Prima di lasciare la scena, il re vi compare mascherato, nell’estremo tentativo di salvare il suo potere. È questo che ha fatto Berlusconi nelle giornate parlamentari del 29 e 30 settembre, che hanno segnato la sua sconfitta perché hanno dimostrato che ormai l’opposizione non è più solo dei gruppi di minoranza, ma di due gruppi della stessa maggioranza – i finiani e i siciliani di Lombardo – che lo tengono in pugno, gli hanno dato una fiducia condizionata e lo hanno umiliato con durissimi discorsi di demolizione e di critica.
Con quale maschera il presidente del Consiglio si è travisato per non cadere dal trono?
Anzitutto si è presentato come una personcina per bene, conciliante e pronto al dialogo con i suoi e con i loro, nascondendo che “i loro” li aveva sempre trattati con odio apostrofandoli come antitaliani e comunisti, e “i suoi” li aveva cacciati dal partito e contro
colui che aveva alle sue spalle aveva aizzato i suoi bravi che attraverso i giornali e i dossiers distruggessero lui e la sua famiglia.
colui che aveva alle sue spalle aveva aizzato i suoi bravi che attraverso i giornali e i dossiers distruggessero lui e la sua famiglia.
Poi si è messo la maschera dello statista democratico intento notte e giorno a difendere le prerogative del Parlamento (questo era il discorso “alto”), lui che in Parlamento non ci va mai (per non perdere tempo) che lo ha espropriato del suo ruolo con i voti di fiducia e i decreti legge, e nel discorso di Yaroslav in Russia del 10 settembre ha detto ai dirigenti internazionali sbigottiti che le Camere sono il vero difetto del sistema messo su dai costituenti italiani, perché il governo non può fare “immediatamente” quello che vuole, ma “deve far passare tutta la sua attività attraverso l’approvazione delle Camere”.
Il re nudo ha poi messo la maschera del leader che media le dialettiche interne al suo partito, con un leggero rimprovero se vanno un po’ oltre il segno, mentre a Yaroslav aveva bollato i dissidenti come mestieranti della politica che volevano farsi la loro “piccola azienda”, e aveva dato assicurazioni al suo amico russo e al coreano che in Italia non stava succedendo nulla e il governo sarebbe andato avanti, illeso e incurante di queste piccole beghe del teatrino della politica.
Il re soccombente ha poi messo la maschera di chi va col cappello in mano a chiedere i voti di tutti, senza comprare i voti di nessuno, quando aveva disperatamente cercato di rendere superflui i voti di Fini e di Bocchino, e aveva lanciato la campagna acquisti per raggiungere la fatidica quota di 316 deputati “autosufficienti”; qui si è molto polemizzato su questa immoralità che porta in Parlamento e nella politica il calcio-mercato; ma si è fatto un torto al calcio e al mercato perché almeno lì non si compra chiunque, ma solo chi ha qualche talento nel giocare a pallone, mentre qui si comprano anche i brocchi, alla sola condizione che dicano sì.
Tutte queste maschere sono cadute. E l’ultima maschera caduta al re talismano, è quella della sua popolarità, fonte di ogni potere. Questa popolarità aveva fatto di lui il modello da imitare, che egli poteva modificare a suo piacere. Come racconta Elias Canetti in Massa e potere in Cina quando l’imperatore rideva, tutti ridevano, anche i mandarini ridevano, e se l’imperatore era triste i mandarini si facevano mesti in volto: “si poteva pensare che i loro volti fossero fatti di piume e che l’imperatore potesse a suo piacimento toccarle e metterle in movimento”: maschera il re e maschere i sudditi.
Anche da noi Berlusconi rideva e i suoi appassionati ridevano e dicevano meno male che Silvio c’è. Ma ora anche questa maschera è caduta, la popolarità (il “gradimento”, come dice lui) è precipitata nei sondaggi e non c’è più passione per lui. Alla Camera mentre i discorsi degli oppositori facevano scintille (e quello di Di Pietro addirittura fulmini e saette), i discorsi degli apologeti erano piatti e noiosi, tanto che quando parlava Cicchitto perfino Berlusconi dormiva; e a Palazzo Madama, per disdegno, i senatori a vita non hanno neanche votato.
Dunque questa è una pagina da chiudere al più presto. Non è più neanche questione dei punti programmatici del governo, difesa della vita (per i cattolici) e ponte sullo Stretto (per le mafie), compressione della domanda interna (per la Banca europea) e centrali nucleari (per l’industria); è questione di una dignità da restaurare. È quella che l’Italia ha perduto, sia all’interno, come figura pubblica della comunità nazionale, avvilita nel degrado etico che neanche la CEI vuole più sopportare (“la pazienza è finita”, non solo per la Confindustria), sia all’estero per il discredito guadagnato con il resto del mondo.
Senza dignità non c’è più né destra né sinistra, non c’è politica e non c’è Paese. Perché la destra e la sinistra, la politica e il Paese possano tornare ad esistere, è dalla dignità che bisogna ripartire.
Raniero La Valle
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