di Raniero La Valle
Terra, casa,
lavoro, il “minimo assoluto” che deve essere assicurato a tutti: questa è
l’esigenza fondamentale che il papa è andato a piantare il 25 settembre scorso
nel cuore dell’assemblea delle Nazioni Unite. Che il mondo, che le Nazioni si
misurino su questo, che a ciò si rivolgano diritto, politica ed economia, ha
invocato papa Francesco.
Ma questa
richiesta non è venuta prima di tutto da lui. Era stata già prima formulata dai
poveri che avevano scelto terra casa e lavoro come parole d’ordine per
l’incontro mondiale dei movimenti popolari che si era tenuto in Vaticano nell’ottobre
2014 nell’aula del Vecchio Sinodo. Papa Francesco li aveva invitati per
mostrare alla Chiesa e ai popoli “un grande segno”, e cioè che “i poveri non
solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano contro di essa”, e per incoraggiarli a
continuare questa lotta: “Avete i piedi nel fango e le mani nella carne.
Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra
voce che in generale si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il
vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi
esigete”. E offrendo la sua voce come
eco alla loro, Francesco aveva fatto sue quelle parole d’ordine, ciò che non
voleva dire che “il papa è comunista”, perché “l’amore per i poveri è al centro
del Vangelo”
Terra casa e
lavoro diventavano così parole del papa perché, diceva, “quello per cui lottate
sono diritti sacri”.
Il grido degli esclusi
Ma, come accade
per quelle dei poveri, neanche le parole del papa furono allora ascoltate:
meglio ignorarle che dover discutere se il papa fosse comunista. E allora
Francesco ci tornò in un secondo incontro con i movimenti popolari, questa
volta a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il 9 luglio scorso, e disse loro:
“La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io
desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa, lavoro
(in spagnolo: tierra, techo, trabajo) per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo
ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che
il grido degli esclusi si oda in America Latina, e in tutta la terra”. E
aggiunse che c’era poco tempo, perché “sembra che il tempo stia per finire”
quando non solo ci combattiamo tra noi, ma siamo giunti ad accanirci contro la
nostra casa.
Nemmeno
quella volta papa Francesco fu ascoltato. I poveri non sono ascoltati. “Che
cosa posso fare io, si chiedeva allora il papa mettendosi al loro posto,
“raccoglitore di cartone, frugatrice tra le cose, raccattatore,
riciclatrice?”. Chi mi ascolta? “Che cosa posso fare – continuava il papa - io artigiano,
venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i
diritti dei lavoratori?. Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che
appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa
posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla
mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa
può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario
che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna
soluzione ai suoi problemi?” E il papa stesso rispondeva: “Potete fare molto.
Potete fare molto! Oserei dire
che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani,
nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca
quotidiana delle “tre t”; d’accordo? - lavoro, casa, terra –“.
D’accordo.
Ma se è in gioco il futuro dell’umanità, bisogna porre il problema là dove il
futuro dell’umanità si decide, bisogna che il grido soffocato nelle periferie
echeggi sul tetto del mondo lì dove, almeno in prospettiva, risiede il potere
della comunità organizzata delle Nazioni, bisogna andare ad alzare questo grido
all’ONU.
E
alla fine il papa è arrivato a New York, portandosi dietro questo grido, come
attraverso un lungo pellegrinaggio, come per un suo personale anno santo della
misericordia, dalle periferie del mondo fino al centro dell’ordinamento
internazionale, dal basso della vita reale all’alto della rappresentanza
politica. E in questa salita il grido si è arricchito, si è rivestito di nuovi
contenuti e nel discorso all’ONU si è volto a una più grande lotta per tutto
ciò che è umano.
La
terra, ad esempio, come è stata evocata a New York, non vuol dire solo la zolla coltivata dal
contadino. Nel diritto alla terra è significato il diritto non solo a quel
mezzo di produzione, ma a tutti i mezzi di produzione, anche immateriali, come
i saperi, che sono necessari al lavoro umano e che consentono agli “uomini e
donne concreti” di sottrarsi alla povertà, di “essere degni attori del loro
stesso destino”, ciò che “suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per
le bambine (escluse in alcuni luoghi) –“.
E
non solo il diritto alla terra, anche i diritti alla casa e al lavoro si sono
arricchiti nel discorso alle Nazioni di nuovi significati, perché questo
“minimo assoluto” a tutti dovuto, oltre ai suoi tre nomi a livello materiale,
ha anche “un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la
libertà religiosa e gli altri diritti civili”.
Un’altra antropologia
Ma
la terra vuol dire
immediatamente per il papa anche la “casa comune”, l’ambiente
fisico della nostra esistenza, che dobbiamo preservare e migliorare sia contro
“l’irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale” e contro gli eccessi di
una tecnologia fuori controllo, sia contro l’esclusione e l’inequità, che porta
i più poveri ad essere “scartati dalla società” e nel medesimo tempo li obbliga
a “vivere di scarti”; essi sono i più vulnerabili nel “soffrire ingiustamente
le conseguenze dell’abuso dell’ambiente”. E qui papa Francesco ha ripreso al
Palazzo di Vetro tutta la linea della “Laudato sì”, per la quale la crisi
ecologica è una crisi globalmente umana, essendo indisgiungibili l’uomo e
l’ambiente, ambedue fatti di terra, per così dire “connaturali”, per cui
“qualsiasi danno all’ambiente è un danno all’umanità”. Questa è la ragione per
cui si può parlare di un nuovo diritto, finora inedito, che è in capo ad ogni
donna e uomo di questo pianeta, che è, dice il papa, “il diritto all’esistenza
della stessa natura umana”.
E
qui è venuta in evidenza una nuova concezione antropologica, capace di uno sguardo
perfino più lungo rispetto alle visioni evolutive della scienza moderna.
L’uomo, riconosciuto come “porzione dell’ambiente”, ha tuttavia “una
singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (come dice la “Laudato sì” al n. 81);
ma c’è anche la singolarità di ogni altra creatura “perché ciascuna creatura,
specialmente gli esseri viventi, ha un valore in se stessa, di esistenza, di
vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature”. L’enciclica
“Laudato sì” dice addirittura al n. 80 che in natura vi sono delle ”potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle
cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo” e citando San Tommaso dice che
“le cose stesse si muovono verso un determinato fine. Come se il maestro
costruttore di navi potesse concedere al legno di muoversi da sé per prendere
la forma della nave»; tutto ciò, ha detto il papa all’ONU mettendo in campo la
sua fede, “ proviene da una decisione d’amore del Creatore”.
Nessuna divisione a causa o in nome di
Dio
Dalla terra al cielo: è stata questa la traiettoria
religiosa del messaggio di Francesco all’ONU. E in questo messaggio è sembrato
che giungesse alla sua pienezza il compito che Francesco ha assegnato al suo
pontificato, di annunziare Dio agli uomini d’oggi in modo nuovo: di
“reinvestigare” come voleva il Concilio, ed “enunziare” la fede in Dio nel modo
che i nostri tempi richiedono. Il Dio che papa Francesco così ha finito per
mostrare, è un Dio interpretabile solo come misericordia, alternativo ad ogni
violenza e dottrina di violenza, un Dio nel cui nome e in ragione del quale
nessuno può sentirsi diviso dagli altri; un Dio, come aveva egli stesso detto
al Congresso americano, che non ammette nessuna forma di fondamentalismo, né
religioso, né ideologico, né economico, un Dio che non mette più nessuno contro
nessuno, né creature, né culture né fedi.
Con un Dio così, un Dio che non divide, papa Francesco ha
potuto presentarsi a Washington e all’ONU non come chi pretendesse
rappresentare una totalità, ma come parte di un tutto, non come rappresentante di una Chiesa che
tutto abbraccia e comprende, ma di una Chiesa che è come la tessera di un
poliedro che convive nella differenza con tutte le altre, non come unica arca
di salvezza ma come la comunità cattolica che cammina insieme alle altre
comunità: “il papa della Santa Sede”, come lo ha presentato, commosso, lo
speaker del Congresso. Ciò gli ha
permesso di riconoscere la totalità umana in quella sede laica dei popoli, e di
riconoscere nella politica mondiale il luogo “imprescindibile” attraverso cui
passa oggi l’alternativa se l’umanità possa sopravvivere. La posta infatti è
altissima: già in questi settant’anni da quando è stata fondata l’ONU, ha detto
il papa, “l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incondizionato
delle sue stesse potenzialità”, e questo può ancora accadere.
Sovranità del
diritto e limitazione del potere
Sicché ogni parte deve concorrere al bene del tutto. E
proprio parlando come parte, e a nome di una parte – i figli degli emigrati, i
poveri, gli scartati, le vittime – il papa ha potuto ottenere un consenso
straordinario durante tutto il suo viaggio, e ha potuto proporre con autorità ciò
che è bene per tutti, dall’abolizione della pena di morte alla rinunzia al
commercio delle armi, dal no alla guerra al contrasto al narcotraffico,
dall’agenda per il clima alla liberazione dei Paesi poveri dall’usura di
sistemi creditizi e finanziari che invece di aiutarli nelle crisi li
asfissiano. Parlando poi a nome dei cristiani
e di altri gruppi culturali od etnici perseguitati dall’odio e dalla
pazzia degli estremisti religiosi del Medio Oriente, del Nord Africa e di altri
Paesi africani (l’allusione era al califfato islamico e a Boko Haram, però non
chiamati per nome per non associare l’Islam a una immagine oggi ignominiosa) il
papa “pur desiderando che non ci fosse la necessità di farlo”, ha indicato nella
comunità internazionale organizzata l’unico soggetto legittimato, ma anche
obbligato “in base alla più elementare comprensione della dignità umana”, a
intervenire per “fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le
minoranze etniche e religiose e per proteggere le popolazioni innocenti”. Non
devono invece ripetersi interventi unilaterali
di questa o quella potenza delle cui conseguenze negative “non mancano
gravi prove”.
Parlando a nome dei discepoli di Gesù, il vescovo di Roma
ha di nuovo riconosciuto l’ONU (come avviene a partire dall’enciclica “Pacem in
Terris” di Giovanni XXIII) come la risposta giuridica e politica adeguata al grave
momento storico che viviamo, e ne ha esaltato il compito che è quello di
sviluppare e promuovere “la sovranità del diritto”, sapendo che la giustizia è
indispensabile per realizzare la fraternità universale.
Che sia un papa a celebrare la sovranità del diritto, “il
dominio incontrastato del diritto”, significa davvero che un’epoca si è chiusa,
che il conflitto tra la Chiesa e la modernità è finito. Ma non si tratta di una
caduta dalla fede nella Provvidenza alla vanità del giuridicismo. Si tratta di riconoscere
e portare avanti ciò che la sapienza umana, molto spesso anche per impulso dei
cristiani, ha saputo elaborare e incardinare nelle Costituzioni moderne, da
quelle statuali a quella delle Nazioni Unite, e cioè, come ha detto il papa,
che “la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto.
Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa
che nessun individuo o gruppo
umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i
diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di
fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una
pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di
regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la
limitazione del potere”.
Ah, se lo sapessero i rottamatori che vantano “i numeri”
per poter fare qualsiasi cosa, e ritengono la Costituzione non più utile di
quanto non siano i gettoni telefonici per far funzionare i telefonini!
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