Il metodo che abbiamo scelto per
partecipare alle celebrazioni dei 50 anni dal Concilio Vaticano II si è rivelato
molto fruttuoso: esso consiste non nel ricordare, ma in un capire differito; non
ridare colore a immagini sfocate ma
capire oggi, nella nuova situazione della Chiesa e del mondo, ciò che pur c’era
nell’evento del Concilio, ma che allora non capimmo, cose che allora erano
rimaste nascoste perfino ai suoi principali protagonisti. Una cosa di cui
allora nessuno si accorse fu che nella “Pacem in terris” di papa Giovanni, suo estremo magistero prima
della morte, non solo c’era una grande novità teologica e antropologica, ma
c’era in nuce la riforma del papato e
perciò della Chiesa.
E’ questa la conclusione a cui è giunta
la grande assemblea ecclesiale intitolata alla “Chiesadituttichiesadeipoveri”
che si è tenuta il 6 aprile a Roma e ormai già per la seconda volta in un anno.
L’esame dell’enciclica giovannea ha
rimandato alla storia della sua redazione, i cui documenti sono stati
magistralmente pubblicati da Alberto Melloni. Da questi documenti risulta la
perfetta consapevolezza, da parte del Papa e dei suoi teologi di fiducia, che i
contenuti dell’enciclica – il riconoscimento a ogni essere umano del diritto
alla libertà; la libertà sullo stesso piano della verità, della giustizia e
dell’amore; la perfetta parità di diritti e di doveri della donna e dell’uomo –
erano il rovesciamento di un costante magistero pontificio dell’800 dalla Mirari Vos di Gregorio XVI a Pio IX e fino a Pio XII. Una Chiesa che
veniva dal mito dell’infallibilità e da un papato costruito nel II millennio
come un potere superiore ad ogni altro potere non avrebbe potuto mutare un
magistero conclamato e ricorrente del papa se non fosse stato il papa stesso a
farlo; e non era facile pensarlo dopo che Gregorio VII aveva fatto del pontefice
il solo episcopus universalis del
quale i principi dovessero baciare i piedi, dopo che Innocenzo III, la figura
dialettica di San Francesco, aveva stabilito il diritto del papa a esercitare
il potere anche temporale, per rimedio al peccato, e dopo che Bonifacio VIII
aveva rivendicato come necessaria la sottomissione al Romano Pontefice di ogni
umana creatura.
Ed è qui la
novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero e l’autoriforma del papato.
Questa istanza di una riforma del papato è sembrata poi entrare in letargo nei
cinquanta anni successivi all’enciclica, ma ecco oggi ritorna possibile. La
sorpresa è stata Bergoglio, fin dalla scelta del nome, come a dire che si
ricomincia non da Innocenzo III, ma da Francesco d’Assisi, non dal sovraccarico
dell’istituzione, ma dalla leggerezza della profezia; il chinarsi al bacio del
piede dei detenuti, la sera del giovedì santo, riscatta l’antica pretesa del papa
che a lui tutti i principi baciassero i piedi, il bacio del piede della giovane
reclusa dai lunghi capelli neri, restituiva alla donna quel gesto di
venerazione e di affetto che la peccatrice aveva compiuto bagnando di lagrime i
piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di
olio profumato. Pietro, in ciò veramente vicario di Gesù, pagava il debito
d’amore del suo maestro, di nuovo toccava il corpo di una donna finora sempre
tenuto nascosto e temuto nella Chiesa. E forse proprio questo vuol dire la
riforma del papato. Per esempio vuol dire, come ha spiegato papa Francesco
nell’omelia per l’inizio del suo pontificato che “certo, Gesù Cristo ha dato un
potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Si tratta di un potere che è il
servizio”. La riforma del papato vuol dire annunciare un Dio che è solo perdono
e misericordia, un Dio che “giudica amandoci”, come Francesco ha detto nella
via Crucis al Colosseo. Non un Dio che giudica e ama, come subito hanno
tradotto i volgarizzatori che non si accorgono delle novità; perché questo, di
dispensare insieme amore e giudizio, lo faceva anche la Chiesa dell’Inquisizione;
si tratta invece di un Dio in cui non c’è giudizio, perché l’amore è il
giudizio: quello che il papa ha detto è che non c’è una misericordia accanto al
giudizio ma, come pensava Isacco di Ninive, la misericordia stessa è il
giudizio; e questa misericordia il papa l’ha imparata dai libri del cardinale
Kasper non meno che dalle parole di una umile nonna di Buenos Aires, come ha
detto nel suo primo Angelus dalla finestra di una stanza che non è più la sua.
E naturalmente
la riforma del papato vuol dire la riforma della Curia, vuol dire la
collegialità, vuol dire la povertà. E soprattutto vuol dire che nessuna
riforma, ma anche nessuna conservazione, si può fare da un papato, da una
Chiesa senza popolo, cioè senza i discepoli, senza le donne, senza le madri che
decidono il numero dei figli, senza i divorziati, senza gli omosessuali, senza
gli stranieri, senza gli immigrati, senza i poveri, senza gli ultimi.
Certo sarà
molto difficile per Francesco intraprendere questa riforma. Ma se la vorrà
fare, noi, Chiesa, ci siamo..
Raniero La Valle
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