di Raniero La Valle
“Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie”.
E in modo ancora più esplicito: “Non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei palestinesi”: la prima affermazione è contenuta nel Messaggio al Popolo di Dio (cioè a tutto il mondo) del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente; la seconda affermazione è dell’Arcivescovo greco-melchita Cyrill Salim Bustros, che nella Sala Stampa vaticana ufficialmente l’ha presentato e spiegato.
E in modo ancora più esplicito: “Non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei palestinesi”: la prima affermazione è contenuta nel Messaggio al Popolo di Dio (cioè a tutto il mondo) del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente; la seconda affermazione è dell’Arcivescovo greco-melchita Cyrill Salim Bustros, che nella Sala Stampa vaticana ufficialmente l’ha presentato e spiegato.
Questa cosa nessuna Chiesa l’aveva mai detta.
Che la Bibbia possa ispirare la condotta dei dirigenti di uno Stato nessuno l’ha mai contestato. Ma che la Bibbia possa essere l’origine di una sovranità moderna, prendere il posto di una Costituzione, legittimare occupazioni militari, colonizzazioni ed espulsione di popolazioni autoctone, non è normale, e tuttavia questo nessuno l’aveva mai contestato ad Israele. È per questo che le reazioni del governo israeliano prima ancora che di
Che la Bibbia possa ispirare la condotta dei dirigenti di uno Stato nessuno l’ha mai contestato. Ma che la Bibbia possa essere l’origine di una sovranità moderna, prendere il posto di una Costituzione, legittimare occupazioni militari, colonizzazioni ed espulsione di popolazioni autoctone, non è normale, e tuttavia questo nessuno l’aveva mai contestato ad Israele. È per questo che le reazioni del governo israeliano prima ancora che di
veemente protesta, sono state di stupore. Perché da sessant’anni si faceva finta di niente. La finzione che Israele fosse uno Stato come gli altri, anzi l’unico Stato democratico della zona, che il conflitto con i palestinesi fosse un semplice conflitto territoriale e che il famoso processo di pace comportasse solo problemi politici che chissà perché nessuno riusciva mai a risolvere, è stata una finzione sempre adottata da tutto l’Occidente e da tutte le Chiese. Troppo difficile era affrontare il nodo vero, per la paura che ciò potesse gettare un’ombra sul rapporto con gli ebrei, con tanta fatica e con grandissima gioia ricomposto dopo gli orrori delle persecuzioni antisemite e lo scempio della Shoà.
Perfino nel documento di riconciliazione con gli ebrei del Concilio Vaticano II “Nostra aetate” la questione era rimossa, fino al punto che la parola “Israele”, per la difficoltà di coniugare la sua valenza teologica (l’”Israele di Dio”) e la sua attuale significazione politica (lo Stato d’Israele) non era mai adoperata.
Ma questo silenzio sulla componente religiosa della questione israeliana se era di tutto l’Occidente e di tutte le Chiese, non lo era affatto degli ebrei, sia d’Israele che del mondo intero. La questione della legittimazione e della identità ebraica dello Stato d’Israele, del significato religioso del sionismo politico, della sua compatibilità o contrasto col sionismo religioso, in effetti domina il dibattito ebraico dall’inizio del Novecento ed è sempre aperta, anche se il 10 ottobre scorso il governo israeliano ha tentato una nuova forzatura inserendo nella legge sulla cittadinanza una norma che obbligherebbe ogni nuovo cittadino israeliano (anche arabo) a prestare giuramento ad Israele “Stato ebraico e democratico”, facendo così dell’ebraicità un carattere sacro dello Stato tutelato da un giuramento.
In questa situazione è un po’ paradossale che il ministero degli esteri israeliano abbia replicato al Sinodo che il riferimento alla Terra Promessa “non è mai stata la politica di alcun governo in Israele”: l’espansione delle colonie nei territori occupati non ha in effetti altra ragione che questa.
Dunque è cominciato “un momento di verità”? Forse esso non sarebbe mai venuto se l’iniziativa non fosse venuta da cristiani – laici pastori e vescovi – di tutte le Chiese cristiane della Palestina, attraverso un documento “Kairós Palestina”, fatto proprio dai Patriarchi e dai capi delle Chiese di Gerusalemme e indirizzato a tutte le Chiese[1].
In esso si pone esplicitamente la questione che attraverso un uso distorto della Bibbia da parte di Israele, “la buona notizia dello stesso Vangelo è diventata una minaccia di morte per noi”. In questione non c’è dunque solamente la nuda vita del popolo palestinese: in questione è lo stesso kerigma, sia quello cristiano che quello ebraico.
In esso si pone esplicitamente la questione che attraverso un uso distorto della Bibbia da parte di Israele, “la buona notizia dello stesso Vangelo è diventata una minaccia di morte per noi”. In questione non c’è dunque solamente la nuda vita del popolo palestinese: in questione è lo stesso kerigma, sia quello cristiano che quello ebraico.
Per questo la Chiesa cattolica nel Sinodo dei Vescovi, che nel documento preparatorio ancora una volta aveva derubricato il conflitto a questione politica senza implicazioni ecclesiali, se ne è ora fatta carico e ha posto il problema alla luce del sole davanti a tutti. L’ecumenismo, la coniugazione dei carismi di laici e gerarchie ecclesiastiche di tutte le Chiese più direttamente coinvolte, sono arrivate là dove una Chiesa da sola non aveva osato arrivare.
[1] “Kairós Palestina, Un momento di verità – Una parola di fede, speranza e amore dal cuore della sofferenza dei palestinesi”, con prefazione di Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, a cura di Nandino Capovilla, 2010, Edizioni Messaggero Padova, Edizioni Terra Santa, Pax Christi Italia.
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