domenica 3 gennaio 2021

 


                           IL DIO CINICO NON ESISTE 

Forse poteva stupire che il papa, così attento nell’amore, nel riguardo e nella delicatezza per l’altro, chiedesse ai due cardinali più importanti del collegio (il decano e il segretario di Stato) di non usare parole proprie nelle liturgie di passaggio all’anno nuovo in san Pietro, ma di leggere le omelie preparate da lui, impedito a pronunciarle dai dolori della sciatalgia. Doveva esserci una ragione seria. Se il 2020 fosse stato un anno normale, sarebbe stato  diverso. Ma era stato l’anno dell’universale dolore, l’anno della pandemia, l’anno da tutti esecrato e bollato come da non doversi ripetere mai più: come accreditarlo a Dio cantando il Te Deum? Nel decidere se e come darne lode o farne carico a Dio ne andava del cristianesimo. Quale responsabilità maggiore per un papa chiamato ad essere custode della fede e a confermare nella fede i fratelli (che come ormai sappiamo da “Fratelli tutti” e altri innumerevoli atti pastorali sono  tutti gli uomini e le donne senza eccezione e scarto alcuno)?
Papa Francesco aveva già spiegato, anche qui in innumerevoli interventi pastorali, come si dovesse prendere la pandemia, se si dovesse chiederne conto a Dio, come sistemarla nell’universo delle nostre angosce, delle nostre domande di senso. C’era stato il grande pericolo che degli zelanti la spiegassero come la Grande Punizione per un mondo in via di perdizione, che si usassero gli argomenti degli amici di Giobbe (te la sei voluta!) oppure che si piantasse la domanda micidiale per la fede: perché Dio permette, o addirittura provoca, il dolore innocente, sottopone il giusto a prove strazianti, negli affetti più cari, nei figli, nei beni, nel lavoro? Insomma era il problema della teodicea: il termine è nuovo, inventato da Leibnitz nel ‘700, ma la questione è antica, viene dalla Bibbia, passa per Qumram, i Manichei, sant’Agostino, attraversa la Chiesa, arriva a Paolo VI che si lamenta con Dio perché non ha salvato Moro, «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico»: essa scuote la coscienza credente, che all’ora della prova o smette di credere o «riesce a credere attraverso ciò che sperimenta, anche se non lo capisce, anche se non lo vuole, anche se continua a sembrargli assurdo e ingiusto», come si legge su “Rocca”, la rivista di Assisi, che proprio in questi giorni come tanti altri si era interrogata su «la malattia e la risposta religiosa»; e la domanda è: perché il male? Che ci sta a fare Dio con tutto questo male, ci salva o dobbiamo salvarci da soli o salvezza non c’è?
Dal primo giorno in cui è papa, Francesco si è dedito a smontare le immagini idolatriche di Dio,  di un Dio costruito secondo i sentimenti umani, secondo le umane filosofie, le logiche del mondo, un Dio associato agli istinti del giustizialismo e della retribuzione; giorno dopo giorno egli ha preso le distanze dal Dio secondo ragione di tante teodicee e non ha fatto altro invece che raccontare un Dio di misericordia, riaprendo nella modernità, sulla frontiera stessa del kerigma, la questione di Dio. Ma, pur nella popolarità di cui gode, questa vera novità non era stata seriamente avvertita, su altri terreni di riforma ecclesiale era stato atteso al varco; nessuno del resto mette in gioco la propria precomprensione della fede, non c’è l’idea che la predicazione, sia pure di un papa, non sia fatta di prevedibili stereotipi, che possa cogliere di sorpresa, come fa l’irrompere nella routine informativa  di una vera notizia, di una cosa nuova.  Ed ecco che nelle omelie di fine ed inizio d’anno in forma quasi lapidaria, con la forza di tutta l’esperienza di dolore della pandemia e la chiarezza di una informazione ormai certa,  è data la buona notizia,  giunge la risposta sul Dio in cui credere, e il dio invece da lasciare: il Dio cinico non esiste.  «Non potevamo immaginare un Dio simile, che nasce da donna e rivoluziona la storia con la tenerezza», ha letto dai fogli papali  il cardinale Parolin nella Messa di Capodanno; e nei Vespri di fine d’anno il cardinale Re con le parole di Francesco ha infranto la pretesa sofistica della teodicea che pretende tutto spiegare dei misteri di Dio: «Qual è il senso di un dramma come questo? Non dobbiamo avere fretta di dare risposta a tale interrogativo. Ai nostri  ‘perché’ più angosciosi nemmeno Dio risponde facendo ricorso a ‘ragioni superiori’. La risposta di Dio percorre la strada dell’incarnazione, come canterà tra poco l’Antifona al Magnificat: ‘Per il grande amore con il quale ci ha amati, Dio mandò il suo Figlio in una carne di peccato’.
«Un Dio che sacrificasse gli esseri umani per un grande disegno, fosse pure il migliore possibile, non è certo il Dio che ci ha rivelato Gesù Cristo. – dice Francesco - Dio è padre, ‘eterno Padre’, e se il suo Figlio si è fatto uomo, è per l’immensa compassione del cuore del Padre. Dio è Padre ed è pastore, e quale pastore darebbe per persa anche una sola pecora, pensando che intanto gliene restano molte? No, questo dio cinico e spietato non esiste. Non è questo il Dio che noi ‘lodiamo’ e ‘proclamiamo Signore’.
«Il buon samaritano, quando incontrò quel poveretto mezzo morto sul bordo della strada, non gli fece un discorso per spiegargli il senso di quanto gli era accaduto, magari per convincerlo che in fondo era per lui un bene. Il samaritano, mosso da compassione, si chinò su quell’estraneo trattandolo come un fratello e si prese cura di lui facendo tutto quanto era nelle sue possibilità (cfr Lc 10,25-37).
«Qui, sì, forse possiamo trovare un “senso” di questo dramma che è la pandemia, come di altri flagelli che colpiscono l’umanità: quello di suscitare in noi la compassione e provocare atteggiamenti e gesti di vicinanza, di cura, di solidarietà, di affetto. È ciò che è successo e succede anche a Roma, in questi mesi,,,,»
Così il papa. Non c’è un grande disegno, non c’è nessun disegno per il quale sacrificare esseri umani: non c’è per Dio, tanto meno può esserci per noi, per la ragion di Stato, per le guerre umanitarie, per il pareggio di bilancio, per i sacrificatori di ogni setta, cultura e religione: «Questo Dio cinico e spietato non esiste»; «Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge» aveva scritto Francesco nella bolla d’indizione dell’anno della misericordia, non sarebbe neanche un Dio. Perciò davanti all’uomo gettato ai bordi della strada e della vita  non c’è da argomentare sul bene che “in fondo” gliene può venire (per esempio salvarsi l’anima, come predicava l’Inquisizione), ma bisogna chinarsi su di lui e prenderne cura.
Questa, di ripetere l’azione messianica di svelare la vera “natura di Dio”, è la riforma di papa Francesco. Ma, come osserva padre Alberto Simoni nella sua strenua proposta di una vera “koinonia”, ciò è vano se non diventa una proposta pastorale di tutta la Chiesa. Cioè se tutta la Chiesa non fa suo questo annuncio, se non si limita a farlo  fare testualmente da due cardinali incaricati, o lo fa svogliatamente o non lo fa per nulla dai pulpiti domenicali.
La verità è che nella Chiesa, la cui stessa sopravvivenza secondo il Corriere della Sera è in prognosi riservata, ha bisogno oggi di una grande rivoluzione nel suo rapporto col mondo, come aveva intuito il Concilio Vaticano II, ma questa rivoluzione va oltre le buone maniere imposte dalla modernità, ha bisogno della stessa radicalità che «ha percorso la strada dell’incarnazione» . Questo vuol dire  che per raccontare al mondo un Dio così,  occorre aggiornare le sacre biblioteche, rinnovare i linguaggi e forse cominciare col ripensare e riscrivere i libri liturgici,  rifare la scelta delle letture bibliche per i cicli triennali dell’anno liturgico, ristudiare le connessioni tra le letture dell’Antico e Nuovo Testamento, non lasciare nel gorgo  del fraintendimento pagine bibliche  gravide di un Dio geloso e vindice, che nel contesto storico di oggi, così come sono (non più in latino ma in volgare) suonano come un controannuncio rispetto alla pazienza e misericordia di Dio, insomma riprendere la grande riforma liturgica intrapresa dal Concilio e che fu fatta interrompere al cardinale  Lercaro.
.L’impresa è ardua, ma per un Dio così ne vale la pena.

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