mercoledì 7 giugno 2023

 LA RICONQUISTA E LA DIGA

Una proposta di pace per l’Ucraina è venuta da quel Sud del mondo che guarda con sgomento le strategie di guerra e di dominio dei Paesi del Nord e dell’Occidente, e avanza invece la visione di un nuovo ordine multipolare. In un “summit” a Singapore sulla sicurezza nella regione dell’Indo-Pacifico, tale proposta è stata formulata dall’Indonesia, che insieme al Brasile, alla Cina, ad altri Paesi del Sud e alla Santa Sede hanno mantenuto la lucidità e la magnanimità di cercare alternative alla guerra.
Il piano indonesiano prevede un immediato “cessate il fuoco”, il ritiro delle truppe russe ed ucraine di 15 chilometri per parte, il territorio così smilitarizzato presidiato da forze di pace delle Nazioni Unite e nei territori contesi un referendum indetto dall’ONU per accertare la volontà delle popolazione interessate sul loro futuro.
Illustrando la sua proposta il ministro della Difesa indonesiano ha detto che misure di questo tipo si sono mostrate efficaci nel corso della storia, come in Corea, dove certo non si è raggiunta una soluzione definitiva, ma “da cinquant’anni abbiamo almeno un po’ di pace, che è molto meglio della distruzione e della morte di persone innocenti”: concetti questi fruibili anche da un bambino se non da illustri e maturi statisti. Ha anche aggiunto che le nazioni asiatiche (si pensi al Giappone!) “conoscono i costi della guerra altrettanto e meglio delle loro controparti europee”, mentre oggi da questa sono già colpiti nella loro economia e sufficienza alimentare.
La proposta indonesiana è stata immediatamente respinta a Singapore dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri della Commissione von der Leyen, perché non introdurrebbe un discrimine tra aggressore e aggredito e non postulerebbe la pace “giusta” che “l’Europa vuole”.
La proposta è stata anche immediatamente respinta a Kiev dal presidente Zelensky che ha ribadito, come già aveva fatto riguardo al Papa, di non aver bisogno di mediatori, e ha dichiarato imminente la tanto annunciata controffensiva, del cui successo si è detto certo ottenendo la riconquista dei territori perduti anche se al costo di una gran numero di soldati uccisi.
In questo triangolare gioco con la morte si sono così delineate tre posizioni su guerra e pace che è bene indagare anche al di là della contingenza immediata.
La prima, quella indonesiana, non promette la luna ma ha cura di porsi al di sopra di un livello pur minimo di razionalità, preferendo una pace imperfetta e magari provvisoria (50 anni?) alla distruzione e alla morte di persone “innocenti”.
La seconda, quella dell’Unione Europea, si fa giudice della pace altrui e rovescia completamente quella rigenerazione ideale a cui deve la sua nascita. Essa doveva essere una comunità di popoli e di ordinamenti giuridici che andando oltre gli Stati nello stesso tempo li demitizza e li depone dal trono, ed ecco che si erge invece come un SuperStato, che reprime le differenze, si dà un’identità contrapponendosi a un Nemico (la Russia, o “il resto del mondo”, come scrive il “Corriere della Sera”), vuole crearsi un esercito, si immerge in un’alleanza militare e si pavoneggia nel mondo come una Potenza tra le Potenze. O l’Europa non è questa, e il Rappresentante non rappresenta nessuno?
La terza è quella dell’Ucraina di Zelensky che di fronte a due valori che sono in gioco, i confini supposti come suoi e la vita di un gran numero di soldati, li mette in scala gerarchica l’uno sull’altro e sceglie i confini a spese – come dice in modo più diretto il ministro indonesiano – “della distruzione e della morte di persone innocenti”.
La scelta sarebbe quindi tra una nuova spartizione dei territori, e la vita di persone e di popoli. Per il diritto internazionale la scelta è chiara: al centro ci sono i popoli, il bando della guerra, la condanna del genocidio.
L’Europa dovrebbe ricordare con orrore la sua storia di guerre per ridisegnare i confini, da cui, unendosi, ha voluto uscire; dovrebbe ricordarsi dell’Alsazia e Lorena nel 1870-71, di Danzica nel 1939, del Kosovo nel 1999, per non parlare delle “terre irredente” della propaganda fascista per l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Per contro gli accordi di Helsinki proclamavano l’intangibilità dei confini ma ne ammettevano il cambiamento pacifico e si appellavano all’autodeterminazione (i referendum?) dei popoli.
Ma più ancora si può dire che la lotta per la spartizione delle terre appartiene a un’epoca primitiva e pregiuridica della storia umana: come ha spiegato Carl Schmitt il “nomos”, che si è poi tradotto nel diritto e nella legge, viene da un verbo, “nemein”, che significa tre cose, appropriarsi, dividere e sfruttare, per cui il “nomos della Terra” da allora, consisterebbe nel processo di appropriazione, spartizione e produzione che giunge, come diceva il filosofo economista Claudio Napoleoni, fino all’attuale espropriazione e alienazione dell’uomo ridotto a merce, a prodotto ed a cosa.
La lotta per stabilire il dominio su territori spartiti, la lotta per i confini, senza tener conto dalla vita e dalla pace degli uomini e delle donne che vi sono inclusi, è dunque una lotta ferina, barbarica, di età tribale, ben diversa dalle lotte per la liberazione dei popoli, che ha a che fare con la pace se - come Giovanni l’anniversario della morte scriveva nella “Pacem in Terris” - questa liberazione appartiene ai “segni del tempo” che annunciano la pace: “Non più popoli dominatori e popoli dominati”. Ed è fuorviante e puerile intendere questa guerra innescata dalla disputa sulla NATO, non come una guerra in cui ne va della vita dei popoli, che siano ucraini, russi o del Donbass, ma per stabilire confini tra territori che intanto vengono contaminati, resi inabitabili e distrutti. E oggi salta in aria la diga.
La riconquista non vale un genocidio, non del proprio stesso popolo.

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