’era messianica irromperà dall’esterno, in assoluta discontinuità con la storia presente. Questo in effetti fu il modo in cui dal popolo ebreo fu vissuta la diaspora. C’è un grande storico del messianismo ebraico, Gershom Scholem, secondo il quale questo messianismo ha avuto una grave ricaduta sulla vita ebraica, ha avuto un prezzo; e “il prezzo del messianismo”, per Scholem, è stato per gli ebrei “una vita vissuta nel differimento”. Tutto, anche il riscatto politico, è rimandato al futuro.
Ora la parola di Gesù – “oggi sarai con me in paradiso” – grida sia contro le teologie apocalittiche della catastrofe, sia contro i messianismi del rinvio.
Il paradiso è per oggi: il regno di Dio è qui, in mezzo a voi, dice Gesù, non andate a prenderlo al di là del cielo, o al di là del mare, o al di là della morte, esso è vicino.
E anche questo evangelo della prossimità ha una ricaduta sulle dottrine politiche. Non si può rinviare a domani il fare giustizia. Non ci si può rassegnare alla miseria presente in attesa della beata società futura. C’è stata una discussione sulla Costituzione repubblicana, se essa, nelle esigenze che pone e nei diritti che stabilisce, fosse precettiva o programmatica, se cioè stabilisse diritti immediatamente esigibili o semplicemente promessi. Gli avversari della Costituzione sono naturalmente per un’interpretazione visionaria di essa, sono per il rinvio, per il differimento: la Repubblica fondata sul lavoro? Sarebbe una bella cosa, ma intanto la fondiamo sul profitto. Il diritto allo studio? E’ un buon programma, ma se ne parlerà un’altra volta. Il ripudio della guerra? Sì, ma intanto facciamo le guerre umanitarie. Il paradiso può attendere. Ma non è così. In realtà la Costituzione è la norma precettiva per l’oggi: dice che oggi, e non domani, la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che di fatto – cioè oggi – limitano la libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e perciò, per dirlo con la Dichiarazione di indipendenza americana, la ricerca della felicità dei cittadini.
La Costituzione dice che la società dei diritti e delle libertà fondamentali, delle garanzie e della giustizia, deve realizzarsi già oggi, senza bisogno di rivoluzione; se poi la rivoluzione sarà necessaria, perché i poteri sono iniqui, l’eguaglianza è negata e la politica è sconfitta, ebbene sarà una rivoluzione e non un’apocalisse.
Per creare un mondo più pacifico e giusto, dove il paradiso cominci, non c’è bisogno né della guerra perpetua, né di bombardare la Siria, né della catastrofe economica, né di ogni altra apocalypse now.

La meta è sempre al di là

3) Il terzo suggerimento che si può trarre da questo testo viene dal fatto che se anche il paradiso è per oggi, il verbo – “sarai” in paradiso – è comunque coniugato al futuro. Il paradiso è per oggi, ma non è già posseduto, è sempre da raggiungere. Esso è imminente, è vicino, ma resta sempre futuro. Questo vuol dire che non si esaurisce in un possesso già acquisito, non è un bottino da conservare, ma è sempre una sponda da raggiungere, una terra in cui sbarcare. Il tempo si è fatto breve, dice San Paolo in un testo messianico, ma di un altro messianismo, della I lettera ai Corinzi. Che sia breve il tempo che ci separa dal paradiso non vuol dire che il paradiso è arrivato, ma, letteralmente, che “il vento ha caricato le vele”, o kairós sunestalménos estΐn, dice il testo greco, siamo noi che corriamo più in fretta.
Questo vuol dire che il paradiso di cui noi possiamo fare esperienza sulla terra non è la meta definitiva, ma resta aperta una riserva escatologica. La meta ultima è sempre al di dà di quella che abbiamo raggiunto.
Stare nel mondo, battersi per l’oggi del mondo, non licenziare prematuramente il mondo, come diceva Bonhoeffer, non significa rinchiudersi nel suo limite, accettarlo così com’è, non investirlo di un’eccedenza che lo metta in questione, non guardare oltre, non immaginare un altrove.
Nel momento stesso in cui cerchiamo di realizzare quel tanto di paradiso in terra che è possibile oggi – quel tanto di socialismo, quel tanto di cristianesimo, quel tanto di democrazia, quel tanto di Costituzione – resta la riserva escatologica, restano le “cose ultime” pensate come salvezza, come eternità, come redenzione. Se il prezzo di una fedeltà al mondo, di una critica alle dottrine della catastrofe e del rinvio, fosse la perdita dell’escatologia, il cristianesimo sarebbe ferito a morte, e anzi finito. Esso si ridurrebbe alla cristianità realizzata, che Kierkegaard negava addirittura che fosse cristianesimo; verrebbe meno il regime di alterità dell’annuncio evangelico, resterebbe un  cristianesimo “conveniente al mondo”, e nemmeno la Chiesa sarebbe riformabile.
Ma non solo il cristianesimo sarebbe colpito da questa perdita: in tutte le culture si ritrova infatti, come una costante antropologica, il pensare a un futuro in cui la storia sarà riscattata, la sofferenza sarà risarcita, la giustizia sarà trovata. “C’è una giustizia, ed io la troverò”, grida uscendo sulla strada la povera vedova Katerina Ivanòvna in “Delitto e castigo” di Dostoewski. Appartengono all’esperienza umana comune il bisogno di non rassegnarsi alla situazione data, e anche il grido contro di essa, e l’aspettativa di averne ragione. C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non trovi né consolazione né fine.
L’escatologia mette in questione l’ordine esistente. Perciò i poteri non vogliono escatologie, filosofie della storia, ideologie, vangeli e profezia, perché non vogliono che sia messo in discussione il regno del presente che è il loro regno. L’escatologia è la non definitività e anzi la critica del regno presente in quanto resti immodificato, cioè è la rivoluzione.
Il cristianesimo che perda l’escatologia perde la sua anima, ma il mondo perde la rivoluzione.

Questi sono dunque i tre suggerimenti che vengono da questo testo: il paradiso non sta dietro ma sta davanti a noi; è per oggi, senza apocalissi, ma è anche sempre nel nostro futuro.


Un’esperienza del paradiso

4) Ma la notizia più importante avuta dal ladrone e ricevuta oggi anche da noi, è che in paradiso ci saremo non da soli, ma con Gesù. Dunque dove c’è il paradiso c’è Gesù, e dov’è Gesù lì è il paradiso.
Questo vuol dire che fin da ora noi possiamo fare esperienza del paradiso, e che fare esperienza del paradiso, che se ne possa essere consapevoli o no, vuol dire essere con Gesù.
Allora parliamo di qualcuna di queste esperienze di paradiso.
La prima è quella della veglia in Piazza San Pietro del sabato 7 settembre.
Confesso che ero andato in San Pietro con l’idea che avrei trovato la solita piazza piena di gente vociante, con striscioni e bandiere, e poi a un certo punto dalla solita finestra dell’Angelus ci sarebbe stato il discorso del papa. La forma infatti era quella di una veglia di preghiera, ma la sostanza era quella di una manifestazione politica di massa per convincere gli Stati Uniti a non bombardare la Siria. Anche il digiuno, proclamato dal papa, era inteso come una forma di lotta politica, infatti subito Pannella aveva detto che quanto a digiuni lui e i radicali ne avevano fatti ben prima del papa.
Ma quando sono arrivato in Piazza San Pietro ho trovato la finestra della terza loggia chiusa e ho sentito il papa che non faceva un discorso, non faceva un’omelia, ma quasi sussurrando meditava sul Vangelo. Né riuscivo a capire dove stesse il papa: si vedeva riprodotto sugli schermi ma non si capiva dov’era; poi l’ho visto, come un puntino bianco, solo, in piedi, davanti a un altare montato in cima alla scalinata della Basilica. Sul lato dell’altare c’era un immagine della Madonna; era un’icona, l’icona di Maria Salus populi romani, che è una Madonna Odigitria che da secoli sta nella basilica di Santa Maria Maggiore. Dunque non si trattava di aver messo su un altare all’aperto anche un quadro della Madonna quali sempre si trovano nelle chiese per la devozione mariana, si trattava dell’ostensione di un’icona che nella tradizione della grande Chiesa, soprattutto d’Oriente, significa rendere presente il divino, che nel caso della Madonna Odigitria è Gesù mostrato dalla madre.
Più tardi sarebbe stata esposta anche l’eucarestia; ma oltre al papa, all’icona e all’eucarestia, c’era un altro protagonista che riempiva tutta la scena: ed era il popolo, la piazza ricolma di 100.000 persone, e ciò che era più impressionante era che tutti, popolo, papa, icona e sacramento erano accumunati da un altissimo, profondissimo silenzio. Certo ci sono state le letture, i canti, l’omelia, ma solo per brevi tratti, perché a dominare tutta la serata è stato il silenzio.
Il silenzio è stato l’aspetto più trascurato della riforma liturgica conciliare. Per l’esigenza di far capire i significati dei riti, le celebrazioni liturgiche sono state riempite di preghiere, di letture, di canti, di parole, come se nella preghiera pubblica della Chiesa si dovesse aver paura del silenzio. Il papa, il 7 settembre, ci ha restituito il silenzio. Già lo aveva fatto la sera della sua elezione, quando prima di benedire, aveva chiesto per sé una preghiera, un silenzio, una tacita investitura. Ma ora era come se a tutta la Chiesa, e anche al mondo che guardava in televisione, avesse restituito come dono prezioso il silenzio, e con il silenzio la preghiera, la contemplazione. Nella società delle colonne sonore, dei decibel, delle chiacchiere, dei talk show, ecco che tornava a farsi silenzio. E la cosa impressionante era che, tra quelle 100.000 persone, nessuna era disturbata dal silenzio e nessuna turbava il silenzio; ma tutti pensavano, pregavano, in piedi, inginocchiati, seduti e tutti non da soli ma in questo grande coinvolgimento, in questa grande comunione del silenzio che univa papa, popolo, icona e sacramento. Quel silenzio accumunava anche il mondo di fuori e le coscienze di dentro, univa cielo e terra, presente e futuro.
Allora vorrei dire che in quella veglia per la pace, in quel silenzio che aveva lo scopo di impedire una guerra, quella sera io ho fatto un’esperienza di paradiso.
Mi sono ricordato di qualcuno che un'altra volta aveva detto di aver fatto in San Pietro un’esperienza di paradiso: era stato il padre Duprey, del Segretariato per l’unità dei cristiani, che il giorno in cui il Concilio aveva rimosso le scomuniche tra Roma e Costantinopoli, tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente, aveva detto che gli era sembrato di essere in paradiso.
La veglia del 1 settembre è una delle più alte azioni pastorali compiute da papa Francesco, insieme alle omelie in Santa Marta, al viaggio a Lampedusa e al viaggio in Brasile, e tutte queste cose insieme ci permettono di ricondurre ad unità la varietà delle proposte e delle linee programmatiche di questo pontificato. Questa unità consiste nel fatto che tutto il suo scopo, il suo svolgimento e la sua norma è quello di portare gli uomini e le donne del nostro tempo, e non solo i fedeli, a fare l’esperienza del paradiso.
Non il proselitismo, non l’apologetica, non la promozione della Chiesa, non la restaurazione della dottrina, non il potere temporale e politico, non la difesa del Logos greco, non la vittoria nella disputa tra fede e ragione, ma il paradiso è lo scopo di questo pontificato: che gli uomini e le donne incontrino Gesù, e se non lo incontrano che seguano il dettato della loro coscienza facendo ciò che da essa è percepito come bene, che si amino gli uni gli altri, che accolgano il povero e lo straniero e che si faccia la pace, e così avranno il paradiso. Cioè avranno in questa vita e in quell’altra l’instancabile perdono e la misericordia di Dio: questo è il target, l’obiettivo; e la lunga intervista alla Civiltà Cattolica ne dice insieme la “certezza dogmatica” e il percorso.

La riforma del papato

Dunque il programma è semplicemente il Vangelo. Ma dare a un pontificato questo e non altri programmi implica una cosa straordinaria, che è la riforma del papato. Perché non sempre è stato così. E questo vuol dire anche riprendere in mano il Concilio Vaticano II, perché dove il Concilio è caduto è stato proprio nella mancata riforma del papato. Riprendere in mano il Concilio, a cinquant’anni dalla sua celebrazione, vuol dire reinterpretarlo finalmente non come un Concilio senza teologia perché pastorale, ma come un Concilio sulla fede “che la nostra età esige”, e farlo ripartire da lì dove il Concilio aveva fallito.
Il Concilio infatti aveva fatto teologia avviando una nuova narrazione della fede che nella forma e nei contenuti rispondesse a ciò che i nostri tempi richiedono (“quam tempora postulant nostra”), aveva promosso una riforma della Chiesa, ma si era bloccato e si era arenato quando aveva fatto l’inchino al papato e ne aveva mancato la riforma.  Ne aveva bensì avvertito la necessità, ne aveva posto le premesse, ma non l’aveva compiuta. Né avrebbe potuto farlo. Il papato aveva resistito, e in questi 50 anni dopo il Concilio abbiamo fatto l’esperienza che il papato non si può riformare se il papato stesso non riforma se stesso, e d’altra parte abbiamo capito  che senza riforma del papato, nella Chiesa romana, non si dà riforma della Chiesa. Questa è stata la crisi della Chiesa postconciliare fino alla drammatica rinuncia di Benedetto XVI. Quella rinuncia è stata però il primo potente atto di una riforma del papato ed ora Bergoglio assume la riforma del ministero petrino come vocazione e missione specifica del suo pontificato. Questa riforma non si realizza tanto nei cambiamenti della curia o dello IOR, ma nel cambiamento della figura del papa come vescovo di Roma, e in quest’unico programma che è quello enunciato da Giovanni XXIII sul letto di morte: il papa legge il Vangelo e coi vescovi lo commenta.

Ci sarà un Francesco II?

Questo proporre il Vangelo e solo il Vangelo è così stupefacente e considerato così eccezionale dai nostri contemporanei, che Eugenio Scalfari si spinge a dire che non ci sarà un Francesco secondo. Scalfari si è molto stupito quando il papa gli ha detto che la verità non è assoluta, non è slegata da tutto, ma è una relazione con l’amore di Dio, quando gli ha detto che per chi non ha fede, e neanche la cerca, la questione sta nell’obbedire alla propria coscienza, quando gli ha detto che non c’è contrasto tra i lumi dell’illuminismo e il Lumen gentium della fede cristiana, quando gli ha detto che Dio è tutto in tutti e si è unito a tutti gli uomini come figli: “ma questa è immanenza, non è trascendenza!” ha esclamato Scalfari con grande meraviglia. No, questo è il cristianesimo, questa è la Trinità, questa è l’incarnazione, questo è il Vangelo, questo è san Paolo. Però Scalfari non lo sapeva, nonostante che abbia detto alla Gruber che da piccolo aveva vinto un concorso così da essere nominato “imperatore del catechismo”; e allora bisogna chiedersi che cosa ha fatto capire di sé, ai fedeli di allora, la Chiesa prima del Concilio, bisogna chiedersi quale fede fosse veicolata attraverso le formule del catechismo, bisogna chiedersi quale Vangelo fosse annunciato nel latino dell’ordinario romano o negli enciclopedici discorsi di Pio XII. Bisogna chiedersi che Chiesa era, e che papi erano quelli di cui Eugenio Scalfari insieme ad Italo Calvino, uomini pur capaci di comprendere le cose, non capirono il messaggio e da cui presero le distanze in giovane età.
E allora si capisce la meraviglia di Scalfari e perché dice che mai ci potrà essere un Francesco secondo. Ma per fortuna il giornale “La Repubblica”, se detta l’agenda a Napolitano e al governo, non può dettare l’agenda di Dio.
Io credo invece che se con papa Francesco la riforma della Chiesa avviata col Concilio si completerà con la riforma del papato e se l’una e l’altro, come dice il papa alla fine della sua lettera alla “Repubblica”, nonostante tutte le lentezze le infedeltà gli errori e i peccati non avranno “altro senso e fine se non quello di testimoniare Gesù”, allora potranno esserci altri Francesco, e potrà davvero esserci una Chiesa nuova.
C’è un’ultima cosa da dire. Se la veglia del 7 settembre è stata un’esperienza del paradiso, questa esperienza è stata fatta non solo dai credenti cristiani ma anche da credenti di altre religioni o di nessuna religione,

Paradiso e libertà

Dunque si può fare esperienza del paradiso anche senza avere la fede, e anche senza fede Gesù è là e il Dio di Gesù Cristo entra in relazione con gli uomini. Ma se resta ignoto, in che forme Dio è presente in questo paradiso? Il canto dice: ubi caritas et amor, Deus ibi est. Dove c’è l’amore, lì c’è Dio, e dunque c’è anche il paradiso. Il paradiso come luogo dell’amore: e questo è certamente vero. Ma non c’è solo l’amore. C’è anche un’altra risposta. Qui c’è un’illuminante disputa tra due rabbini, Akiva, martire dei romani, e il suo amico Ben Azzai, vissuti circa un secolo dopo Cristo. Il Talmud narra che essi discussero su quale fosse il principio fondamentale della Torah grazie al quale si regge ed esiste tutto il giudaismo. Per Rabbi Akiva la risposta stava nel Levitico, era il precetto di amare il prossimo come se stessi. Per il rabbino Ben Azzai, invece, c’era un principio ancora più grande, e stava nel racconto della Genesi, per il quale  tutti gli esseri umani sono creati ad immagine di Dio. Secondo lui l’amore era un piedistallo troppo instabile per fondarci sopra tutta la Torah: alcuni li ami di più, altri di meno; però tutti devono essere trattati come immagini di Dio.
Ebbene, in che consiste l’immagine di Dio che è impressa in tutti gli uomini e le donne senza eccezione?
Qualcuno dice che è la ragione. Ma c’è tutta una tradizione cristiana, a partire da san Bernardo, e forse da san Paolo, secondo cui l’immagine di Dio nell’uomo è la libertà. Anche Cartesio, quello dei lumi, diceva che nella sua libera volontà ritrovava l’immagine e la rassomiglianza di Dio in lui.
In questo caso, il luogo peculiare del paradiso è la libertà. Per questo io ho intitolato un mio ultimo libro “Paradiso e libertà”, e nella controcopertina c’è scritto che il paradiso è il luogo dove gli uomini vengono a libertà, in questa vita ed in quell’altra. E per questo, dovunque c’è una liberazione dei prigionieri, dei profughi, degli operai, delle donne, dei poveri, c’è un paradiso che si avvicina.

                                                Raniero La Valle


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