Tutti i testi pubblicati oggi sul sito “Chiesa di tutti
Chiesa dei poveri” invitano a un ritorno alla politica, alla purificazione e
alla rilegittimazione della politica. Infatti l’abbiamo perduta, divorata dall’”antipolitica”,
e gli effetti sono devastanti e di grande pericolo.
Il primo invito viene da Gandhi e si trova nell’importante contributo
che Rocco Altieri, presidente del Centro Gandhi e direttore dei Quaderni
Satyagraha, ha mandato in Vaticano per un convegno che, all’insegna del dialogo
tra le religioni, si è ivi tenuto il 1 ottobre scorso, alla vigilia del 150°
anniversario della nascita del Mahatma. Nell’autobiografia scritta in prigione
tra il 1922 e il 1924 e poi in un articolo su un giornale di Bombay Gandhi scrive
di non poter concepire la sua vita senza occuparsi di politica. Infatti in
tutta la vita di Gandhi politica, pensiero e religione si intrecciano, ma in
modo tale che la politica precede il pensiero e lo nutre: la parola e la
nozione di satyagraha, intesa come forza di resistenza non violenta che nasce
dalla verità e dall’amore, è per la prima volta enunciata da Gandhi nel
settembre 1906 in Sud Africa al culmine della campagna per i diritti degli
immigrati indiani vittime del razzismo dell’Impero inglese, e il pensiero della
nonviolenza cresce in coerenza e ricchezza lungo tutto il corso delle lotte per
la liberazione dell’India dal dominio britannico e per l’unità tra indù e
musulmani.
Il secondo invito viene da Claudio Napoleoni, l’economista e
filosofo che ha denunciato l’alienazione oltre la stessa critica di Marx alla
società borghese, e alla fine della sua vita ha fatto sua la drammatica domanda
di Heidegger se ormai “solo un Dio ci può salvare”. Nell’incontro di studio a lui dedicato il 12
ottobre scorso a Biella, a trent’anni dalla sua morte, è stato ricordato ciò
che egli aveva detto nell’ottobre 1986 a Cortona impostando anche in termini
teorici il tema della “uscita dal sistema di dominio e di guerra”, che
la rivista Bozze 86 aveva proposto in quel suo convegno.
Disse Napoleoni: “Io non avrei in vita mia affrontato mai una questione
teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico”; e
aggiunse: “E posso dire, anzi arrischio a dire, che questa forza che ha avuto
la politica come luogo in cui stare e da cui parlare, è naturalmente derivata
dal fatto che la politica era qui concepita come lo strumento di una
liberazione”; non dunque come un insieme di azioni relative a problemi singoli
e determinati, ma come avente “un obiettivo generale e comprensivo, che si
riferisce cioè al destino dell’uomo e non a suoi particolari problemi”, o come
l’operazione che affronta tali problemi dell’uomo “all’interno di una visione
di quello che può essere concepito come il suo destino”.
Anche lì
dunque era dichiarata una dinamica che dalla politica porta al pensiero. E
infatti è sempre così. Sono le rivolte degli oppressi che producono il pensiero
rivoluzionario, non viceversa. È la Resistenza antifascista che produce da noi
il pensiero costituente. È la lotta contro i missili nucleari che produce il
pensiero pacifista. È la Chiesa in uscita che produce il pensiero di religioni
senza frontiere, nell’unica fraternità umana. C’è sempre una tensione bipolare,
come dice il Papa, tra la realtà e l’idea, e la realtà è superiore all’idea.
Realtà
è la politica, e l’idea è il pensiero che la pensa. Per questo il fascismo
diceva: “qui non si fa politica, si lavora”, perché non voleva che fosse
pensato il pensiero dell’antifascismo. Per questo il sistema distoglie dalla
politica, perché non vuole la critica politica. Per questo si diffamano “le
poltrone”, si oltraggia la “casta” dei politici, si distruggono i partiti, si
nega la distinzione tra destra e sinistra, per fermare e impedire il pensiero
politico, unico antidoto al pensiero unico, all’economia che uccide, unico
viatico a un’alternativa di sistema.
Per
questo occorre tornare alla politica, a veri partiti che la interpretino, e
tanto più quando il pensiero che oggi va pensato è quello di un costituzionalismo
universale e di una Costituzione mondiale, perché è sul piano mondiale che
l’essere umano oggi è giocato. Perché senza politica c’è la guerra, come quella
che Erdogan sta facendo in Siria, senza politica Kobane non troverà mai pace, e
con essa tutte le altre Kobane del mondo. E invece della politica c’è la morte,
e le vittime sono sempre loro, i più piccoli e più poveri, quelli che non
devono esserci, perché non c’è posto per loro, che siano curdi, palestinesi, rohingya
del Myanmar o migranti e profughi di guerra o di fame. È
un simbolo non da poco che Alan, il bimbo che tre anni fa il mare ha deposto,
come una preziosa spoglia, sulle spiagge della Turchia, ed è diventato icona
dei naufraghi periti sulle rotte del rifiuto europeo, fosse anch’egli un curdo
siriano; anche lui in fuga dalla guerra, anche lui in cerca di terre mai
promesse; anche lui di Kobane.
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