UNA PAROLA GLORIOSA
Con la soluzione della crisi di governo, l’emergenza in Italia e nel contempo
in Europa e nel mondo, ha raggiunto la massima portata. Non c’è dubbio che
secondo le categorie tradizionali si tratta di una soluzione di destra o, se
si vuole, di un’uscita da destra dalla crisi, tanto più se il suo movente è
stato, come si si sta delineando, il “business as usual”, gli affari come
sempre nonostante la pandemia. Ma appunto a giudicare secondo le categorie
del passato, mentre quello che oggi preme è il presente e il futuro. Non è di
destra la scelta del presidente della Repubblica, che ha anzi scongiurato il
rotolamento elettorale verso il fascismo; non è di destra che Salvini sia
stato personalmente costretto ad abbandonare il sovranismo orbanista o
lepenista (la Lega e la borghesia produttiva e egotista del Nord non
l’avevano sposato neanche prima); non è di destra che l’on. Meloni si trovi
collocata fuori dal gioco; non è di destra che il politico più autorevole o internazionalmente noto
come Mario Draghi si sia esposto e prenda decisioni come autore finale.
Ma sarebbe di destra il lamento senza vera politica.
Invece nella politica sta oggi tutta la strada. E la politica oggi,
non solo per noi, ma per Draghi (Draghi contro Draghi!), per la cultura, per
le fedi, per l’economia e per lo stesso capitale, vuol dire una parola che
viene proprio dal passato e che abbiamo fatto male a dimenticare. Dal passato
infatti non viene solo il male onde noi oggi giudichiamo il presente:
economicismo, monetarismo, diseguaglianza, bellicismo, austerità,
neoliberismo, indifferentismo, Maastricht (tutte ideologie!), ma vengono
anche delle grandissime cose, la Costituzione, il diritto, l’Europa, la
tradizione pacifista, per non parlare del cristianesimo. A questo passato va
oggi non contrapposta né dialettizzata secondo la cattiva filosofia delle
opposizioni, ma va integrata e immedesimata una parola gloriosa che viene
fino a noi tra le maggiori eredità del comunismo ma ancora prima
dall’umanesimo, e questa parola è l’internazionalismo.
La sovranità non basta e fallisce, l’Europa non basta e da sola fallisce, il
Regno Unito esce dall’Unione e si perde, la cosiddetta “America first”,
proprio l’America della Normandia, stava rischiando come tale di precipitare
nel fascismo e la pandemia irrompente in tanti filoni indipendenti e mutanti
e non affrontata insieme rischia di vincere la partita e di sconfiggere anche
noi. Nonostante tutte le buone intenzioni e perfino le giuste scelte che
potranno fare il governo Draghi, la Commissione Ursula e quanti altri, senza
l’internazionalismo, cioè senza soluzioni che oltrepassino il quadro dato,
ossia le regioni, le nazioni, l’Europa i singoli ordinamenti e le consuete
aggregazioni politiche e geografiche, non potranno trovare risposta né la
transizione ecologica, né la transizione sanitaria, né la transizione
digitale. Senza la non brevettabilità universale e distribuzione
incondizionata dei vaccini, bene comune, senza la messa al bando
universale delle armi, senza la decisione unanime sul clima, tutto ciò che di
negativo è temuto e previsto, nonostante ogni parziale beneficio in
contrario, avverrà.
Come deve essere evidente l’internazionalismo comincia dal condominio. Ma
guai al provincialismo o al moralismo o al fai da te di chi dice: “ci basti
intanto partire da noi”. La raccolta differenziata non significa niente (è
uno sberleffo, un fastidio!) se dietro l’angolo il camion è lo stesso.
L’internazionalismo è una politica. È un fare. Atto dopo atto, decisione dopo
decisione, fatti dopo scelte, “recuperi” confronti e processi avviati. Di
tale internazionalismo noi conosciamo il nome. Si chiama costituzionalismo
internazionale, si chiama, quale obiettivo storico e politico, Costituzione
della Terra. Esso infatti non vuol dire un potere universale, ma una
molteplicità di poteri armonizzati e reciprocamente garantiti sul piano
mondiale. Dalle istituzioni sanitarie a quelle giurisdizionali,
dall’Organizzazione del Lavoro all’Alta Autorità per il diritto, la libertà e
il finanziamento solidaristico delle Migrazioni.
Però questo – “costituzionalismo” - è un nome colto, almeno per ora, non è
ancora pronto a entrare come un vento impetuoso nel linguaggio politico, nel
discorso popolare, nell’ottusità dei mass media e perfino nei gabinetti
raffinati delle stanze dei bottoni. Non è ancora pronto a farsi partito, a
essere adottato come programma di partiti. Perciò il suo nome di battaglia,
la sua gestione in forma popolare deve avvenire nel nome e nei nomi
dell’internazionalismo. È una parola già fondata sul sangue di infiniti
martiri, di cui vogliamo ricordare qui un solo nome per tutti, Marianella
Garcia Villas, uccisa in quanto internazionalista dagli
stessi assassini dell’eroico vescovo di san Salvadore Oscar Arnulfo Romero.
Dunque davvero un nome che rinvia alla testimonianza, alla responsabilità,
alla lucidità politica e all’impegno civile di donne e uomini, di laici e
religiosi, atei e credenti, deboli e forti, poveri e ricchi.
E dunque internazionale dovrebbe essere l’ambito e l’orizzonte nel quale deve
operare la nostra iniziativa.
In ogni caso “No, non è la fine”, come dice il mio libro appena uscito in edizione
Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna.
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