venerdì 12 aprile 2013

Conclusioni di Raniero La Valle all'assemblea ecclesiale di Roma del 06 aprile scorso nel cinquantesimo anniversario della "Pacem in Terris"




Cari amici, abbiamo fatto in questa felice giornata un piccolo monumento alla “Pacem in terris”. Ne abbiamo analizzato molto in profondità teologia ed antropologia, abbiamo visto cioè che cosa essa vuol dire per la comprensione di Dio e per la comprensione dell’uomo, che poi vuol dire per la comprensione del cristianesimo che è l’unica religione nella quale Dio si trova nell’uomo e l’uomo non si trova che in Dio.
Giunti alle conclusioni, io vorrei parlare non tanto delle cose che abbiamo detto, ma di noi che le abbiamo dette, e più precisamente del sentimento che ci accomuna, del sentimento con il quale e a causa del quale abbiamo ripreso in mano, dopo cinquant’anni, la “Pacem in Terris”, ma che può essere anche il sentimento dei giovani che la prendessero ora in mano per la prima volta.
Questo sentimento è la meraviglia. La meraviglia sta nel fatto che l’enciclica ci ha detto qualcosa che mai avremmo pensato di sentir dire dalla Chiesa preconciliare: e nell’aprile del 1963, la Chiesa era ancora la Chiesa preconciliare, il Concilio sarebbe esploso dopo. Questa meraviglia però vale anche rispetto alla Chiesa di oggi, che con l’ordinario militare e i cappellani militari fa ancora parte delle Forze Armate.

“Noi siamo meravigliati”

Perciò questa enciclica avrebbe potuto piuttosto chiamarsi: “Mirari nos”. Noi siamo meravigliati. E tanto più potrebbe chiamarsi così perché essa si poneva come un rovesciamento radicale e simmetrico di un’altra enciclica, vecchia di oltre un secolo, che si chiamava “Mirari vos”, che voleva dire “voi non siete meravigliati”.  Era l’enciclica del 15 aprile 1832 in cui Gregorio XVI rifiutava la modernità, poneva la religione come fondamento e sgabello del potere politico dei Regni, dei Principi e di ogni altra dominazione, era l’enciclica in cui veniva condannato l’indifferentismo in quanto accusato di rispettare tutte le religioni, erano bollate come “un delirio” la libertà religiosa e la libertà di coscienza, era esecrata la libertà di stampa, esorcizzata “la mortifera peste dei libri” ed erano messi al bando i sediziosi che “con infamissime trame” mancavano di fede, cioè resistevano, ai Principi e si sforzavano di cacciarli dal trono. E questa enciclica non solo metteva sotto accusa i liberali infedeli, ma anche i cattolici liberali, a cominciare da Lamennais e dal suo giornale L’Avenir.

Era dunque ragione di meraviglia che nel 1963 gli errori condannati dalla “Mirari vos”, venissero riproposti nella Chiesa come valori supremamente umani e cristiani e addirittura come segni del tempo presaghi del regno di Dio; e la meraviglia era tanto maggiore perché questo rovesciamento non era proposto in qualche libro di teologia, ma era attuato e proclamato da un papa. È la stessa meraviglia manifestata dai fedeli ebrei nella sinagoga di Nazaret nel sentir parlare Gesù: ma non è questi il figlio di Giuseppe, il falegname? E ora, a dire queste cose, non è un papa, non è quel papa che all’inizio del suo pontificato si era presentato umilmente al mondo dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”? Si, era proprio quel papa che identificandosi con Giuseppe venduto dai fratelli per l’Egitto, aveva voluto mettere la loro riconciliazione a simbolo del suo pontificato, inteso a costruire la pace. La “Pacem in terris” era appunto il suggello che rappresentava questo simbolo.
Questo ci induce a passare dall’enciclica al suo autore, dall’annuncio all’annunciatore. E questo ci permette di aprire un’altra prospettiva, ulteriore rispetto a quelle indagate fin qui, che non è più la prospettiva teologica né quella antropologica, ma è una prospettiva ecclesiologica. Perché nel papa che scrive quest’enciclica c’è in nuce una riforma della Chiesa e una riforma del papato.




Novità nel magistero

Ed è proprio qui che io vorrei trovare il legame più stringente tra l’evento dell’enciclica che noi commemoriamo e il passaggio a cui è chiamata la Chiesa di oggi.  Qui c’è l’arco voltaico che dalla “Pacem in terris” e dal discorso sulla Chiesa dei poveri va al papa che oggi si presenta senza frange nè filattèri, è qui che il fuoco dell’enciclica può tornare ad ardere oggi, perché quella riforma del papato che papa Giovanni aveva avviato e dopo di lui sembrava essersi esaurita ecco ora, con papa Francesco, può riprendere.
Che nella “Pacem in terris” fosse implicata una riforma del papato è mostrato dalla storia dell’enciclica, come l’ha ricostruita e ce l’ha raccontata Alberto Melloni[1].
Come fa un buon papa, Giovanni XXIII aveva sottoposto la sua enciclica a un esame preventivo, cioè a una censura. Però non l’aveva mandata al Sant’Uffizio, e invece l’aveva sottoposta al vaglio del domenicano padre Luigi Ciappi, maestro dei sacri palazzi, e del gesuita padre George Jarlot, professore alla Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello di Pio XII.
In particolare il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei Sommi pontefici” a meno che, aggiungeva con una certa malizia, non si volesse “implicitamente far prevalere concezioni che, anche in campo cattolico, vanno oggi diffondendosi come più rispondenti alla mentalità moderna”. Anche riguardo alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi chiedeva una correzione. “Il testo dovrebbe essere ritoccato – scriveva al papa – altrimenti si potrebbe conchiudere che la donna non ha alcuna dipendenza e subordinazione nei rispetti dell’uomo nella vita domestica contro il chiaro insegnamento di San Paolo, della tradizione e di Pio XII”. Perciò, contro la voce del serpente che, secondo Pio XII ripeteva alle casalinghe: “voi siete in tutto eguali ai vostri mariti”, padre Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la donna come sposa è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Qui c’è una notizia che non so come Pierluigi Bersani abbia avuto, secondo la quale all’osservazione di un divario dal magistero precedente, il papa avrebbe reagito scrivendo a margine del foglio, a matita: “Pazienza!”; e così Bersani ha spiegato perché ha messo papa Giovanni nel suo pantheon personale.
Quanto al padre Jarlot, egli muoveva all’enciclica una contestazione  ancora più radicale, che riguardava l’affermazione forte su cui tutto il testo era costruito. L’affermazione forte era, come è a tutti noto, che la pace doveva fondarsi su quattro pilastri: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Questi quattro fondamenti della pace (e perciò della vita associata degli esseri umani) papa Giovanni li aveva messi sullo stesso piano, e tutte e quattro queste stelle polari dovevano condurre gli uomini alla pace: “veritate, iustitia, caritate, libertate, magistris et ducibus”: maestre e guide. Per la prima volta nel magistero romano la verità non era messa al di sopra, come condizione e limite alla libertà, ma era messa sullo stesso piano della libertà. Padre Jarlot se ne accorse subito, e scrisse al papa che solo la verità può essere una guida, da cui derivano la libertà, la giustizia e la carità; al contrario, diceva, la libertà è una guida incerta che non può essere messa in serie con le altre. Ma anche in questo caso Giovanni XXIII non raccolse l’obiezione, e il testo rimase così com’era.

Verso la riforma del papato

Ed è qui che c’è la riforma del papato. Il papato giungeva alla crisi del Novecento da un millennio nel quale si era costruito come un potere superiore ad ogni altro potere;  esso aveva così dato forma alla Chiesa, e sopprimendo ogni distanza tra l’umano e il divino, aveva fatto della Chiesa il supremo regno terreno e l’aveva scagliata contro la modernità, ossia contro il secolo che in tal modo veniva a costituirsi come tutto ciò che non è Chiesa o ad essa si sottrae. Le tappe di questa cattura del cielo per racchiuderlo senza residui nell’involucro del papato e della Chiesa sono ben note e si possono rintracciare nel prezioso libro “Per una storia della giustizia” dello storico Paolo Prodi: all’inizio c’è la “rivoluzione papale” dell’XI secolo, la scomunica alla Chiesa d’Oriente, il Dictatus papae di Gregorio VII che stabiliva la superiorità del sacerdotium, faceva del romano pontefice il solo episcopus universalis, il solo che potesse rivestirsi delle insegne imperiali e del quale i principi dovessero baciare i piedi, il solo che potesse deporre imperatori e vescovi, il solo a essere santo d’ufficio per la partecipazione ai meriti di san Pietro. Sarà poi Innocenzo III, la figura dialettica di San Francesco, che farà del peccato la grande risorsa che dava il diritto al papa di esercitare il potere anche temporale, appunto “ratione peccati”, e che tenterà, nel IV Concilio lateranense del 1215 di stabilire un generale controllo delle coscienze con l’obbligo della confessione almeno una volta all’anno al sacerdote proprio di ciascuno, inteso come suo giudice naturale; per giungere poi alla Bolla Unam Sanctam del 1302 di Bonifacio VIII, nella quale si diceva che la Chiesa non è un mostro con due teste, cioè Cristo e Pietro; a tutti gli effetti c’è Pietro vicario di Cristo, e i suoi successori;  e a quest’unico capo sono state date in affidamento non alcune, ma tutte le pecore; e non ci sono due poteri, uno temporale e l’altro spirituale, ma un solo potere con due spade, una spirituale, l’altra temporale, ambedue in potestate Ecclesiae, di cui la prima deve essere esercitata dal sacerdote, l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo del sacerdote; e si stabiliva che per la salvezza è assolutamente necessaria la sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Nel Vaticano I si concludeva, con l’infallibilità, la messa in opera di questa figura del papato, ma nello stesso tempo la si arginava, e si ammetteva che, fatto salvo il magistero infallibile, il resto era esposto al vento e anche agli errori della storicità; perciò lo stesso magistero ordinario, per quanto autorevole, risultava suscettibile di correzioni e di innovazioni. Dunque anche tutta quella costruzione del secondo millennio, che alla crisi del Novecento aveva consegnato una Chiesa in condizioni di agonia e di contraddizione col suo tempo, poteva essere rivisitata e “aggiornata”.

Solo il papa, con la Chiesa, può riformare il papato

Ma chi poteva farlo? Chi aveva l’autorità per correggere l’opera del papato, innovare il magistero e riformare il papato stesso? È evidente che lo può fare la Chiesa che opera col papa e mai senza il papa. Ma storicamente non ce la fa. Non riesce a riformare il papato. Nemmeno il Concilio c’è riuscito, anche se, con la collegialità, ha rimesso il papa dentro la Chiesa.
Ed ecco allora la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero, l’autoriforma del papato.
Mi viene in mente un episodio degli anni della mia infanzia. Il fascismo voleva sciogliere la FUCI e gli altri circoli dei giovani cattolici. Pio XI li ricevette, e disse loro: non vi preoccupate, il papa vi ha costituito, solo il papa vi può sciogliere. Così si può dire delle modalità di esercizio del ministero petrino, della forma storica in cui il papato si è costruito; come il papato ha modellato la propria figura, e a quella figura per novecento anni ha intrecciato la Chiesa, così il papato può sciogliere quell’intreccio, può ripensare e ricostruire quella figura. E’ il papa, non da solo ma con la Chiesa e mai senza la Chiesa, che  può riformare il papato.
Papa Giovanni aveva cominciato a farlo rimettendo anche il magistero ordinario del romano pontefice nella tradizione, non intesa però come un sarcofago da trasmettere da una generazione all’altra, ma come una tradizione vivente e sensibile alla storia; e nel momento in cui dava un esempio di come quel magistero potesse riformarsi e arricchirsi, alludeva con i suoi gesti, così inconsueti per un papa di quel tempo, ad una riforma dello stesso papato, mentre al Concilio affidava la riforma di tutta la Chiesa; e il Concilio andava avanti sulla via aperta dall’enciclica giovannea: la libertà di coscienza con la Dignitatis humanae, la pari dignità delle religioni con la Nostra aetate, la rivalutazione umana della donna e dell’amore coniugale con la Gaudium et Spes, e così via; cose che comportavano non solo una riforma della Chiesa, ma un rinnovamento del kerigma, cioè dell’annuncio fondamentale della fede.
Questa istanza di una riforma papale entrava poi in letargo dopo il Concilio, ed anzi Paolo VI e Giovanni Paolo II tentarono di rispondere alla crisi ecclesiale rilanciando in forme moderne il trionfalismo del papa come vescovo universale, ridandogli gloria, visibilità e audience.

Il dubbio di Giovanni Paolo II

Però Giovanni Paolo II deve essere stato attraversato da un dubbio, ha forse pensato seriamente a una possibile riforma del ministero petrino, rimasto come un ostacolo sul cammino dell’ecumenismo. Io so che un giorno invitò a pranzo dei professori dell’Istituto orientale, e chiese loro che cosa significasse la frase di Gesù riferita da Luca: “Simone, Simone, io ho pregato per te che non venga meno la tua fede; e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli (Luca, 22, 31-32)”. E aggiunse: “io so che cosa vuol dire personalmente convertirsi. Ma qual è la conversione che è richiesta al ministero di Pietro, perché possa confermare i fratelli?” E chiese loro di studiare cosa potesse significare la conversione del papato. Poi però la cosa non ebbe seguito, perché Giovanni Paolo II si ammalò, e morì. Tuttavia, senza saperlo, aveva forse posto la premessa perché, un giorno, la questione della riforma del papato potesse riaprirsi. Infatti, prendendolo dalla fine del mondo, aveva fatto cardinale un gesuita argentino, l’arcivescovo di Buenos Aires che si chiamava Bergoglio. Senza saperlo, preparava un altro papa, a lui sconosciuto; quello conosciuto era Ratzinger, che potè essere papa dopo di lui senza sorprese; ma quello sconosciuto era Bergoglio, e questo sì che poteva dare sorprese, fin dalla scelta del nome.

La riforma è cominciata?

Il nome di questo nuovo papa allude a una storia della Chiesa che ricomincia non da Innocenzo III, ma da Francesco d’Assisi, non dal sovraccarico dell’istituzione, ma dalla leggerezza della profezia; la rinunzia alla mozzetta rossa significa deporre le insegne imperiali che Gregorio VII aveva avocato al papato; il chinarsi al bacio del piede dei detenuti, la sera del giovedì santo, riscatta l’antica pretesa del papa che a lui tutti i principi baciassero i piedi, il bacio del piede della giovane reclusa dai lunghi capelli neri, restituiva alla donna quel gesto di venerazione e di affetto che la peccatrice aveva compiuto bagnando di lagrime i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato. Pietro, in ciò veramente vicario di Gesù, pagava il debito d’amore del suo maestro, di nuovo toccava il corpo di una donna finora sempre tenuto nascosto e temuto nella Chiesa. E forse proprio questo vuol dire la riforma del papato. Per esempio vuol dire, come ha spiegato papa Francesco nell’omelia per l’inizio del suo pontificato che “certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta?” Si tratta di un potere che è il servizio, e “anche il papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice nella croce”. La riforma del papato vuol dire annunciare un Dio che è solo perdono e misericordia, un Dio che “giudica amandoci”, come Francesco ha detto nella via Crucis al Colosseo. Non un Dio che giudica e ama, come subito hanno tradotto i volgarizzatori che non si accorgono delle novità; perché questo, di dispensare insieme amore e giudizio, lo faceva anche la Chiesa dell’Inquisizione; si tratta invece di un Dio in cui non c’è giudizio, perché l’amore è il giudizio: quello che il papa ha detto è che non c’è una misericordia accanto al giudizio ma, come pensava Isacco di Ninive, la misericordia stessa è il giudizio; e questa misericordia il papa l’ha imparata dai libri del cardinale Kasper non meno che dalle parole di una umile nonna di Buenos Aires, come ha detto nel suo primo Angelus dalla finestra di una che non è più la sua. La riforma del papato è affermare, con papa Giovanni, che il ministero, che la Chiesa, che il Concilio sono pastorali, non c’è una teologia, non c’è una dottrina, non c’è un  “deposito di fede” che per loro essenza non siano pastorali; la pastorale non è figlia di un Dio minore, come ritengono quelli che per sminuire il Vaticano II insistono a dire che è stato un Concilio solo pastorale; e pastorale vuol dire stare “con l’odore del gregge”, portarselo addosso, guidare gli armenti per valli scoscese: per questo ci vogliono le scarpe nere, con i lacci, non le pantofole da papa.
E naturalmente la riforma del papato vuol dire la riforma della Curia, vuol dire la collegialità, vuol dire la povertà. E soprattutto vuol dire che nessuna riforma, ma anche nessuna conservazione, si può fare da un papato, da una Chiesa senza popolo, cioè senza i discepoli, senza le donne, senza le madri che decidono il numero dei figli, senza i divorziati, senza gli omosessuali, senza gli stranieri, senza gli immigrati, senza i poveri, senza gli ultimi.
Certo sarà molto difficile per Francesco intraprendere questa riforma. Le opposizioni saranno durissime, e già Roma è piena di mormorii che sussurrano che questo non è il modo di fare il papa. Come del resto dicevano per papa Giovanni.
Ma noi crediamo, dopo aver letto la “Pacem in terris”, dopo aver adottato papa Francesco, che questa riforma del papato, della Chiesa e dello stesso annuncio cristiano, sia possibile. E se il papa Francesco vorrà fare questa riforma, noi, Chiesa, ci siamo.

                                                                                                    Raniero La Valle



[1] A. Melloni, Pacem in terris, storia dell’ultima enciclica di papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 2010,

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