Raniero
La Valle
Discorso tenuto ad Assisi il 21 agosto
2015 al 73° Corso di studi cristiani sul tema “Responsabili dell’immagine di
Dio”.
Mi era stato chiesto di raccontare “Il Dio in
cui credo, il Dio in cui non credo”. Ma questo voleva dire aprire l’armadio di
tutte le definizioni di Dio, di tutte le fantasie su Dio, e scegliere fior da
fiore, per ricostruire il Dio che mi piace, ed escludere i connotati del Dio
che non mi piace. Ma chi sono io per fare questa cernita?
Invece vi parlerò del Dio con cui sto. E’
chiaro che c’è un rapporto tra il Dio in cui si crede e il Dio con cui si sta.
Ma non sempre coincidono. Se si crede in un Dio che sulla croce apre le braccia
a tutti e poi in nome di Dio si mettono sul rogo gli eretici, è chiaro che non
si tratta dello stesso Dio. Il boia sta con un altro Dio.
La storia è piena delle macerie provocate dal
contrasto tra la fede creduta e le opere compiute in suo nome. Tutta la storia
del popolo di Israele nell’Antico Testamento è attraversata da questa tragedia.
Il Dio dei profeti non è il Dio nel cui nome le città cananee erano votate allo
sterminio.
E oggi il dramma storico è tale e così tragico
l’abuso per cui Dio viene innalzato sulle picche degli assassini, con la testa
dei decapitati in suo nome, che la salvezza non viene se ci mettiamo a
discutere sulle nostre diverse professioni
di fede, ma se il Dio con cui
decidiamo di stare non è il Dio della morte ma il Dio della vita, non è il Dio
che fa uccidere gli infedeli ma è il Dio nel quale non c’è il nemico.
Il male più grande viene da chi sta con un Dio
sbagliato, che corrisponda o no al Dio in cui dice di credere.
Ma c’è anche il problema di chi segue come se
fosse un Dio qualcuno o qualcosa che sa benissimo non essere un Dio.
Quelli ad esempio che stanno col Dio denaro
sanno benissimo che quello non è un Dio, ma un idolo; però ci stanno lo stesso,
perché se non fosse un idolo non potrebbero offrirgli sacrifici umani, come fanno
gli Stati che chiudono le porte dell’Europa provocando l’eccidio di migliaia di
profughi o come hanno fatto i potentati europei, a cominciare dal nostro
governo. dandogli la Grecia in sacrificio
Sono questi i motivi per cui preferisco parlare
del Dio con cui sto.
Credere e
amare
Del resto il credere non è la prima fase del
rapporto con Dio. La prima fase è l’incontro. Nei Vangeli la gente seguiva Gesù
senza sapere che fosse il Figlio di Dio. E a me sembra che la questione
prioritaria oggi sia quella del Dio che decidiamo di amare. Questo mi pare il
vero problema interreligioso ed ecumenico. E questa mi pare che sia la scelta
che papa Francesco sta proponendo al mondo: prima credere o prima amare?
La sua risposta è che prima bisogna amare.
Perché questo è quello che fa Dio, ci ama prima ancora di preoccuparsi se noi
abbiamo fede in lui. Papa Francesco sempre dice che Dio ci precede nell’amore.
Per questo Dio è misericordia. Francesco dice che Dio ci precede nell’amore, e
lo dice prendendo in prestito dallo spagnolo, e dallo slang di Buenos Aires,
una parola che significa arrivare per primo, amare per primo, magari anche
picchiare per primo: la parola è primerear
. “Il Signore ci primerea, sempre
è primo, ci sta aspettando. Come la fioritura del mandorlo di cui parla
Geremia, perché è il primo a fiorire, così è il Signore”.
Questo però non lo dice solo papa Francesco, lo
dice tutta la tradizione. Ancora non ero formato nel ventre di mia madre, dice
Geremia, e tu già mi conoscevi (Ger.1,5);
il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha
pronunciato il mio nome, dice Isaia (Is.49,1).
Con l’avvento del Verbo incarnato, cioè con il cristianesimo, questa realtà di
Dio che ama per primo diventa una rivelazione pubblica e universale, che non
riguarda solo un individuo, un profeta, un salmista, o un popolo, ma vale per
tutta l’umanità e tutti i popoli. Dio ci ha amati per primo, dice la prima
lettera di Giovanni; e Paolo ai Romani dice che Dio ci ha amato, fino a morire
con Cristo sulla croce, quando noi eravamo ancora peccatori, e quando ancora
non credevamo in lui. Dio ci primerea
nell’amore, prima ancora della nostra fede; è anzi dall’amore che nasce la
fede, e non viceversa; prima ancora che crediamo in lui, lui sta con noi.
Dopodiché la fede con cui crediamo in lui può essere più o meno adeguata, più o
meno atta a rappresentarlo e a conoscerlo, più o meno ortodossa, ma intanto lui
sta con noi e noi stiamo con lui, e l’amore sta prima. Dunque la sequela sta
prima della fede, lo stare con Dio viene prima del credere in Dio.
Dunque veniamo al tema: il Dio con cui sto.
Un Dio
sacrificale
Il Dio con cui stavo da bambino era un Dio
sacrificale. Non so da dove era venuto. Avevo avuto una sommaria formazione
religiosa da buona famiglia borghese, quando a otto anni ebbi il dolore della
morte di mio padre. Non so perché sulla pagina bianca del mio diario di quel
giorno, il 3 giugno 1939, io disegnai una croce molto scura e scrissi una sola
parola: sacrificio. Perché a otto anni interpretassi la morte di mio padre come
un sacrificio non lo so. Subito dopo arrivò la guerra e per la piccola famiglia
superstite, una vedova e tre bambini, fu dura la lotta per sopravvivere. Io
vissi quella fine di infanzia come una vita di responsabilità precoce e di
sacrificio; i primi rudimenti della fede che mi furono offerti in quel tempo andavano
in quella direzione. Essi mi giunsero anzitutto dal cardinale Massimo Massimi che,
come facevano a Roma molti cardinali che al lavoro di curia univano un servizio
pastorale, aveva riunito molti giovani per bene in una Congregazione
eucaristica e, come diceva lui, “arcimariana”. Era il prefetto della Segnatura
apostolica, un grande giurista, ma umilissimo; era un cardinale molto
conservatore ma antifascista, ci faceva il catechismo e ci faceva confessare dal
famoso gesuita padre Riccardo Lombardi, che divenne poi “il microfono di Dio”.
Secondo la spiritualità del tempo Dio era tutto, e noi non eravamo niente, la
vita cristiana era un’espiazione, nell’insegnamento che quel santo cardinale ci
impartiva “La nostra legge” era anche più importante de “La nostra fede” - i
due libri che aveva scritto per noi - e andava da sé che il mondo non potesse
essere amato, perché il mondo si manifestava in quegli anni di guerra a Roma
con il suo volto peggiore: c’erano i bombardamenti alleati e c’erano le retate
tedesche, che ci minacciavano perfino in piazza San Silvestro, dove andavamo
per la messa la domenica nella chiesa di San Claudio; c’erano la povertà e la
fame, i lavori precari che mia madre ed io riuscivamo a fare per vivere, la
minestra che si andava a prendere a turno e la borsa nera in cui un po’ si
comprava e un po’si vendeva. Dio stava lì fermo e osservava la nostra buona
condotta. E quando mi fecero fare il disegno di un rifugio durante i
bombardamenti, io che non sapevo disegnare, feci le pareti del rifugio
squadrate col righello, e vi ricalcai sopra uno sproporzionato santino di un
Sacro Cuore di Gesù trafitto.
Finita la guerra padre Lombardi andò a predicare sulle
piazze e i rapporti con il cardinale Massimi si diradarono un po’, sia perché
non potevamo più incontrarci nella villa moresca che aveva in viale Parioli, da
cui lo avevano sfrattato perché cominciava la speculazione edilizia, sia perché
io andai alla FUCI, che a lui non piaceva perché era troppo progressista e
moderna e c’era promiscuità tra ragazzi e ragazze.
Anche
alla FUCI la percezione sacrificale e repressiva della fede continuò, anzi si
fece più circostanziata e consapevole, perché veniva veicolata dalla liturgia,
a cui fummo introdotti, e di cui comprendevamo le parole perché sapevamo il
latino; ogni giorno sia nella liturgia eucaristica sia nella liturgia delle
ore, ci veniva incontro un Dio che giustamente ci puniva; a Compieta ogni sera,
prima di coricarci, lo invocavamo perché ci difendesse dal diavolo che come un
leone ruggente ci assediava per divorarci e in ogni caso per rovinare le nostre
notti, e c’era un Dio a cui nelle collette della Messa di san Pio V offrivamo
le nostre sofferenze mentre proclamavamo che “giustamente” eravamo “afflitti a
causa del nostro operare, a causa dei nostri eccessi”, e che ci meritavamo
tutti quei dolori, perché grande era la nostra colpa, e solo Dio poteva
salvarci; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù,
perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il
mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le
prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti.
Il
richiamo a un atteggiamento ascetico e di severità morale era poi accentuato,
nel passaggio dalla congregazione del cardinale Massimi alla FUCI, da quella
che non a caso il cardinale considerava con sospetto, cioè la promiscuità tra
ragazzi e ragazze, che era una meraviglia ma anche una tentazione. Nessuno ci
aveva detto, come ha detto papa Francesco ai ragazzi in piazza Vittorio il 21
giugno scorso a Torino, che la castità consiste nel non usare l’altra o l’altro
per il proprio piacere. E nessuno ci aveva proposto la castità in punta di
piedi, chiedendo perdono, sapendo di dire una cosa impopolare, di chiedere una
cosa non facile, perché “tutti nella vita siamo passati per momenti in cui
questa virtù è molto difficile”. Se queste parole di papa Francesco avessero
potuto essere ascoltate allora, il fantasma di un Dio severo, moralista, che ci
metteva addosso la paura del sesso, non avrebbe turbato i nostri rapporti
giovanili e forse non ci avrebbe infelicitato la vita prima e dopo il
matrimonio, e forse la vita intera sarebbe stata più feconda anche di figli.
Insomma prendendo tutti insieme - il cardinale
Massimi, la congregazione eucaristica di San Claudio, la FUCI, ma si potrebbe
dire anche la GIAC di Arturo Paoli o il cattolicesimo militante e insieme
ascetico di Dossetti, ossia il migliore cattolicesimo che si viveva in Italia
prima del Concilio - si potrebbe dire che esso stava con un Dio che toglieva
l’aria. E questo vuol dire che senza un vento nuovo non poteva che deperire.
Quello che personalmente mi salvò fu lo spirito
critico che contestualmente la FUCI mi insegnò, ma anche il fatto che essa mi
gettò nel mondo. Essere gettati nel mondo per noi allora voleva dire il
confronto aspro con il cattolicesimo sanfedista di Gedda e dei Comitati civici,
voleva dire il confronto politico nel mondo universitario in cui si facevano le
prime prove di democrazia, voleva dire l’elaborazione di alternative culturali più
aperte che sviluppavamo sul giornale della FUCI, “Ricerca”, di cui ero il redattore.
Per reggere il confronto con il mondo bisognava stare
con un Dio diverso, un Dio non dolorifico, un Dio non pentito delle sue
creature, non geloso della bellezza, dell’amore, un Dio non invidioso della
libertà dei suoi figli, un Dio amante della vita.
I varchi per
un Dio diverso
C’erano dei varchi attraverso cui irrompeva questo
Dio. Uno di questi varchi fu per me l’incontro con il monachesimo camaldolese,
e in particolare col più grande monaco del XX secolo, padre Benedetto Calati,
dal quale ero andato casualmente a
san Gregorio al Celio per farmi benedire, manco a dirlo, una croce di
maiolica che avevo comprato con la mia fidanzata Cettina.
Il Dio di padre Benedetto era un Dio di una dolcezza
infinita, che alla confessione prima ancora che io potessi formulare un
peccato, già mi perdonava, sicché ben presto in quelle confessioni, dei peccati
non ci si ricordò più, e si parlava solo di san Gregorio Magno che apriva ai nuovi popoli, e ai poveri di Roma
faceva distribuire “cibi già cotti, frumento e vino” e anche “salse e balsami”
( “pigmenta et alia delicatoria commercia”),
si parlava dei Padri della Chiesa che interpretavano tutta la storia come
storia della salvezza, si parlava della Scrittura che cresce con chi la legge,
e di Dio che, per dire la cosa più bella di lui, padre Benedetto diceva che “(Dio)
è un bacio”.
Poi un giorno a Bologna, dove mi trovavo per un
congresso della FUCI, che noi del Centro nazionale avevamo preparato con l’idea
che fosse molto rivoluzionario, sentii in cattedrale un’omelia dell’arcivescovo
cardinale Lercaro, e mi sembrò di non avere mai sentito parlare di Dio così.
Forse non era vero, forse era il mio modo di ascoltare che era cambiato. Ma
certamente lì c’erano parole in cui era evocato un Dio molto simile al Dio con
cui volevo stare e perciò alla rivelazione nuova di Dio che veniva dal basso,
dall’esperienza cioè della mia vita, si aggiunse una rivelazione nuova di Dio,
un modo nuovo di parlare di Dio che veniva dall’alto, dalla stessa gerarchia
della Chiesa, da un cardinale. E così quel giorno adottai il cardinale Lercaro
come mio vescovo, anche perché allora non c’era la minima idea che il papa a
Roma fosse anche il suo vescovo, e quindi io come fedele romano avevo in
qualche modo la casella libera. Decisi che il Dio del cardinale Lercaro, il Dio
della riforma liturgica, il Dio delle nuove chiese di periferia, il Dio dei
ragazzi poveri che vivevano e studiavano in casa con l’arcivescovo, era il Dio
con cui volevo stare. Il destino volle che poi il cardinale Lercaro diventasse
il mio vescovo davvero, perché fui chiamato a dirigere “L’Avvenire d’Italia”, il giornale che usciva a Bologna, e perciò a
Bologna ci andai a vivere, e fu lì che irruppe il Concilio.
Un nuovo
annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo
Il Concilio fu il vero nuovo annuncio di Dio per
l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo perché si pensò che
il Concilio non avesse valenza teologica, che avesse il suo unico scopo nella
riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale intesa come veicolo e
non come sostanza della fede. E invece era proprio una nuova comprensione e un
nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, che papa
Giovanni aveva chiesto al Concilio e che del Concilio doveva diventare il
tesoro più prezioso, l’aggiornamento più profondo e duraturo. Occorre
rovesciare il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Concilio: esso
è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Il Dio del Concilio è radicalmente un Dio non
sacrificale. Non è un Dio mortalmente offeso dal peccato originale per cui
debba essere soddisfatto e risarcito dal sacrificio del Figlio e dal sacrificio
anche nostro, non è un Dio a cui sia dovuta l’espiazione delle lacrime e sangue
degli uomini, non è un Dio che si è vendicato della disobbedienza di Eva e del
suo compagno comminando loro la morte, il lavoro come sudore e come pena, la
sessualità come concupiscenza e impurità, i parti con dolore, la terra che
invece di frutti produce cardi e spine. Espiazione, come ha spiegato Carlo
Molari su Rocca, non significa pagare
un prezzo, ma essere perdonati, ricevere la purificazione da Dio, e del resto
la parola placatio, di un Dio che
dovesse essere placato nella sua ira, che era una parola chiave della teologia
preconciliare, non compare mai nei testi del Concilio. Il Figlio di Dio non si
è incarnato per pagare un debito al Padre, come sosteneva la dottrina di s.
Anselmo (“Cur Deus homo?”) sempre
ripetuta dalla Chiesa, ma per spiegare agli uomini i segreti di Dio (D.V. n. 4), per togliere le maschere
antropomorfe e terribili che sfiguravano il volto di Dio, per non lasciare gli
uomini soli ma al contrario “senza interruzione alcuna” fornire loro gli aiuti
per la salvezza (D.V. n. 3), per
unirsi in qualche modo ad ogni uomo (G. S.
n. 22), per entrare in modo definitivo nella storia umana (Ad Gentes, n. 3), e rendere tutte le cose sacre, comuni. Paolo VI
avrà un bel dire che il Concilio non aveva abbandonato la dottrina del peccato
originale; in realtà la teoria anselmiana del Dio che risarcisce se stesso nel
Figlio e nei figli è del tutto rovesciata.
Il Dio del Concilio è un Dio che fa a pezzi l’idolo
che le religioni e le Chiese avevano costruito per onorarlo, che libera dai
fraintendimenti di cui era vittima il Dio che, come canterà padre Turoldo,
subiva “il carico di errate preghiere”, onde si credeva di rendergli onore.
Non è più il Dio che salva solo i suoi, per cui fuori
della Chiesa, della Chiesa visibile e gerarchica, non vi sarebbe salvezza. Non
è il Dio che diserta le altre Chiese cristiane. Non è il Dio cui non potranno
mai avere accesso, nella beatitudine eterna, i bambini morti senza battesimo:
questa dottrina, che si voleva fosse sancita dai Padri, non fu nemmeno presa in
considerazione dal Concilio, tanto che poi il Limbo fu abolito; il Dio del
Concilio non è un Dio che non ha lasciato tracce di sé e semi della sua Parola
nelle altre religioni, ma tutti gli uomini e le donne, “nel modo che lui
conosce”, ha associato al mistero pasquale, e fa sì che nel loro cuore lavori
invisibilmente la grazia (G.S. n.22).
Il Dio del Concilio non è un Dio invidioso dell’uomo,
che lo tiene per le briglie col ricatto di bollarlo come prometeico ed eretico
se prova ad essere adulto; e nemmeno è il Dio che ha abbandonato l’uomo a se
stesso mettendolo “in mano al suo proprio volere”, come si è fatto dire, con
cattive traduzioni bibliche, anche della CEI, a un versetto del Siracide, ma ha
messo l’uomo “in mano al suo consiglio”, come traduce la Gaudium et Spes, cioè lo ha fatto responsabile di se stesso e del
mondo, sicché basterebbero uomini
più saggi, dice il Concilio, per far fronte a una situazione in cui è in
pericolo il futuro del mondo. (G.S.
n.15, n.17).
Il Dio del Concilio è un Dio perciò fonte e garanzia
della libertà umana, un Dio che parla attraverso la coscienza (G. S. n. 16), un Dio che non agisce con
la costrizione e con la violenza ma che sceglie la via della povertà e della
abnegazione, un Dio che dopo avere creato l’amore non lo mette in ceppi per
farlo servire solo alla procreazione, ma lo fa traboccare in uomini e donne
perché serva alla loro comunione, alla loro tenerezza, alla loro fecondità e
alla loro gioia.
La fede
nicena
Questo Dio il Concilio non se lo è inventato, ma lo ha
recuperato da tutta la grande tradizione della Chiesa. Il Vaticano II ha
riproposto la cristologia dei primi quattro Concilii, e in particolare ha
riproposto la fede nicena, che in Cristo Gesù ha riconosciuto non “un Dio in
seconda”, fatto dal Padre, ma un vero Dio, coeterno col Padre, della stessa
essenza del Padre. Questo cardine della fede fu espresso dal Concilio di Nicea
nel 321 sotto la forma non di una definizione dogmatica, ma di una professione
di fede, ed è infatti giunto fino a noi in forma di preghiera, nella forma di
un Credo. C’è un bellissimo libro di Giuseppe Ruggieri, “Della fede”, in cui si
spiega che questo è stato il processo di formazione della fede nelle comunità
primitive, come racconto e come preghiera, e non come dogmatica e come
dottrina; ciò ha permesso il convivere di diversi racconti, come sono diversi i
Vangeli, tant’è che fino a Nicea non c’è traccia di una formula di fede unica
per tutte le comunità cristiane, che invece irrompe a Nicea, ma in forma di
preghiera, nella forma di un Credo. È solo con il Concilio di Calcedonia, nel V
secolo,che avviene uno slittamento strutturale, e si passa dalla fede alla
dottrina sulla fede, tant’è che mentre le prime parole del
niceno-costantinopolitano erano: “noi crediamo che”, le prime parole della
definizione di Calcedonia suonano: “noi insegniamo che”, e comincia una storia
di ortodossia dottrinale che è anche una storia di esclusione.
Ma indipendentemente dall’irrigidimento dogmatico la
professione di fede di Nicea, ripresa dal Concilio Vaticano II (“Colui dunque, per opera del quale aveva
creato anche l’universo, Dio lo costituì erede di tutte quante le cose, per restaurare tutto in lui”, dice
ad esempio il decreto Ad Gentes, n.
3), è decisiva per noi perché rende
universale la storia della salvezza e mostra come nel Cristo coeterno al Padre
tutti gli uomini abbiano avuto accesso alla salvezza anche prima che Gesù fosse
concepito e anche fuori del succedersi delle generazioni del popolo di Israele
(“Indubbiamente
lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, dice il decreto Ad Gentes n. 4) e che anche dopo il Gesù storico, la
salvezza di Dio in Cristo può traboccare in tutti gli uomini e in tutte le
culture anche fuori del filone giudeo-cristiano. Per questo si potrebbe dire
che il cristianesimo sia una religione post-biblica, che reca non solo l’unità
dei due Testamenti, ma l’unità di tutti i Testamenti. Noi spesso ci
dimentichiamo di essere niceni e ci rappresentiamo una storia della salvezza
secondo una linea di successione che dalla creazione giunge ad Abramo, a Mosè,
ai profeti e attraverso Gesù Cristo passa nel nuovo Israele che è la Chiesa. Ma
la fede di Nicea ci dice che, fin dall’inizio, Dio è stato il Dio di tutta
l’umanità e di tutta la Chiesa, non per successione o sostituzione del Dio di
Israele. Ed è per questo che cambia tutta la prospettiva del Concilio sia riguardo
all’ecumenismo sia riguardo alle religioni non cristiane, sia riguardo al
primato della coscienza e alla libertà religiosa, ma anche riguardo al rapporto
col mondo e con la storia, che fin dall’inizio giacciono in Cristo e non
giacciono nel Maligno.
Ed è questo, dice il Vaticano II, il Dio con cui
stare, il Dio che sta con noi fin dalla fondazione del mondo, non solo dal
momento dell’incarnazione di Cristo come secondo Adamo, ma fin dall’inizio,
perché fin dalla creazione del mondo Cristo è lì, il primo Adamo è lui.
Dopo il
Concilio
Lo splendore di questo Dio del Concilio si è però ben
presto appannato, non è stato questo il Dio che è stato predicato dopo il
Concilio, ed è proprio per questo che i cinquant’anni che sono seguiti sono
stati anni di deserto. E molti, anche tra i cattolici più aperti, hanno finito
per disamorarsi del Concilio, per esserne delusi, e infine abbandonarlo.
Io sono rimasto col Concilio, e mano a mano che più lo
scoprivo, più mi rallegravo del fatto che proprio quel Dio che il Concilio
aveva ritrovato e messo a fermentare nei suoi documenti era il Dio con cui
volevo stare.
E’ stato così che tutte le cose che io ho fatto dopo
il Concilio mi sono riuscite facili, perfettamente serene e pacificanti dalla
parte di Dio, tanto quanto erano dure, controverse, conflittive dalla parte
degli uomini.
Così è stato per la lotta per il NO nel referendum sul
divorzio, e non con l’argomento profano della separazione tra Chiesa e Stato,
ma con l’argomento cristiano della misericordia (che fu la motivazione del No,
dopo una notte di preghiera, di Fratel Carlo Carretto), perché non può lo Stato
per far contenta la Chiesa infliggere una vita di inferno ai suoi cittadini.
Così è stato per la scelta di rompere l’unità politica
dei cattolici e dare legittimità politica ai comunisti, perché non c’era nessun
Dio degli eserciti a disporre e a dividere le truppe nella battaglia, e andava
recuperata la compatibilità ma anche la reciproca libertà tra fede e politica.
Così è stato per la prima legge che mi sono trovato a
dover fare in Parlamento, la legge sull’aborto, che siamo riusciti a fare non
come una legge che cambia un reato in diritto, come voleva la cultura radicale
di Adele Faccio e della Bonino, ma come una legge che cura le ferite e allevia
il dolore sociale, e come tale è riuscita a sopravvivere fino ad oggi.
E così è stato, naturalmente nelle battaglie contro i
missili a Comiso, per i palestinesi, contro i regimi militari cattolici
dell’America Latina, contro la guerra del Golfo, contro la guerra della
Jugoslavia, per la difesa della Costituzione, fino alla battaglia in corso per
impedire che governanti e parlamentari corrotti dal potere distruggano
Costituzione, rappresentanza, scuola e diritti del lavoro e portino l’Italia
fuori dalla democrazia e la Grecia fuori dall’Europa.
In tutte queste circostanze, il Dio con cui sto
mantiene una sua presenza discreta e fedele. Non è il Dio dei tormenti di
coscienza e delle ascensioni mistiche ma piuttosto il compagno di stanza con
cui ci si confida e ti incoraggia.
Il Dio con cui sto può anche essere il Dio che non
dice niente, che non si fa sentire; esperienza questa che non è solo dei
cristiani comuni, ma anche dei mistici: racconta Leonardo Boff che un giorno
trovò Arturo Paoli in chiesa, e gli domandò: “Fratello Arturo, tu senti Dio
quando, dopo il lavoro, vieni a pregare qui in chiesa? Lui ti dice qualcosa?” E
Arturo gli rispose: “Non sento niente. Molto tempo fa ho sentito la sua voce. È
stato affascinante. Riempiva i miei giorni di musica e luce. Oggi non sento più
niente. Soffro di tenebre. Forse Dio non vuole più parlarmi”.
Perciò io non sono d’accordo con certi linguaggi che
per rendere più razionale il discorso su Dio non lo chiamano per nome ma lo
descrivono con un’astrazione, come “forza vitale”, come “forza creativa”, come
“offerta di vita”, come “fonte di energia” e simili. A me un Dio indistinto,
liquido, pura astrazione del pensiero, non interessa, preferisco l’ateismo; il
Dio con cui sto è un Dio che sia un Tu e un Dio tale per cui io sia un tu per
lui, e noi siamo le sue immagini, i suoi figli, i suoi “califfi”. Un Dio capace
di amore. In questo senso un Dio persona. Perché se è vero, come ha detto papa
Francesco ai Movimenti Popolari in Bolivia il 9 luglio scorso, che ”non si
amano né i concetti né le idee, si amano le persone”, è anche vero che solo se
si è persona si ama; perciò Dio è persona.
Il Dio di
papa Francesco
Ed ecco che questo Dio si è aperto l’ultimo varco, e
anche questo dall’alto, nella predicazione di papa Francesco.
Riprendendo quello che era stato il munus più proprio e meno compreso del
Concilio, papa Francesco ha offerto alla Chiesa e al mondo, un nuovo annuncio
di Dio,”in quella forma che la nostra età esige”. E la nostra età – ma io credo
ogni età – ha bisogno di un Dio come Gesù lo ha rivelato, come il Vangelo lo ha
custodito, come la Chiesa degli apostoli e dei discepoli l’ha tramandato fin
qui, e come papa Francesco lo racconta: un Dio di misericordia, che ama per
primo, che non si stanca mai di perdonare, Padre universale, che non ammette né
esclusione, né scarti, un Dio non violento, libero e umano, guardiano non della
legge ma della vita, un Dio iconoclasta.
Si è fatta un’obiezione a questo Dio della
misericordia: la misericordia va bene, ma dov’è il giudizio? Un Dio che non
giudica, dice il senso comune, sarebbe un Dio dimezzato, non sarebbe un vero
Dio.
C’è una cosa molto giusta che dice un libro recente
del biblista Gerhard Lohfink, “Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu”. È un
libro che non mi persuade perché fa di Gesù talmente un personaggio ebreo, e
del Vangelo talmente una glossa della Legge e dei Profeti, che non si capisce
che bisogno c’era che Dio rimettesse tutto in gioco con l’Incarnazione. Però ha
ragione Lohfink quando dice che nel nostro annuncio del Dio del Vangelo, spesso
censuriamo il Dio del giudizio, mentre il tema del giudizio era parte
essenziale del discorso sul Regno fatto da Gesù.
Questa critica però non si può fare nei confronti del
Dio della misericordia di cui parla Francesco; il giudizio sul mondo di papa
Francesco è durissimo, e si può dire che senza questo giudizio non ci sarebbe
nemmeno l’annuncio della misericordia. Basta pensare alla sua denuncia
sull’economia che uccide, alla condanna di un sistema che non ha volto e scopi
veramente umani, alla critica del denaro che governa, della cultura dello
scarto, della globalizzazione dell’indifferenza.
Però nell’annuncio cristiano di papa Francesco non c’è
la minaccia del giudizio di Dio, ma c’è la constatazione evangelica che il
mondo è già giudicato, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, che è il mondo
stesso che è giudice contro se stesso, e che se dal giudizio non passerà alla
conversione sarà perduto.
La distruzione della natura che stiamo operando è il
paradigma esemplare di questo. La crisi ecologica è il giudizio sul nostro
operato nel mondo, la fine siamo noi a procurarla, l’enciclica Laudato sì lo ha reso manifesto.
Quello che l’Europa ha fatto alla Grecia è il giudizio
di condanna che l’Europa ha pronunciato su se stessa.
Il fecondo Mezzogiorno d’Italia che non fa più figli,
col tasso di natalità più basso degli ultimi 150 anni, è il giudizio che
condanna l’ “inequità” delle
politiche economiche.
Una generazione di giovani perduta e senza lavoro è il
giudizio pronunziato sull’abbandono di qualsiasi idea di bene comune come
ragione e fine della politica.
Il governo vanesio e fascistizzante di Renzi è il
giudizio che punisce il lungo tradimento della Costituzione con cui, a partire
dal 1989, la classe politica italiana ha risposto alla caduta del muro di
Berlino.
Lo Stato d’Israele con le sue violenze è il giudizio che
grida contro la deformazione idolatrica della fede biblica.
Lo Stato islamico, la tragedia del Medio Oriente, i
232 milioni di migranti internazionali sono il giudizio su un mondo che non
vuole conoscere ciò che giova alla sua pace.
Il mondo è già giudicato, ma la misericordia lo può
salvare, il chirografo che ci era avverso è stato inchiodato sulla croce.
Questo è il messaggio di papa Francesco. E dice
Scalfari: questo è un papa profetico. Ed io aggiungo: non solo profetico ma
messianico, perché il suo annunzio, in quanto annunzio messianico, è che il
regno di Dio, cioè il regno di misericordia, è vicino.
Ma neanche ora col Concilio Vaticano II, con papa
Francesco, il processo di comprensione del Dio con cui stare è concluso. Ci
sono delle cose che Pietro non capì di Gesù che lavava i piedi nell’ultima cena
e Gesù gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai. Il monaco camaldolese
Innocenzo Gargano in vista del Sinodo dei vescovi ha proposto una nuova
interpretazione del detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio, nel
senso che Gesù non parlava da giurista e, pur proponendo un ideale più alto,
“scritto nelle stelle”, non avrebbe abrogato la legge di Mosè che facendosi
carico della durezza di cuore dei coniugi aveva concesso il divorzio. Un
cattolico zelante ha sbeffeggiato padre Innocenzo, perché dopo duemila anni
proponeva una lettura nuova del Vangelo, come se fino ad ora si fosse sbagliato
a capirlo. Eppure proprio questa è la dinamica dello Spirito nella storia della
fede: quello che finora non avete capito ecco ora lo comprendete.
Ed è in questo spazio tra il già e il non ancora di
ciò che abbiamo capito di Dio che c’è tutta l’eccedenza del Dio con cui stiamo rispetto
al Dio in cui crediamo, perché il Dio che sta con noi è sempre al di là di
qualsiasi cosa noi possiamo pensare e credere di lui.
Raniero
La Valle
Assisi, 21 agosto 2015
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