Dopo quel tempo straordinario e di profondissima crisi marcato dalla pandemia, che svelò nei primi mesi dell’anno 2020 ciò che già da molto si sapeva e temeva ma che non si era voluto vedere, i discepoli cominciarono ad interrogarsi se non fosse stata resa vana la croce di Cristo. Essi in suo nome avevano annunciato la salvezza e la salvezza non c’era. A partire dal primo giorno dopo il sabato, quello della Pasqua, che quell’anno la Chiesa aveva celebrato nell’assoluta nudità dei riti senza potersi riunire a convegno, i discepoli, alla lettura degli Atti degli apostoli che la liturgia proponeva ogni mattina (e questa volta con un’udienza mondiale a partire da Casa Santa Marta) si domandavano dove avesse potuto determinarsi il corso delle cose che aveva portato alla triste situazione presente.
Stava scritto, in quegli Atti, che i primi discepoli avevano annunciato agli Ebrei increduli e scandalizzati la resurrezione di Gesù come una svolta nella storia della salvezza, tale per cui nel momento stesso in cui era confermata la promessa del Padre al popolo d’Israele – perché i doni di Dio non sono mai revocati – essa veniva estesa all’umanità tutta, senza alcuna distinzione di nomi e di identità pagane o credenti.
Così avevano detto Pietro, Giovanni, Stefano, Giacomo, Filippo, Barnaba e poi Paolo e questo si erano sentito dire tutti quelli che in quei febbrili anni della Chiesa nascente li ascoltavano e li perseguitavano, che si trattasse del Sinedrio, dell’eunuco etiope, di Cornelio, dei greci di Antiochia o dei beffardi ateniesi dell’areopago . Da Gerusalemme fino ai confini del mondo, dal popolo ebreo al “non popolo” di tutti gli “abitanti del pianeta” (come scriverà duemila anni dopo papa Francesco nell’indirizzo della “ Laudato sì”), questa era l’intenzione inclusiva di Dio, incarnatosi in Gesù, che essi osavano annunciare e di cui volevano porsi al servizio fino al dono della vita.
Ma se questa novità trovò accoglienze diverse, di adesione o diniego, per nessuno fu oggetto di un rifiuto così angosciato come per gli Ebrei delle Sinagoghe e del Sinedrio. Nella loro memoria storica c’era un dramma che essi non cessavano di rievocare ogni anno nella festa dell’espiazione, lo Yom Kippur. Ancor oggi quella celebrazione collettiva della “giornata del pentimento d’Israele” comincia con una preghiera che dice: “Di tutti i voti, le rinunce, i giuramenti gli anatemi, oppure delle promesse ammende od espressioni attraverso cui facciamo voti, ci impegniamo o promettiamo, di qui fino al prossimo giorno dell’espiazione noi ci pentiamo, in modo che siano tutti sciolti, rimessi e condonati, nulli, senza validità e inesistenti. I nostri voti non sono voti, le nostre rinunce non sono rinunce, e i nostri giuramenti non sono giuramenti”. Come mai oggetto di pentimento non sono i peccati ma i giuramenti, gli impegni, i voti, le scomuniche? Secondo il filosofo ebreo Jacob Taubes, che ne diede conto in un corso sulla lettera di san Paolo ai Romani nel 1987 al Centro studi della comunità evangelica di Heidelberg[1], ciò che gli Ebrei vogliono esorcizzare in quel rito è il giuramento, l’impegno, la decisione che Dio aveva preso di revocare la sua alleanza con Israele e anzi distruggerlo, quando il popolo uscito dall’Egitto gli aveva voltato le spalle e si era fatto il vitello d’oro (Es. 32,9-10).
Il rischio era stato terribile. Dio, che parlava con Mosè faccia a faccia, gli aveva detto:” ho osservato che questo è un popolo di dura cervice, lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga”. Di Mosè disse invece: “di te farò una grande nazione”. Dunque voleva sostituire l’elezione del popolo d’Israele con l’elezione di un altro popolo, di cui lo stesso Mosè sarebbe stato il capo e il principio. Se questo non avvenne è perché Mosè non accettò, implorò il Signore, lo convinse a desistere dal suo disegno, a non tradire il giuramento fatto ai Padri. Secondo una lettura talmudica Mosè “afferrò il Signore” e compì il rito dello scioglimento di Dio dal giuramento della distruzione; e a Dio che obiettava che proprio questo aveva giurato, Mosè replicò : ci hai insegnato che i giuramenti si possono sciogliere; e Dio abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo. L’interpretazione di Taubes è che il giorno dell’Espiazione trasponga nel rituale la controversia tra Dio e Mosè: la sera dello Yom Kippur è percorsa da questo brivido.
Al tentativo di una lettura accomodante di questa preghiera, secondo la quale essa avrebbe semplicemente lo “scopo di annullare giuramenti e voti pronunciati in modo affrettato”, Taubes replica che “è pura follia credere che un brivido percorra un intero popolo fin nell’intimo della sua anima, dalle comunità dello Yemen fino a quelle della Polonia, solo perché sono in gioco un paio di voti affrettati”. Come dice un altro grande studioso ebreo, Franz Rosenzweig (“La stella della redenzione”), in quella preghiera per l’annullamento di tutti i voti, di tutte le autoconsacrazioni e dei buoni propositi, l’assemblea liturgica ebraica si pone davanti a Dio come “davanti a colui che la possa perdonare come ha perdonato l’intera comunità d’Israele e lo straniero che soggiornava in mezzo a essa”.
Secondo Jacob Taubes quel trasferimento dell’elezione dal popolo ebreo a un altro popolo (“di te farò una grande nazione”) che si scontrò col rifiuto di Mosè, è lo stesso problema di fronte a cui si trovò Paolo: il popolo aveva peccato rinnegando il Messia giunto fino a lui; Paolo non si tira indietro (Damasco!) ma neanche lui ammette una sostituzione di quel popolo con un altro (perché anzi “tutto Israele” si salverà) bensì proclama l’estensione della sua elezione a tutti, senza distinzioni di identità, ponendo qui l’origine della vocazione per tutti i popoli.
Questo fu infatti l’annunzio dei primi testimoni. Dal giorno della resurrezione fino al Concilio di Gerusalemme, fino a quando i discepoli assunsero il nome di “Cristiani”, la predicazione degli apostoli e della prima Chiesa non contemplava affatto il passaggio dell’elezione dagli Ebrei ai Cristiani, ma l’estensione dell’elezione all’intera “chiesa di Dio”, all’umanità tutta. Scrisse Paolo ai Corinti che si dividevano tra loro dicendo: “Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa e io di Cristo”: si può dividere il Cristo?
Qualcosa avvenne però al Concilio di Gerusalemme. Ciò che in quella occasione parve bene allo Spirito Santo e agli Apostoli fu di grandissima importanza per la liberazione della fede dalla prigionia della legge, però fece sì che essa la prima volta venisse definita per differenza in rapporto all’ebraismo, col rischio di essere intesa come un’eresia ebraica. Il cristianesimo come ebraismo senza circoncisione. Questo fu l’inizio del tormentato rapporto tra le due religioni per tutta la storia successiva, prima che si giungesse al fraterno dialogo di ora. A ciò si aggiunga che proprio in quel Concilio di Gerusalemme il più giudaizzante, Giacomo, interpretò l’estensione dell’alleanza come l’atto con cui Dio aveva voluto scegliersi “tra gli stranieri un popolo consacrato al suo nome”, un altro popolo che non fosse Israele, cioè proprio quello che Mosè aveva scongiurato e di cui Dio si era pentito, e che per gli Ebrei rimaneva come un incubo. Ad Antiochia quell’altro popolo aveva preso un nome: erano i Cristiani; non il popolo di tutta la Terra, ma un popolo accanto agli altri popoli della terra.
Nonostante la “Lettera a Diogneto” per secoli la Chiesa si è pensata così, come il vero popolo di Dio; ma, entrata nel regime costantiniano, divenuta “cristianità”, non ne ha avvertito l’aporia perché di fatto, tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente si è percepita come coestensiva al mondo allora conosciuto; certo, non esteso all’Estremo Oriente, ma per esso c’era stato all’inizio come un presagio quando alla partenza della missione di Paolo, Sila e Timoteo, “lo Spirito Santo aveva vietato loro di predicare la parola nella provincia dell’Asia” (At. 16,6), per cui essi si volsero verso la Macedonia e l’Occidente.
Ma poi quell’apparente universale comunione si ruppe. Apparve il popolo di Maometto, si divisero le Chiese d’Oriente e d’Occidente, nacquero Stati dentro la stessa Cristianità l’un contro l’altro armati, l’America “scoperta” svelò un nuovo mondo e i popoli conquistati furono considerati di dubbia umanità, dall’Africa si trassero schiavi, gli ebrei furono perseguitati e nuove nazioni si pretesero elette, partì la colonizzazione dell’India e dell’Asia; con tutto ciò i cristiani non potevano essere percepiti come la Parola unigenita di Dio partorita nella pienezza dei tempi nella storia di tutti, ma furono società sempre più identitarie, magari “perfette”, popoli con altri popoli e contro altri popoli. Non solo era “il Cristo diviso”, ma l’umanità era frammentata, impedita - per spirito mondano ma anche per impossibilità religiosa - a ricomporsi, a trovare la sua unità. Sarebbe stato piuttosto l’altro principe, il denaro, a pretendere nel suo nome l’unificazione del mondo.
Questo il flashback della nostra storia che le circostanze eccezionali di questa Pasqua ci hanno evocato; certo sommario, come tutti i flashback. E che dire oggi? Mai come oggi il mondo si è trovato di fronte alla necessità di unirsi o perire; mai come oggi si trova ad assumere questa istanza come un compito non solo etico ma politico, e financo costituzionale e giuridico, e anzi ha cominciato a farlo; mai la resurrezione traboccante come misericordia non su pochi, eletti o predestinati, ma su tutti, è stata palpabile come nel vuoto di piazza san Pietro.
E allora forse si capisce il significato ultimo del pontificato di papa Francesco, in ripresa e a coronamento del Concilio Vaticano II: si capisce questo suo porsi all’incrocio delle due salvezze, questo abbracciare tutti, questa sua uscita dal “regime di cristianità”, questo suo ripartire da Lampedusa e da Bangui, questo suo amore per la pace della Siria e della Terra santa, questa correzione di rotta per cui la Chiesa non sia più una copia o una forma dell’Occidente; si capisce questo spogliarsi delle armi del proselitismo, questa fratellanza oltre ogni denominazione religiosa, questo suo annuncio della misericordia ricalcando nel suo messaggio petrino quello stesso di Gesù consistente nella rivelazione del Padre, del Dio inedito e ignoto, padre e pastore di tutti. È come se proprio ora, in un’età così avanzata della storia, fiorisse come fiore di mandorlo, il primo fiore della primavera, il gesto estremo di Dio che esce dalle sue altezze e si scambia col dolore del mondo, non solo con questo o quel popolo , ma con l’umanità tutta intera, l’Unigenita.
[1] Jacob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Milano, Adelphi, 1987.
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