giovedì 15 giugno 2017

PERCHÉ NON POSSIAMO DIRCI CRISTIANI SENZA IL CRISTIANESIMO



Raniero La Valle

Discorso tenuto da Raniero La Valle il 9 giugno scorso alla Facoltà teologica di Cagliari, nel quadro di una iniziativa volta a una rivisitazione del saggio di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”.

 Com’è noto “Perché non possiamo non dirci cristiani” è il titolo di un famoso saggio di Benedetto Croce, che è una specie di patriarca della cultura italiana del Novecento. Il saggio uscì per la prima volta su “La Critica” del 20 novembre 1942, e poi fu ripubblicato più volte.
Il titolo, più ancora del saggio, ha fatto storia, perché si presenta come il biglietto da visita di una civiltà intera: è la civiltà europea di cui Croce si sente espressione e interprete che rivendica per sé il nome di cristiana.  Ma è un biglietto da visita fuorviante, che esprime piuttosto una vanteria  che un’identità; ed è una vanteria altamente mistificatoria e profondamente non vera; essa però è stata tanto ripetuta come se fosse ovvia, da diventare un luogo comune. Con la secolarizzazione questo luogo comune è caduto in disuso, però non manca chi ancora vi fa ricorso per certe battaglie politiche identitarie come quelle oggi in voga contro immigrati, stranieri e musulmani.
L’equivoco della formula crociana consiste nel travisamento del suo oggetto: ciò di cui parla è infatti un cristianesimo senza Vangelo, una cristianità senza cristianesimo e, si può aggiungere, un cristianesimo nonostante la Chiesa. Il Dio di questo cristianesimo, dice Croce, non è Zeus, né Jahvè, né il Wodan del paganesimo germanico (che Croce cita perché nel ’42 aveva a che fare con Hitler); ma con ogni evidenza non è nemmeno il Dio di Gesù. Perciò un cristianesimo senza Cristo. Croce parla quindi di ciò che non conosce. Lo coglie nella storia degli effetti, ma non ne riconosce l’essenza, non ne capisce le cause. Negli effetti il cristianesimo gli appare straordinario. È stato, egli dice, la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità, tale che di un’altra religione o rivelazione come questa non si sa se mai potrà essercene un’altra pari o maggiore; in ogni caso non se ne vede ora il minimo barlume. È stata una rivoluzione senza eguali perché ha operato nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e consiste in sostanza  nella scoperta della congiunzione dell’umano e del divino nell’uomo. Ed è vero: senonché di questo Croce nega la causa e l’origine; sì, all’origine ci sono Gesù, Paolo, Giovanni, ma Dio non c’è, se non come un nuovo concetto pensato dall’uomo. È un Dio nuovo, non più immobile e inerte, che però non è altro dal mondo, non si dà come miracolo, bensì è un parto della storia, dice Croce; e non è mistero ma è visibile; non visibile all’occhio della logica astratta e intellettualistica, ma all’occhio della “logica concreta”.

Questo cristianesimo al netto del Dio di Gesù Cristo ha prodotto eventi storici straordinari. Ma Croce distingue un prima e un dopo. C’è una prima fase – dopo quella della Chiesa nascente - che è il periodo trionfante della Chiesa, che foggia se stessa fissando il suo impianto dogmatico e organizzativo; questa Chiesa, ben piantata dopo le leggi di Costantino e di Teodosio, fino al Medio Evo e agli inizi dell’età moderna passa di successo in successo. Quello che Croce descrive non è però il cammino della Chiesa, è piuttosto l’ascesa della cristianità. La cristianità, come la definiamo oggi, è quel mondo dominato dalla Chiesa che a partire da Costantino si costruisce come un sistema totale che unisce religione, cultura, politica e istituzioni in una identità storica che si contrappone alle altre identità storiche. E qui l’entusiasmo crociano mette all’attivo della Chiesa cristiana cattolica molte cose: ci mette la lotta alle eresie, la ripresa dei fasti dell’impero romano, il “cristianizzamento e romanizzamento e incivilimento dei germani e di altri barbari”, la “difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea”; ma ancora di più, Croce giunge a riconoscere che ”a giusto titolo la Chiesa affermò il suo diritto di dominio sul mondo intero, quali che nel fatto fossero sovente le perversioni o le inversioni di questo diritto”. Più di questo non si potrebbe concedere. Né a togliere merito a questa Chiesa valgono, secondo Croce, le accuse che le furono fatte  per “la corruttela dei suoi papi, del suo clero e dei suoi frati”, perché corruttela c’è in ogni organismo; del resto quelli che Croce chiama “i suoi errori accidentali e superficiali” non impedirono alla Chiesa – egli dice - di riportare “i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo Mondo”.
E questa è la prima fase come descritta dal filosofo. Ma a partire da lì c’è un dopo, c’è l’era della modernità con cui la Chiesa di Roma entra in conflitto e che nell’Ottocento condannerà in blocco nel Sillabo. E qui Croce opera un transfert della rappresentatività cristiana che dalla Chiesa, rimasta irretita nell’assetto dogmatico fissato dal Concilio di Trento, sarebbe passata “ai continuatori effettivi dell’opera religiosa del cristianesimo”, che ne sarebbero stati i veri interpreti, anche se affetti da “talune parvenze anticristiane” o addirittura fuori del cristianesimo e della Chiesa, ma “tanto più intensamente cristiani perché liberi”. E l’elenco è lungo. Ci sono gli uomini dell’Umanesimo e del Rinascimento, della Riforma e dell’Illuminismo, della rivoluzione francese, del diritto naturale, della scienza moderna, della filosofia dello Spirito (fino a Hegel) e del liberalismo. Per la Chiesa era blasfemo chiamarli cristiani, e invece sono proprio loro, rivendica Benedetto Croce, che non possono non dirsi cristiani.
E qui si pone un problema di discernimento anche per noi. Perché è vero che nei confronti degli uomini e delle donne dell’ illuminismo e della modernità c’è una riparazione da fare e una vulgata da correggere; infatti moltissimi di loro che la Chiesa di Roma ha disconosciuto come cristiani, cristiani lo erano, molti addirittura teologi o pastori. In questo senso il rinominarli come cristiani da parte di Croce è storicamente fondato.
Tuttavia Croce, avendo staccato l’albero dalle sue radici, la cristianità dal cristianesimo, e la religione dal mistero, ha perso la capacità di vedere dove sta o cade il potersi dire cristiani, ha perso la capacità di vedere il punto in cui il cristianesimo si rovescia nel suo contrario, e ciò che si dice cristiano, perfino nella Chiesa, non lo è più o non lo è mai stato. E, solo per fare un esempio, è Croce stesso che ci fa vedere come Hegel non possa dirsi cristiano, e come lui stesso non possa dirsi cristiano, quando ambedue parlano degli indiani “scoperti” in America in termini seccamente razzisti ed opposti al Vangelo, come di non uomini, quasi animali, ripugnanti allo spirito europeo.
È un’osservazione questa più volte fatta dal filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a proposito della conquista dell’America. Egli cita Hegel, che in Lezioni sulla filosofia della storia, (1837, La Nuova Italia, Firenze 1975), «fornisce di questi popoli una rappresentazione apertamente razzista: “Dal tempo in cui gli Euro­pei sono ap­prodati in Ameri­ca, gl’indi­ge­ni sono scomparsi a poco a poco, al soffio del­l’at­tività euro­pea” (p. 222). Ciò dipende, dice Hegel, dal­l’”infe­riori­tà di questi individui sotto ogni a­spetto, persino quanto a statura” (ivi, p.224), ana­loga del re­sto a quella della “fauna americana”, i cui “leoni, tigri, cocco­dril­li... hanno bensì una somiglianza con le specie corrispondenti del Vecchio Mondo, ma sono sotto ogni aspet­to più picco­li, debo­li, meno po­tenti” (ivi, pp.222‑223). Per questo, conclu­de Hegel, “gli abi­tan­ti delle isole delle Indie occiden­tali sono estinti” e “le stirpi dell’America del Nord in parte sono scom­par­se, in parte si sono ritira­te, al contatto con gli Euro­pei” (ivi, p.223): per la loro “costitu­zione debo­le, ten­do­no a scompari­re al contatto di po­poli più civilizza­ti, di cul­tura più intensa” (ivi, p.223)». Così scriveva Hegel. Ma poi arriva Croce: «Purtroppo – dice Ferrajoli questa immagine delle stirpi dell’America del Nord che “scompaiono” e “si ritirano al contatto con gli Europei” piacque al nostro Benedetto Croce, che la riprese con accenti altrettanto razzisti: gli uomini, egli dice, si di­stin­guono “tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura (Natur­völker), uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologica­mente e non sto­ricamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrar­li, e in cer­ti casi, quando altro non si può, si lascia che viva­no ai margi­ni, vietan­dosi la crudeltà che è colpa contro ogni forma di vita, ma la­sciando altresì che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà, da loro insopporta­bile. Si tenta certamente dapprima, e ci si sforza, di svegliarli ad uomini, mercé delle conversioni religio­se, della dura disci­plina, della paziente educazione ed istruzio­ne, e di stimoli e castighi politici, che è ciò che si chiama l’incivili­mento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi. Ma se questo, e finché que­sto, non vien fatto, in qual modo si può ave­re comuni ricordi e sentimenti con loro, che si ostinano a non entrare nel­la storia, la quale è lotta di libertà? E purtroppo questi repugnanti, questi inconvertibili, s’incontrano anche frammezzo alle nostre società civili, né aveva tutti i torti Ce­sare Lombroso quando formava la classe dei ‘delinquenti nati’ o ‘di natura’, incarcerati o messi a morte per la necessaria difesa sociale” (Filosofia e storiogra­fia, Laterza, Bari 1949, pp. 247‑248)».
Queste non sono certo parole cristiane. Ora questa operazione crociana di una cristianità senza il mistero di Dio e senza il vangelo era sbagliata ieri e sarebbe improponibile oggi; perché quando con la perdita del potere temporale e con la secolarizzazione questa cristianità è finita, non sarebbe rimasto più niente del cristianesimo se nella sua tradizione non si fosse conservata la traccia delle origini e se Dio non avesse continuato ad essere evocato nella sua parola e presente nel suo popolo. Invece è proprio questo miracolo, ignorato da Croce, del Cristo vissuto come Risorto e dello Spirito inviato da lui che ha permesso il rinnovamento della Chiesa del Novecento, dal Concilio Vaticano II a papa Francesco, portandoci alla soglia di un’epoca nuova.
 
È finito il regime di cristianità

E veniamo così al tempo di oggi. Abbandonata la presunzione del “non possiamo non dirci cristiani”, che oggi sarebbe l’alibi di un conservatorismo tradizionalista e di un settarismo identitario, dobbiamo interrogarci più a fondo sulla fase critica che stiamo vivendo.
Credo che bisogna partire dal chiedersi qual è il significato del pontificato di papa Francesco, che è la vera grande novità del terzo millennio appena iniziato, e che è la vera risposta e la vera alternativa alla via senza uscita teorizzata da Croce.
Che cosa sta succedendo con papa Francesco? 
Succede che il papato romano riconosce e proclama lui stesso che è finito il regime di cristianità, cioè appunto quel modo di essere del cristianesimo nella storia che Benedetto Croce aveva esaltato come una ideologia e come un potere terreno. Già col Concilio Vaticano II questa ideologia era stata considerata decaduta, ma ancora non ne erano state tratte tutte le conseguenze, e questa è una delle cause non ultime per cui per cinquant’anni è stata così difficile  la ricezione e l’attuazione del Concilio nella Chiesa. Ma col pontificato di papa Francesco questo passaggio avviene nel modo più esplicito; e la data in cui si può simbolicamente fissare questa svolta è il 6 maggio dell’anno scorso (2016) quando il papa incontrò a Roma i leaders europei per ricevere il premio Carlo Magno, il premio cioè intitolato al re che è il simbolo supremo dell’impero cristiano.
Secondo l’interpretazione che autorevolmente ne ha dato la Civiltà Cattolica, in quella occasione papa Francesco ha celebrato e sancito la fine del regime di cristianità, cioè di quel processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. Simbolicamente quel giorno Francesco ha ritirato la corona che nella notte di Natale dell’anno 800 in San Pietro il papa Leone III aveva messo sulla testa dell’imperatore, non per riprendere in mano il potere, ma per rimetterlo al suo posto, là dove il potere nasce, nel popolo, per restituirlo a Cesare, per sottoporlo al diritto, per affidarlo all’autonomia ma anche alla suprema responsabilità della politica.
Con questo gesto la Chiesa rinunziava a porsi come erede di un’Europa o di un Occidente la cui pretesa fosse di non poter non dirsi cristiani. Del resto in un severo discorso al Parlamento di Strasburgo il 25 novembre 2014 il papa aveva messo in discussione l’identità cristiana dell’Europa. Aveva detto come in un mondo sempre più globale e perciò meno eurocentrico l’Europa apparisse sempre più invecchiata e compressa; aveva osservato come neppure in Europa fossero mancate nel corso dei secoli molteplici violenze e discriminazioni contro la dignità umana, e come anche oggi persistano fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti che possono essere buttati via quando non servono più perché diventati deboli, malati o vecchi; aveva rivendicato la concezione dell’uomo come essere sociale, ben fondata nel pensiero europeo, ma oggi a rischio di perdersi nell’individualismo, sicché una delle malattie più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami, come si vede particolarmente negli anziani spesso abbandonati, nei giovani senza futuro, nei poveri che numerosi popolano le nostre città, negli occhi smarriti dei migranti venuti qui a cercare un migliore futuro; aveva aggiunto come da più parti si avvertisse un’impressione generale di stanchezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vitale, per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembravano aver perso forza attrattiva.
Nel discorso per il premio Carlo Magno il papa riprendeva poi questi concetti parlando di un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice, un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società, generando processi piuttosto che proteggere spazi  (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 223); ed esclamava: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”. E quanto alla Chiesa diceva che il suo compito era l’annuncio del Vangelo, “che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo” (dunque non un regno, ma un ospedale da campo!). “Dio – aggiungeva -  desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che siano toccati da Lui e vivano il Vangelo senza cercare altro”: senza cercare altro. E pochi giorni dopo, il 9 maggio, il papa stesso in un’intervista al quotidiano francese La Croix, dava l’interpretazione autentica di quanto stava avvenendo. Egli spiegava che Chiesa ed Europa sono due entità diverse; per questo lui non parla di radici cristiane dell’Europa, perché teme il tono con cui se ne parla, che può essere trionfalista o vendicativo. Il rapporto della Chiesa con l’Europa consiste nella lavanda dei piedi, cioè nel servizio. “Il dovere del cristianesimo per l’Europa – ha detto il papa – è il servizio”. E qui ha fatto una citazione che è un po’ la chiave di volta per mettere in chiaro il suo pensiero, ha citato il gesuita Erich Przyvara, “grande maestro di Romano  Guardini e di Hans Urs von Balthasar”, il quale ha scritto che “l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita”. Tradotto, vuol dire che l’Europa cammina nella storia e la Chiesa le lava i piedi e le dona la vita.
Dunque, nella visione di papa Francesco, non c’è più una cristianità da rivendicare, né un’Europa di cui esaltare la continuità con le radici. Si riparte invece dalla situazione originaria del Vangelo. Questa è la novità. Ed è in forza di ciò che, parlando all’ONU, per la prima volta il papa ha proclamato “il dominio incontrastato del diritto”, e ha rivendicato, d’accordo con le Costituzioni moderne, la divisione e la limitazione dei poteri, E questa è una liberazione anche per la Chiesa che, non più compromessa col potere, può tornare dai poveri, sempre dominati dal potere; e  pertanto è una Chiesa che non si identifica più con la società tutta, ma si riconosce solo come una parte di essa, e per questo le può fare da ospedale e, come distinta da lei, le può offrire misericordia. E può anche riconoscerla nelle sue diversità: perché le radici sono tante e la gloria dell’Europa è proprio quella di averle accolte, integrate e fatte crescere e fortificare insieme, sia che fossero cattoliche, o di altre Chiese cristiane, o non cristiane
Non si deve pensare però che l’uscita dal sistema di cristianità sia un processo facile e comporti solo una rinuncia al potere temporale della Chiesa. Uscire dal regime di cristianità vuol dire anche correggere le dottrine dipendenti da quella teologia. Per questo il papa è oggi duramente attaccato, anche in casa sua. È chiaro ad esempio che la dottrina del Grande Inquisitore, immortalata da Dostoewskij (i miracoli in cambio della libertà),  deve essere abbandonata. Ma non solo. Lo stesso papa Benedetto XVI ha dato a suo tempo nelle sue omelie una lettura diversa da quella tradizionale sul peccato originale, e più di recente, già papa emerito, ha definito “in sé del tutto errata” la teoria anselmiana del sacrificio del Figlio inteso come riparazione pretesa dal Padre per l’offesa ricevuta a causa del peccato dell’uomo. Una teologia durata per secoli che si dichiara oggi del tutto errata. E una nuova immagine di Dio è stata affermata dalla Commissione Teologica Internazionale quando ha detto che il cristianesimo ha preso definitivo congedo da ogni idea di un Dio violento e vendicatore.  Tuttavia l’aggiornamento dottrinale è un processo difficile. Si è visto come sia stato difficile nel caso del matrimonio e come è difficile correggere le dottrine che contrastano con la misericordia, parola pressoché assente in tutto il magistero pontificio dell’800 e del primo ‘900, fino a quando è stata assunta come nuova opzione della Chiesa nel discorso di inaugurazione del Concilio di Giovanni XXIII.

Il significato del pontificato di Francesco

E allora si può capire la portata della svolta che consiste nell’uscire dalla cristianità per far vivere il cristianesimo. Essa significa riconoscere fino in fondo che la Chiesa non è il cristianesimo realizzato, come il socialismo reale, ne è solo il segno e lo strumento, come dice il Concilio; non è la società umana trasformata in regno di Dio, è invece quella che, spoglia del potere, con forza profetica dice al potere che il re è nudo, che l’economia uccide, che il denaro domina e che l’umanità per nessuna ragione, né politica, né economica, né religiosa può essere divisa in eletti e scartati.
Uscire dal regime di cristianità comporta perciò una comprensione più avanzata di che cosa significhi la signoria di Dio e il regno di Dio annunciato come vicino.
Ed ecco allora che il complesso di queste circostanze ci porta a chiederci che cosa sta succedendo nella storia della salvezza, e se oggi sulla scia della novità intervenuta col pontificato di Francesco, non si possa presagire l’avvento di un’epoca nuova, a partire da un nuovo annunzio di Dio. È questa l’ipotesi che è stata messa a tema dai gruppi ecclesiali che si riconoscono nel movimento e nel sito che in occasione dei cinquant’anni dal Concilio ha preso il nome di  “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. A tal fine essi hanno promosso  un’Assemblea nazionale a Roma per Il prossimo 2 dicembre  che avrà come tema: “Ma viene un tempo ed è questo” 
L’idea che ispira questa iniziativa è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo  (sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa entrare).
 “Ma viene un tempo ed è questo” è una citazione delle parole di Gesù alla Samaritana nel vangelo di Giovanni, quando accanto al pozzo di Giacobbe, a Sicar, Gesù dice alla donna straniera (e perciò lo dice a tutte le genti): “verrà un tempo ed è questo, in cui né a Gerusalemme nè su un altro monte adorerete Dio, ma adorerete il Padre in spirito e verità”. Era quello l’annunzio messianico di un nuovo tempo della storia della salvezza. Non a caso ciò avveniva a Sicar, proprio lì dove Giosuè aveva proposto al popolo uscito dall’Egitto di servire non altri dii o idoli,  ma il Dio di Israele, stabilendo così l’alleanza di Sichem. Gesù, molti secoli dopo nello stesso luogo propone una nuova alleanza di tutte le genti, e forse di tutte le religioni, per adorare il Padre in spirito e verità. 
È proprio il pontificato di papa Francesco che fa pensare a questo nuovo tempo che viene. Egli ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo  ogni giorno il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non violento  ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci, oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia, contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della salvaguardia del creato.
Sicché noi oggi possiamo di nuovo idealmente andare a Sicar, per incontrarci e dare effettività alla seconda alleanza promossa da Gesù al pozzo di Giacobbe. E possiamo sognare ed avere visioni.
E prima di tutto possiamo sperare (e operare perché accada) che a partire da Sicar si ristabilisca la comunione tra ebrei e samaritani, che oggi si chiamano palestinesi, e quindi la pace tra Israele e Palestina; e poi che a partire dal Padre adorato in spirito e verità, si realizzi l’incontro e la comunione tra cristianesimo e Islam, e tra le religioni abramitiche e tutte le religioni i popoli le lingue e le culture della terra.
E ciò è necessario oggi, quando tutto è diventato globale, ma ciò che non è globale, ciò che non è stato messo in comune è lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe.
Perché questa alternativa possa risolversi per il bene, occorre che le religioni si convertano. Non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo nuovo che non solo la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada da Francesco, ma tutti noi abbiamo oggi il compito di annunciare e di far accadere.
     Raniero La Valle

Cagliari, 9 giugno 2017, Facoltà Teologica



        

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