mercoledì 17 giugno 2015

LA CAVALCATA È FINITA


Dalla sconfitta di Renzi un monito per la democrazia di Raniero La Valle 
pubblicato sul n° 13 del 1 luglio 2015 di Rocca, Rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

Con le elezioni del 31 maggio è finita la cavalcata di Matteo Renzi. Non si sa quando scenderà da cavallo, ma la cavalcata è finita perché le elezioni regionali (che sono più che mai politiche) hanno mostrato che la prateria non c’è.
La prateria sarebbe lo spazio sconfinato, vuoto della destra, che è comparso nelle visioni dei leaders della ex-sinistra dopo la soppressione del PCI. Irrompere su quella prateria avrebbe dovuto permettere loro di ereditare stabilmente il potere della Repubblica, prima con la “gioiosa macchina di guerra” di Occhetto, poi con il partito “a vocazione maggioritaria” di Veltroni, infine con il “partito della Nazione” di Renzi. Le legge elettorali via via architettate come le più idonee a rendere inoppugnabile il potere, erano concepite o fatte proprie a tale scopo.
Questo vecchio progetto è stato ancora una volta sconfitto.
L’ideologia visionaria di un partito “progressista” o “di sinistra moderata” o “democratico”che si insediasse pressoché solo al potere e potesse elettoralmente dilagare in uno spazio politico sostanzialmente privo di oppositori credibili o comunque vincenti, era basata su un errore teorico e su un principio di irrealtà.
L’errore teorico era che una parte che si immagina come tutto o pretende di farsi tutto, non è più democrazia. Il principio di irrealtà consisteva nel non vedere che in Italia la destra è un fenomeno strutturale e, almeno da Facta in poi, maggioritaria, e per la sua potenza capace di imporre al Paese le scelte più nefaste, dalle leggi razziali alla guerra, dal piano di rinascita malriuscito della P2 al Jobs Act, dall’idea di bombardare i barconi agognati dai profughi alla chiusura delle frontiere regionali annunciata dai vecchi e nuovi “governatori” del Nord.
Questa prevalenza della destra in Italia, strutturale finché il senso comune dominante non sarà sostituito da un’altra cultura, non vuole affatto dire che la sinistra, o la parte più democratica del Paese, non possa governare. Ma lo può fare in forza di una “egemonia”, termine tecnico che vuol dire semplicemente riuscire a far passare ideali più alti, progetti più giusti, e a farsi seguire anche da portatori di altre culture e altre visioni politiche, per la costruzione di una società più solidale ed umana.

Un momento alto di questa “egemonia” c’è stato in Italia quando, sconfitta la destra, si è fatta la Repubblica, la Costituzione, lo Statuto dei lavoratori.
Al di fuori di una “egemonia” democratica la destra domina, anche se può subire rovesci ed eclissi quando cade in cattive mani. Perciò l’idea di una ex-sinistra che si sostituisce alla destra, che ne fa le veci e ne realizza le “riforme”, perché tanto nella prateria la destra non c’è, e col 40 per cento si prende tutto il Paese, è un’idea che ignora cultura, storia e politica ed è, al di là di siparietti effimeri, istituzionalmente votata alla sconfitta.
Le elezioni del 31 maggio ne hanno fornito la conferma. Effimero si è rivelato il “partito del 41 per cento” delle europee. Secondo l’Istituto Cattaneo, nelle regioni in cui si è votato il Partito Democratico ha perso più di un milione di voti rispetto ai risultati di Bersani del 2013 e 2.143.003 voti rispetto alle elezioni dell’anno scorso, il che in proiezione nazionale vuol dire un ammanco di cinque milioni e mezzo di elettori. Più della metà del corpo elettorale non è neanche andata a votare, il che significa che la prateria non è vuota della destra ma è vuota di quell’elettorato democratico che non ha superato la prova della delusione e dello scoramento. Nel Veneto bianco, dove una volta regnava la DC, la Lega più radicale rottama tutti i suoi antagonisti e si candida al governo non della Padania, ma dell’Italia; in Campania la gente vota scientemente per l’illegalità eleggendo gli ineleggibili, mostrando che il vero “Incompiuto” di questo Paese non è il potere – onde ci sarebbe un problema di governabilità – ma è il diritto, onde c’è un problema di statualità e di ripristino della Costituzione; nella Liguria “rossa”  dove si è votato secondo lo schema di schieramenti politici e di alleanze prefigurato dall’Italicum – con la destra ricompattata, da Salvini ad Alfano, e il Movimento 5 stelle che si avvantaggia degli altrui abbandoni e di una protesta crescente – si è dimostrato che l’Italicum, pensato per le esclusive fortune del PD, è uno straordinario e certissimo sgabello per la destra anche estrema al potere. Sembra impossibile che ciò che resta del PD possa persistere in questa corsa al suicidio.
In questo panorama, l’unico modello che si salva è il modello pugliese, che ha comportato un lungo lavoro sull’elettorato  in funzione di seri obiettivi programmatici e di larghe alleanze democratiche, modello che dovrebbe essere rilanciato per riaprire una prospettiva accettabile al Paese.
Se così si interrogano i risultati del 31 maggio, si vede come al più presto si debba invertire la strada intrapresa, il che significa una moratoria delle riforme costituzionali, da rinviare alla prossima legislatura, l’abbandono della legge elettorale fatta per un solo partito e l’adozione di una legge pluralistica in grado di ricostituire una rappresentanza proporzionale corrispondente alle forze realmente presenti nel Paese, la ricognizione delle vere priorità da perseguire per il bene comune della Nazione, e ben presto nuove elezioni, per rinnovare un Parlamento che vive in un conclamato vizio di incostituzionalità.

Una strada di uscita dalla democrazia

Anche prima del voto di maggio si era potuto vedere del resto che si era giunti a una svolta, e che la strada che si stava percorrendo era una strada di uscita dalla democrazia.
Con l’approvazione alla Camera, nonostante l’opposizione popolare, della legge che ritaglia a misura della scuola il disegno di una società autoritaria, si poteva dare ormai per compiuta la cosiddetta transizione italiana e vedere finalmente realizzata la famosa governabilità, mito di diverse generazioni di politici reazionari.
Ma qual è il prezzo di questa governabilità realizzata, cioè con che cosa la scambiamo o già l’abbiamo scambiata? La risposta è molto semplice. In cambio della governabilità abbiamo dato la democrazia.
L’uscita dalla democrazia è in realtà un processo cominciato molto tempo fa, e ora giunto al suo culmine. Per comprenderlo bisogna sapere che la modernità conosce due tipi di democrazia: la democrazia sostanziale, che è quella dei diritti, dell’eguaglianza e del Welfare, fatta propria dalle Costituzioni del dopoguerra a cominciare da quella italiana, e la democrazia formale che è quella dei numeri che regola e trattiene il potere.
Finora abbiamo vissuto il processo di uscita dalla democrazia sostanziale. Tutti i suoi capisaldi sono stati travolti. Democrazia per esempio è, come dice l’art. 1 della Costituzione, che la Repubblica è fondata sul lavoro. Papa Francesco ci ha detto che il lavoro è la dignità della persona, e che perciò tutti devono poter lavorare, il che vuol dire che la Repubblica per essere fondata sulla dignità di tutte le persone per prima cosa dovrebbe avere un programma e una politica di piena occupazione.
Ma la piena occupazione è esclusa dall’attuale sistema economico, da quando l’economista liberale Friedrich von Hayek all’inizio della globalizzazione spiegò anche all’Italia, in un saggio pubblicato dall’Associazione Bancaria Italiana, che il lavoro deve essere scarso se si vuole che i profitti e le ricchezze crescano. Piena occupazione vuol dire che il lavoro costa di più, che i sindacati sono forti e i padroni sono deboli, che i lavoratori sono tutelati e i datori di lavoro ne devono rispondere ai giudici. Perciò la piena occupazione è stata tolta dalla democrazia e considerata una stortura della “vecchia politica”.
Democrazia è anche che la Repubblica rimuova le cause che sul piano economico e sociale di fatto impediscono lo sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori alla vita dello Stato; e questo è l’art. 3 della Costituzione. Sulla base di questo principio essenziale della democrazia Roosevelt fece il New Deal e salvò l’America e il mondo dalla grande depressione, sulla base di questa idea di democrazia dopo la guerra si è fatto il piano Marshall, e l’Europa, a cominciare dalla Germania, è risorta, e sulla base dello stesso principio l’Italia ha fatto la riforma agraria abolendo la mezzadria e il latifondo, ha fatto il piano case, l’ENI, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma sanitaria, la Cassa del Mezzogiorno e da agricola è diventata industriale.

La democrazia sostanziale e quella dei numeri

Oggi tutto questo non solo è difficile, ma sarebbe politicamente scorretto, ed anzi è considerato fuori legge e proibito, e addirittura vietato dai Trattati. Fin dal 1971 le riforme monetarie ed economiche di Nixon, di Reagan, della Thatcher, i minuziosi trattati europei sulla sovranità della concorrenza e dei mercati, la separazione tra Banca d’Italia e autorità di governo, la rinunzia degli Stati a battere moneta, senza che i nuovi produttori di moneta dipendano da nessuno, e meno ancora rispondano a istanze democratiche, hanno tolto alle Repubbliche, cioè al potere politico e alla sovranità popolare ogni possibilità di governare l’economia e di perseguire i fini di promozione e di felicità umana che essi stessi si erano assegnati.
Il caso della Grecia è esemplare: lì il sovrano, cioè il popolo, che secondo la dottrina dovrebbe decidere, in quanto sovrano, dello “stato d’eccezione”, vorrebbe prendere il controllo dell’economia e salvare il Paese; ma ci sono poteri esterni, ovvero noi con gli altri di Bruxelles, che glielo impediscono.
Finita così la democrazia dei diritti, quella sostanziale, si potrebbe dire che almeno resta la democrazia dei numeri, cioè la democrazia formale. Non che la democrazia dei numeri sia del tutto  razionale, perché di per sé i numeri non sono garanzia di buon governo; il pensiero sulla democrazia ha sempre saputo che non è affatto detto che la “maior pars” sia anche la “sanior pars”, cioè che i più siano più saggi e migliori dei meno; tuttavia non si è trovato un sistema migliore, anche nella presunzione che l’interesse dei molti sia più vicino all’interesse generale di quanto non lo sia l’interesse dei pochi, una volta che questi prendano il potere. Perciò il pilastro della democrazia è che siano i più e non i meno a comandare. La democrazia appende la sua ultima speranza, le sue ultime vestigia, ai numeri. Contro un potere che per governarci ci schiacci, l’unica difesa sono i numeri, ovvero i voti.
            Ebbene la legge elettorale maggioritaria, oggi reiterata nell’Italicum, è fatta per ottenere esattamente il contrario ed esplicitamente dichiara il suo scopo di sovvertire i numeri, di dare il potere non ai molti ma ai pochi. Attraverso un artificio una minoranza viene dotata di una maggioranza schiacciante con lo specifico scopo di rendere definitivo e insindacabile il suo potere per almeno cinque anni.
            Molti giuristi, comitati, cittadini amanti della Costituzione stanno cercando in questi giorni le vie per invalidare l’Italicum e renderlo inoperante per via giudiziaria o referendaria. E questo va bene. Ma si può non fare in tempo o non riuscire a ottenere il risultato. Perciò fin da ora occorre prepararsi alle prossime elezioni nell’ipotesi che si facciano con questo sistema, e addirittura senza più nemmeno il Senato.  Il tema cruciale è come fare in modo che il primo uso di questa tecnica di uscita dalla democrazia non si trasformi in un’uscita definitiva.
È un problema che solo l’elettorato può risolvere. C’è un elettorato democratico sia nell’astensionismo sia nelle basi potenziali di tutti i partiti, presenti o non presenti in Parlamento. Esso potrebbe trovare un denominatore comune attorno ai tre grandi valori del costituzionalismo, della cittadinanza attiva e di una misericordia più forte della durezza di cuore dell’economia e di una legge ancora intrisa di giungla, che papa Francesco denuncia ogni giorno. Questi elettorati potrebbero unirsi per governare e per impedire che il premio di maggioranza cada in mano a un solo soggetto politico che ne possa far seguire un danno irreversibile.
                                                                                            Raniero La Valle

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