martedì 24 luglio 2018

SIONISMO SENZA DEMOCRAZIA?


C’è una notizia che è stata quasi nascosta, perché è difficilissimo darla, non sanno come farla accettare dal senso comune, ma è di tale portata da marcare una cesura nella storia che stiamo vivendo. Lo Stato di Israele, almeno nella sua veste ufficiale e giuridica, cambia natura. Non è più lo Stato che unisce democrazia ed ebraicità, come era nel sogno del sionismo, ma è definito come uno Stato-Nazione ebraico, uno Stato del solo popolo ebreo nel quale gli altri, quale che sia il loro numero, sono neutralizzati nella loro dimensione politica, cioè nella loro esistenza reale: non partecipano di ciò che, in democrazia, si chiama autodeterminazione, la quale è riservata al solo popolo ebreo, il solo sovrano. Gli altri sono naturalmente gli Arabi, e in modo specifico i Palestinesi, musulmani o cristiani che siano.
Infatti giovedì 19 luglio il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato a stretta maggioranza con 62 voti favorevoli e 55 contrari una legge di rango costituzionale che era in gestazione da tempo, la quale fissa in questi termini perentori la natura dello Stato, che finora non si era voluta definire in alcuna Costituzione formale, in base all’idea che la vera Costituzione d’Israele è la Torah (la Scrittura). Per intenderci un primo articolo Cost. del tipo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…” sarebbe stato impensabile per Israele; e infatti, dopo un primo approccio iniziale per il quale furono consultati i libri di Carl Schmitt, il tentativo costituzionale fu abbandonato, come ci ha raccontato a suo tempo Jacob Taubes. Però per il sionismo fondatore che aveva voluto bruciare i tempi dell’Attesa visto il ritardo del Messia, era fuori discussione che dovesse trattarsi di uno Stato democratico. Sicché almeno una correzione è stata introdotta all'ultimo momento nel testo della legge, su richiesta del Presidente di Israele Reuven Rivlin, che in una lettera ai parlamentari aveva espresso il timore che essa potesse “recare danno al popolo ebraico, agli Ebrei nel mondo e allo Stato di Israele”. È stata abolita infatti la norma che permetteva a qualsiasi comunità (ebrea ma anche non ebrea) di costituirsi come comunità identitaria chiusa, su base religiosa o nazionale, con esclusione dal proprio ambito di tutti gli altri (non-ebrei, non-drusi, non ortodossi, ecc), il che rischiava di creare in Israele una rete di apartheid segregati a pelle di leopardo; invece, caduta questa norma, la separazione che viene costituzionalizzata è posta a garanzia dei soli insediamenti ebraici, privando di diritti tutti gli altri.

Dal punto di vista politico la legge votata dalla Knesset liquida la causa palestinese, prelude all’annessione dei Territori Occupati, licenzia definitivamente l’opzione fatta propria da tutta la comunità internazionale dei due popoli in due Stati e rottama le risoluzioni dell’ONU sul conflitto in Palestina e sullo status di Gerusalemme. Quali poi saranno i fatti è tutto da vedere: la resistenza di Gaza, da sola, con i suoi patetici aquiloni accesi, come le pietre di David contro Golia, tiene in realtà aperta tutta la questione.
Ma c’è un livello ancora più profondo: che succede con l’ebraismo? La ragione per cui Israele si è decisa a questo passo non può essere banalizzata: l’andamento demografico in Medio Oriente è tale che ben presto in Israele gli Ebrei saranno una minoranza rispetto alla crescente popolazione arabo-palestinese; e siccome in democrazia contano i numeri e non si è fatta e neanche tentata la pace tra i due popoli, gli Ebrei di Israele temono di essere sopraffatti, e perciò la democrazia è un lusso che non possono mantenere. Nell’alternativa tra democrazia ed ebraismo, la scelta è per l’ebraismo. Purtroppo manca la lucidità di comprendere che è una falsa alternativa. Questa incompatibilità non è vera: ma per riconoscerlo ci vuole una conversione culturale e religiosa profonda.
Gli Ebrei (anche gli Ebrei non credenti dello Stato d’Israele) fondano sulla Scrittura la loro identità di popolo e di Stato. Ma quando questa tradizione si è formata (quando Dio ha “parlato” ad Abramo, Mosè, David e anche ai profeti) poteva concepirsi che l’identità di un popolo si preservasse nell’uniformità di un regno, nella inviolabilità dei confini, nella non contaminazione con gli stranieri, nella regola di purità, antidoto ad ogni meticciato.
Ma come preservare questa identità nelle condizioni della democrazia, del pluralismo, dell’eguaglianza, della globalizzazione, dello Stato di diritto, non poteva essere oggetto della rivelazione di allora, Dio non poteva dirlo al suo popolo. Un indizio fortissimo di come altrimenti essere popolo lo aveva fornito Gesù, ma quella Parola non fu riconosciuta da Israele come la Parola attesa. Dunque occorrerebbe che, come hanno fatto pur dolorosamente altre tradizioni, anche quella ebraica cercasse i nuovi sensi delle sue Scritture, che cosa davvero sarebbe la fedeltà alla Parola ricevuta letta non più nelle condizioni di ieri, con gli occhi rivolti alle tempeste passate, ma nelle condizioni di oggi, con gli uomini di oggi, con la meravigliosa multicolore umanità di oggi, con gli occhi rivolti al futuro da costruire, a questo Messia che ha sempre da venire, ma come pace non come apocalisse. È attraverso questo lavacro, non più nel sangue ma nell’acqua di nuovo condivisa della Palestina che Israele salverà se stesso, la propria identità, e la vita delle genti, non più stranieri.
La cosa non interessa solo gli Ebrei. Sarebbe così importante che i nostri gruppi di dialogo ebraico-cristiano, liberi dalle suggestioni dei richiami a un vecchio fondamentalismo biblico, cercassero con i fratelli Ebrei questi nuovi sensi e questa nuova comprensione della Parola liberatrice.


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