venerdì 8 settembre 2017

UN DIO CHE SORPRENDE



Ad Assisi il 25 agosto 2017

Cinque tesi una conclusione e una postilla più drammatica

Raniero La Valle

Quello che segue è il testo della relazione tenuta da Raniero La Valle il 25 agosto 2017 ad Assisi nel quadro del Convegno sul tema: “Come dare futuro alla svolta profetica di Francesco”
 
1. La novità di papa Francesco

Il Dio che sorprende è il Dio annunciato da papa Francesco. Ancora mercoledì scorso nella sua catechesi il papa ha parlato del Dio che crea novità, perché è il Dio delle sorprese. Certo non è questo il solo Dio in circolazione. C’è il Dio predicato per inerzia da tutta la Chiesa, il Dio predicato nella Chiesa italiana. Ma non è un Dio che sorprende, non suscita meraviglia, è il Dio che giace nel catechismo, che da tempo non sveglia più nessuno.
Poi c’è lo stereotipo del Dio demiurgo, todopoderoso, depositato nella cultura comune, condiviso sia da chi lo afferma, sia da chi lo nega, sia da chi lo ignora.
Il Dio che irrompe nella Chiesa di Francesco è diverso. In un mondo piagato ed esposto alle peggiori sorprese, nessuno pensava che ci potesse essere una sorpresa da parte di Dio. O almeno non lo si pensava più, da quando era stato messo a tacere il Concilio. Per questo la Chiesa era diventata così tetra e la fede se ne stava andando come l’acqua dall’invaso di una sorgente inaridita.
Ma ecco che da quattro anni è comparso un Dio che sorprende. Per il mondo è stato un bagliore improvviso, una straordinaria novità, per gli archeologi del sacro è stata invece una sorpresa ingrata, un incidente imprevisto, uno strappo ai regolamenti. Perciò i più papisti del papa sono diventati, proprio loro, antipapisti.
Questo spiega la solitudine istituzionale di papa Francesco e l’astio con cui è combattuto, ed è per questo, perché vorremmo stare al suo fianco, che ci siamo qui riuniti ad Assisi.

2. Non è la prima volta di un Dio che sorprende

Non è la prima volta che Dio ci sorprende, che c’è l’impatto con un Dio quale prima non era stato  pensato. Dunque anzitutto dobbiamo fare uno sforzo di memoria, per non dimenticare che c’è una storia dietro di noi.

Dunque, in principio c’è Dio che sorprende l’Adam nell’atto stesso di crearlo, mettendogli accanto la donna, dopo che lui l’aveva sognata, come dice Francesco, e ambedue facendoli a sua immagine, ossia dando loro il dono della libertà, la responsabilità della scelta tra il bene ed il male.
Poi c’è Dio che sorprende Noè, salvandolo coi figli e tutti gli animali, dal più piccolo al più grande, ma salvando anche la terra che mai più, in forza della sua alleanza, come promette, sarà devastata dal diluvio, cioè non sarà distrutta, ma sulla quale all’uomo sarà chiesto conto del sangue dell’uomo.  
Poi c’è Dio che sorprende Abramo promettendogli un figlio ed un popolo; ma poi salva la sua stessa promessa, facendo a pezzi l’ideologia sacrificale di Abramo e togliendogli dalle mani il figlio già preparato per essere offerto in olocausto sul monte Moira.
Poi c’è Dio che sorprende Mosè facendogli portare il popolo col piede asciutto fuori dall’Egitto e camminando con lui per quarant’anni nel deserto; certo la pasqua è stata una bella sorpresa, che non a caso si ricorda nei secoli.  
Poi c’è Dio che sorprende Giona pentendosi del male che gli aveva fatto annunziare a Ninive, e con un colpo di scena smentisce la sua profezia salvando la grande città straniera con i suoi 120.000 abitanti e una grande quantità di animali.
Poi c’è Gesù che sorprende tutti nella sinagoga di Nazaret, quando smonta la profezia di Isaia; infatti conferma la profezia della misericordia e della grazia, ma tace e abbandona la profezia del giorno di vendetta di Dio che sarebbe dovuto venire ad allietare gli afflitti di Sion. E gli ebrei nazareni ne sono talmente sorpresi e sdegnati che già allora volevano farlo morire.
Poi c’è Gesù che sorprende la Samaritana al pozzo di Giacobbe, facendosi riconoscere come Messia e dicendole che viene un tempo, ed è questo, in cui non si adorerà nei santuari o a Gerusalemme, ma adorerete il Padre in spirito e verità.
E poi c’è Dio che si rivela alla Chiesa primitiva, che nell’inno della lettera ai Filippesi canta la più incredibile delle sorprese, che Cristo Gesù pur essendo nella forma di Dio non ha tenuto per sé come una rapina l’essere come Dio, ma ha spogliato se stesso prendendo la condizione di schiavo e facendosi riconoscere come uomo, fino alla morte e alla morte di croce.
Perciò questo è un Dio che ci fa passare di sorpresa in sorpresa; e a ben vedere a ognuna di queste sorprese corrisponde l’inizio di una fase nuova della storia della salvezza. Cambia Dio e cambia il mondo, Dio appare nella storia come mai era apparso o era stato compreso prima, e cambia la storia degli uomini.

  1. Il Dio inedito
Come può accadere questo, se Dio è sempre lo stesso e in lui non c’è ombra di variazione (Giac. 1, 17)? Accade perché è inesauribile la conoscenza di Dio, e c’è sempre un Dio inedito, che attende di essere pubblicato. Ci sono sempre nuove edizioni dell’unico Dio, e man mano che il Dio inedito diventa edito gli uomini progrediscono nel faccia a faccia con lui. Di edizione in edizione, non è Dio che cambia ma, come diceva papa Giovanni del Vangelo, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Dio cresce al crescere della Parola che lo dice, ma in realtà quella che cresce, quella che muta, è la nostra percezione di Dio, la nostra capacità di accogliere la sua offerta di vita. Nuova è l’edizione in cui, da un tempo all’altro, egli viene conosciuto, rappresentato, annunciato e recepito nell’umanità e nella Chiesa. Ed è per questo che, non solo come metafora, si può parlare di un Dio che sorprende, di un nuovo annuncio o di una nuova scoperta di Dio. Del resto era proprio questo il compito assegnato da papa Giovanni al Concilio, che noi abbiamo interpretato invece come un Concilio di riforma della Chiesa; il compito era di investigare ed enunciare il tesoro della fede “in quel modo che i nostri tempi esigono” (ea ratione quam tempora postulant nostra); e questa è la ragione stessa del pontificato di Francesco.
Si può però obiettare (e per questo i dottori della legge e gli scribi sono oggi sul piede di guerra), che il ciclo delle edizioni è finito, perché c’è ormai stata l’edizione definitiva di Dio che è quella pubblicata da Gesù. E questo è verissimo, qui sta tutta la nostra fede; qui, dal prologo del vangelo di Giovanni in poi, sta tutto il cristianesimo, è il suo Figlio unico che ha fatto vedere il Padre, l’ha fatto conoscere, l’ha edito, ne ha “fatto l’esegesi”.
Però è vero quello che disse un grande giornalista, Mario Missiroli, che fu direttore del Messaggero e del Corriere della Sera, in una sentenza che è diventata di uso comune: “Non c’è niente di più inedito dell’edito”.
Così anche il Dio pubblicato da Gesù, ancora dopo duemila anni, è in gran parte inedito. E lo è fin da allora, tanto è vero che a conclusione dei Vangeli, Giovanni dice che se si mettessero per iscritto tutte le cose manifestate da Gesù, il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Se questo era vero all’inizio, lo è stato anche dopo; e anzi si deve dire che, finita la stagione fulgente dei primi quattro grandi Concili, la Chiesa è passata attraverso una tormentata ricezione del Dio di Gesù, dal Medio Evo fino al secondo millennio. E non solo per tutto ciò che di Dio era rimasto inedito, ma anche perché l’edito è stato via via gravato e ricoperto da glosse che non sempre hanno contribuito a rendere più intellegibile e fruibile l’originale. Perciò a un certo punto un cristianesimo appassionato invocò che non si aggiungessero glosse a glosse, ma si riprendesse in mano il testo edito al netto delle glosse, sine glossa, come diceva san Francesco. Ed è proprio da questo tornare al testo originale trasmesso da Gesù che l’inedito emerge, e che di nuovo irrompe nel mondo il Dio della sorpresa, il Dio che stupisce.
A mio parere questo è ciò che sta facendo papa Francesco, questa è la vera riforma e il carisma del suo pontificato; questa è la portata della sua scelta strategica di uscire dal palazzo e di vivere a Santa Marta per aprire ogni giorno il Vangelo, riportare alla luce il Dio che era stato oscurato, pubblicarne un’edizione non censurata dagli scribi, e trasmetterla a tutto il popolo.
Ma se è questo che sta accadendo, è legittimo leggere il tempo di svolta che stiamo vivendo come l’inizio di una nuova fase della storia della salvezza. Del resto lo dice anche il linguaggio secolare, che oggi siamo non tanto in un’epoca di cambiamenti, quanto piuttosto a un cambiamento d’epoca.
Però non si tratta solo di stare a guardare ma, come diceva padre Balducci, di “forzare l’aurora a nascere”, perché l’avvento di questo tempo nuovo è una questione di vita o di morte. Infatti il mondo così non può continuare. Basta vedere il cimitero del Mediterraneo ormai guardato a vista da navi e uomini armati, per capire a che punto siamo.
E ciò accade perché la profezia di padre Balducci non si è avverata, o non si è ancora avverata. La profezia - o la speranza - era che a prendere in mano questo passaggio d’epoca fosse un uomo nuovo, l’uomo planetario, un “uomo inedito”, come lo chiamava lo scolopio fiorentino.
Questa speranza non si è realizzata e anzi l’uomo già edito, che ben conosciamo, sta riprecipitando nell’oscurantismo, nella guerra, nelle forme discriminatorie e sopraffattrici del passato. Le ideologie sono finite o sono state uccise, ma la politica è morta e lo Spirito è in esilio.  

  1. L’edizione che i nostri tempi richiedono 
Perché non è apparso l’uomo inedito? Perché prima doveva manifestarsi il Dio inedito. L’uomo è ad immagine di Dio; non c’è uomo nuovo, non c’è uomo inedito se non c’è un Dio ulteriormente compreso, un Dio a cui nuovamente somigliare, un Dio che sorprende.
Ma di quale edizione di Dio abbiamo oggi bisogno? Ogni edizione di Dio corrisponde infatti a un’esigenza nuova, a una domanda pressante che erompe dal cuore dell’umanità ferita, in un dato momento della sua storia.
Per esempio, in questo cinquecentesimo anniversario della riforma, abbiamo potuto rivisitare le spinte che diedero origine all’iniziativa di Lutero. Ne abbiamo parlato anche in un colloquio con i protestanti nei giorni scorsi a Camaldoli. Ci siamo resi conto di come oggi le esigenze e i problemi siano talmente cambiati, che facciamo perfino fatica a capire il perché di quello scontro così duro sulla dottrina della giustificazione, scaturita da un’ossessione antipelagiana e da una lettura radicale di Agostino e di Paolo. Quell’edizione luterana di Dio rispondeva in effetti al tormento della cristianità del tempo che, una volta affermato che fuori della Chiesa non c’è salvezza, era angosciata dal problema di chi e come potesse salvarsi, con quali opere, ovvero grazie a quale capriccio di Dio. E anche la loro era una questione di vita o di morte, e anzi di una morte eterna.
Oggi la sensibilità è del tutto mutata, e come il papa emerito Benedetto XVI ha scritto di recente, la gente non pensa affatto ad essere giustificata da Dio, ma pensa piuttosto che sia Dio a doversi giustificare per tutto il male che permette sulla terra. Infatti la domanda di oggi non è quella a suo tempo formulata da Heidegger ma sbadatamente lasciata cadere, se solo un Dio ci possa salvare; la domanda dolente di oggi è se noi possiamo salvarci, quando non abbiamo risposte al gemito del mondo che noi stessi abbiamo sfigurato, quando non abbiamo né progetto né cuore per fermare la corsa al suicidio intrapresa dai capi dei popoli.
Ed è precisamente in questo buco nero esistenziale e politico che irrompe la sorpresa del Dio della misericordia. Non è che Dio sia diventato misericordioso oggi, ma è che troppe ombre ne coprivano il volto. Ed ecco che quel Dio per molti rimasto inedito, viene ora pubblicato, mentre si preferisce tenere negli scaffali il “Rex tremendae maiestatis” cantato nel “Dies irae”, si cerca di mettere in sordina il Dio della vendetta invocato da Isaia, si oscura il Giudice inappellabile degli inferni danteschi e dei dannati della Sistina. E ciò perché, come ha scritto papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno della misericordia, “Misericordiae vultus”, un Dio che si fermasse alla giustizia non sarebbe neanche un Dio. Ovvero, rispetto a questo Dio noi siamo atei. Come rispose Ernst Bloch a Jurgen Moltmann che dopo una sua conferenza gli chiedeva perplesso: “Signor Bloch, lei è ateo, nevvero?” E Bloch rispose: sono ateo per amor di Dio.
Il Dio edito da papa Francesco è un Dio che “primerea”, che è sempre primo nell’amore, è un Dio che perdona sempre; è un Dio che si scambia con l’uomo (Paolo) nel portarne il peccato e la croce; è un Dio che non sceglie tra eletti e non eletti, ma elegge tutti oltre ogni religione e cultura, non se ne sta dietro la porta del santuario vigilata dall’ostiario, ma esce per essere incontrato in spirito e verità, non è il Dio della casistica, ma della verità, non dell’equazione di una pesata uguale, ma del dono senza commercio, non il Dio della guerra – che, dice Francesco,  non esiste – ma il Dio della pace, un Dio nonviolento, un Dio che non sta con la città sfavillante ma col barbone che muore in via Ottaviano, non sta nelle motovedette che agguantano la preda, ma nei barconi che affondano e nelle navi delle ONG che, contro le regole, corrono a salvarli.  

5. E’ il Dio annunciato da Francesco, ma non è il Dio di Francesco

Noi diciamo che questo è il Dio sorprendente predicato da Francesco. Ma non è il Dio di Francesco, è il Dio dell’edizione straordinaria del Novecento. Questa lettura di Dio è cresciuta nel tempo insieme alla fede del popolo di Dio, e ha fatto irruzione dopo la grande tragedia dei totalitarismi, della guerra mondiale, della Shoà, della bomba atomica. Lo stesso papa Francesco non potrebbe oggi pubblicarla se questa nuova edizione di Dio non fosse stata preparata in una Chiesa passata attraverso la grande tribolazione della modernità, dell’apostasia delle masse, e dell’ansia per la sua agonia, espressa nella lettera del cardinale Suhard tradotta per l’Italia dalla Corsia dei Servi e da mons. Montini. Questa nuova figura di Dio è poi venuta alla luce col Concilio Vaticano II, con cui papa Francesco fa corpo, così che il Concilio e il suo pontificato devono essere visti non come due eventi a distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro, ma come un unico evento. Il tragitto è dalla “Gaudet Mater Ecclesia” alla “Evangelii Gaudium”, dal “Lumen Christi, Lumen Gentium” alla “Misericordiae vultus”, e la data simbolo che li accomuna è l’8 dicembre, fine del Concilio e inizio dell’anno della misericordia.
Perciò il Dio inedito di papa Francesco non è un Dio estemporaneo, importato a San Pietro dalla fine del mondo, come in un viaggio a ritroso delle caravelle di Colombo. E Francesco non è un  papa eccentrico, apolide, è un papa romanissimo. Il Dio che annuncia è un Dio ben piantato nella tradizione, e passato attraverso tutti i vagli della Chiesa romana. Vale a dire che non manca di imprimatur questa nuova edizione di Dio.
Cominciamo dalla Pacem in terris. È lì che è stato “aggiornato” il magistero dei papi dell’Ottocento, che avevano opposto un’interdizione divina alla libertà politica e alla libertà di coscienza, definite come “un delirio”; è nell’enciclica di papa Giovanni che la libertà diventa la dignità stessa dell’uomo e non può essere coartata in nome della verità. Contro ogni censura richiesta al papa dai revisori, verità, libertà, giustizia e carità non sono messe nell’enciclica in scala gerarchica ma sullo stesso piano come maestre e guide per condurre gli uomini alla pace. Perciò Dio è il Dio della libertà, non è il Dio né di Costantino né di Teodosio né dei cosiddetti principi o partiti cristiani.
Poi è venuto il Concilio che come Gesù nella sinagoga di Nazaret ha taciuto di una vendetta di Dio per il peccato dell’uomo, non ha parlato di un uomo decaduto, privato dei doni divini e condannato al lavoro come pena e ai parti con dolore. Dio secondo il Concilio è il Dio dell’elezione, che non si pente di aver scelto tutti gli uomini come suoi figli, non li ha abbandonati dopo la caduta e non ha cacciato nessuno dal giardino. E nemmeno ha lasciato l’uomo in balia di se stesso, come diceva una cattiva traduzione del Siracide, ma l’ha “messo in mano al suo consiglio”, come dice la Gaudium et Spes al n. 17, facendo di quel passo biblico una traduzione migliore.
E poi c’è stata la svolta ecumenica del Concilio, per la quale le altre Chiese sono vere Chiese, i semi del Verbo sono sparsi dovunque, e “indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, come dice il decreto Ad Gentes, n. 4.
Poi c’è stato Albino Luciani, che è stato papa giusto il tempo per dire che Dio è padre ma anche madre, cioè figura di ogni relazione di vero amore tra gli uomini. Dio è un bacio, come diceva padre Benedetto Calati.
Poi c’è stato Benedetto XVI con la Commissione Teologica Internazionale che ha detto come anche i bambini morti senza battesimo si possono salvare. Così è finito il Limbo, e Dio non è più pensabile come quello che tiene a bagnomaria i bambini per tutta l’eternità perché non c’è stato nessuno che ha trovato l’acqua per battezzarli, come diceva san Tommaso, e solo così farli entrare nella Chiesa come per una porta. E se Dio ama ed accoglie i bambini non entrati nella Chiesa, è plausibile che lo faccia anche con gli adulti, sicché la Chiesa non è più rappresentabile come la casa di Raab fuori della quale si è votati allo sterminio.
Ancora Benedetto XVI ha riconosciuto una discontinuità della Chiesa nel suo rapporto con la modernità, ha abbandonato una lettura storica del mito del peccato originale, e poi da papa emerito ha riconosciuto l’evoluzione del dogma e ripudiato come “del tutto errata” la dottrina anselmiana della riparazione dovuta al Padre dal Figlio sulla croce, mentre sulla croce c’era il Padre non meno del Figlio; sicché il teologo ex papa ha licenziato col suo fondamento tutta l’impalcatura dell’ideologia sacrificale che ha incrudelito per secoli il cristianesimo della misericordia.
Infine c’è stata la Commissione Teologica Internazionale che ha argomentato la più grande sorpresa, quella del Dio nonviolento; essa, con la firma del cardinale Muller, ha spiegato come anche nella Bibbia ci siano dei fraintendimenti di Dio, sicché una lettura fondamentalista della Bibbia è un suicidio del pensiero, e nell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa ha riconosciuto il tratto di una svolta epocale, la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza ed una reale opportunità di ripensamento dell’idea stessa di religione.
Ed è tutto questo che è confluito nel Dio inedito annunciato da Francesco, il cui magistero ha perciò un altissimo contenuto dottrinale; ed è molto strano che la portata dottrinale della riforma avviata da papa Francesco, che è ben presente a quanti accusano il papa di eresia, non sia invece riconosciuta e compresa da molti che di papa Francesco si dicono fautori.

  1. Come dare un futuro alla svolta profetica di Francesco
 Che fare ora per dare un futuro alla svolta profetica di Francesco?
Mi fermo solo a tre proposte concrete.
I. Mentre l’ex papa Benedetto ammette che nel catechismo della Chiesa cattolica ci sono cose ormai superate, come l’errata dottrina della riparazione, don Carlo Molari ha scritto, nel suo contributo a questo convegno, che il catechismo dovrebbe essere cambiato per farlo corrispondere alla nuova prospettiva evolutiva.
Dunque c’è nella Chiesa di oggi un grande problema che è il catechismo. Ma io non credo che la proposta debba essere quella di cambiarlo, è troppo pericoloso, penso piuttosto che è tempo di rimettere i catechismi negli scaffali, perché le ulteriori edizioni dei catechismi non potranno mai afferrare il vento che spira dalle successive edizioni di Dio. Dopo il Concilio noi con Dossetti e Alberigo da Bologna, raccogliendo voci di tutto il mondo, riuscimmo ad evitare che la Chiesa si desse una “Lex Ecclesiae Fundamentalis”, che sarebbe stata una specie di Costituzione ecclesiastica al posto del Vangelo. Però nessuno evitò che si pubblicasse un nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, e anche in questo caso si tratta di rimettere al suo posto il Vangelo.
II. La seconda cosa da fare a mio parere è di rimettere mano ai libri liturgici. Se la lex orandi è anche la lex credendi, oggi questo equilibrio va ricostruito, non solo perché ci sono delle letture e delle orazioni che non interpretate criticamente per il popolo nel momento stesso in cui sono proclamate, sono un suicidio della fede, ma anche perché va risignificato tutto l’impianto sacrificale ed espiatorio della liturgia e della vita.
III. La terza cosa da fare riguarda non solo il futuro della Chiesa ma il futuro dell’uomo, ma è una cosa così grande che non si può esaurire in poche parole. È la questione dei migranti e dell’unità umana.
La discussione è aperta. Non si tratta solo di rompere le regole per soccorrere i  migranti, ciò che per il cristiano non è solo l’esercizio di un diritto, ma è un dovere. Si tratta di cambiare le regole, e di affermare e sancire il diritto umano universale di migrare, di vivere nel luogo dove ciascuno possa non solo salvare la sua vita, la “nuda vita”,  ma meglio realizzare la propria umanità.
Nel giudicare l’interdizione che l’Europa, e ormai anche l’Italia, oppongono al popolo dei migranti, noi nel sito “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” abbiamo pronunciato la parola grave “genocidio”. La ragione è che quello dei migranti è un popolo, di molte nazioni, identificato dalla tragedia comune della fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla fame, dalla siccità, dallo sfruttamento coloniale, dalla miseria endemica vigilata dalla Banca mondiale. Fare in modo che essi non ci siano per noi, fermarli sulle zattere e sui barconi prima che arrivino, ostacolarne con le armi e con i “codici” ministeriali l’approdo, rimandarli in terre di prigionia che non sono la loro patria, inventarsi l’alibi di aiutarli a casa loro, cioè a restarsene a morire nei loro inferni, è un genocidio,
Il genocidio è  meglio condannarlo prima piuttosto che commemorarlo o negarlo dopo.
Se insieme al Dio di misericordia la misericordia rientra nel mondo, questo genocidio lo possiamo evitare; allora i popoli si mischieranno, e diverranno un’umanità sola: e perciò le riforme si dovranno fare, il denaro non potrà essere più solo al comando, il diritto riprenderà il suo primato  sull’economia e sul potere, e nulla sarà più come prima. Così il tempo nuovo può venire ed essere questo.

  Raniero La Valle – Assisi 25 agosto 2017

Postilla
FRANCESCO, OSTIUM O KATĖKON?

Se le cose stanno così, è legittimo dire che la svolta profetica del pontificato francescano può essere il varco che apre a una nuova fase della storia della salvezza, e perciò della storia del mondo; può essere quella porta attraverso cui si possa – tutti insieme, a cominciare dai poveri - entrare nell’epoca nuova; potremmo chiamarla, ricordando il Vangelo, la “porta delle pecore”, l’ostium ovium.
Però questo discorso può apparire troppo gratificante, e questa conclusione può essere criticata come troppo ottimistica e cadere sotto il monito rivolto ai profeti che raccontano i loro sogni (Ger. 23, 27), che profetizzano secondo i loro desideri, che dicono pace e la pace non c’è (Ez. 13, 10).
Certo mi separerei a fatica da questa interpretazione del pontificato di Francesco, che me lo fa apparire come un pontificato messianico, che annuncia un tempo nuovo, ed un tempo che è questo. È l’ipotesi che ho tenuto ferma, e che ha alimentato la mia speranza fin qui. Però anch’io ho paura che possa non essere vero, non oggi. Allora mi azzarderei a dire che ci possa essere una seconda interpretazione del pontificato di Francesco, anche se più drammatica. La seconda interpretazione è che esso rappresenti piuttosto una forza frenante, l’ultima difesa prima della catastrofe, l’evento a sorpresa che impedisce che la catastrofe avvenga. C‘è un passo messianico della seconda lettera ai Tessalonicesi, in cui Paolo dice che è in atto un “mistero dell’anomia”, che Gerolamo traduce in “misterium iniquitatis”. Ma Paolo parla proprio di mistero dell’anomia, che è insieme assenza di legge, distruzione, apostasia. Ebbene, questo mistero dell’anomia viene trattenuto da una forza che lo contrasta, che Paolo chiama katékon, “colui che trattiene”. È questa forza che fa da argine al mistero dell’anomia, e trattiene quello che Paolo chiama l’“anomos”: si tratta dell’uomo senza legge che pretende mettersi al posto di Dio, di un potere che si fa potere a se stesso, sciolto da ogni legge, “legibus solutus”, dunque il potere assoluto; qualcuno l’ha chiamato l’anticristo.  In una lettura fatta nel presente, questa figura dell’anomos, del “senza legge” potrebbe essere identificata nell’odierno potere globale, il potere che domina nel sistema della globalizzazione selvaggia; esso è senza legge, perché nessuna legge lo prevede, opera a un livello, quello internazionale, dove il diritto non obbliga se non i consenzienti e i patti sono stracciati uno dopo l’altro, dal protocollo di Kyoto al trattato antimissile, al patto per instaurare due Stati in Palestina, alle convenzioni sulla libertà dei mari e sul diritto dei profughi all’asilo; è un potere che governa abrogando le leggi, sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo al denaro e rendendo arbitra la guerra.
Ora, stando  a quel passo della lettera di Paolo, dovrebbe ergersi una forza che lo trattiene, che dovrebbe impedirgli di portare la storia al collasso, un katékon, appunto. Ma qual è questa forza? Secondo Tertulliano era l’Impero romano, che col diritto frenava le forze della distruzione. Secondo Karl Schmitt, si tratta di “una forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo” ciò che secondo lui era stato l’Impero cristiano, la cristianità costantiniana. Nessuno dei due aveva ragione, e oggi è la stessa Chiesa di Francesco che dichiara chiusa l’epoca della cristianità, e decide di uscirne. Invece potrebbe essere il pontificato di papa Francesco il vero punto di resistenza, la porta tagliafuoco che intercetta e trattiene le forze che obbediscono alla seduzione della fine. Prima che l’amore finisca, prima che la fede finisca, prima che venga meno la salvaguardia del creato, il mondo giocherebbe così ancora la sua carta fidando nella misericordia di Dio. Questo potrebbe essere il senso di questo pontificato.
Del resto se ne sono visti dei segni evidenti. Era papa da poco, e da Lampedusa Francesco tratteneva l’Italia e l’Europa dal lasciare libero corso alle stragi nel Mediterraneo e le metteva in guardia contro il genocidio incombente nei riguardi del popolo dei migranti. Era appena cominciato il pontificato, e con una inedita iniziativa di preghiera globale Francesco riusciva a fermare la corsa verso la guerra contro la Siria, che avrebbe portato all’estremo il disastro già compiuto in Medio Oriente. Infine rifiutandosi di riconoscere come riconducibile all’Islam l’estremismo terrorista, ha tolto fascine all’incendio e ha impedito che precipitassimo in una guerra di religione, che sarebbe stata la guerra della fine. In questo senso la Chiesa di Roma, in dialogo con le altre religioni e Chiese, si è posta come  forza frenante rispetto alla catastrofe annunciata, come un katékon simile a quello menzionato da Paolo. E nell’esercitare questa azione frenante, papa Francesco ha fatto  intravvedere le linee della terra nuova, che possiamo oggi prefigurare ma in cui ancora non possiamo entrare.
Perciò il pontificato di Francesco, pur restando messianico per questo sguardo lanciato sul tempo nuovo, potrebbe leggersi come katekonico, o agonico, per la lotta ingaggiata contro le forze della distruzione, per salvare il futuro storico dell’umanità amata da Dio.
Se questo è vero, e se san Paolo ha ragione, tutto ciò spiega l’accanimento con cui papa Francesco è combattuto. Perché il katékon deve essere tolto di mezzo dalle forze di distruzione, che intendono compiere la loro opera fino alla fine. Allora la riforma della Chiesa non è solo per una Chiesa in uscita; inaspettatamente la Chiesa cattolica diventa il katékon che, come diceva Carl Schmitt, “trattiene la fine del mondo”.
Ma se questa è la parte che tocca alla Chiesa romana, essa non va subita come un fato, come un destino, ma deve esplicitamente essere presa in carico da una cristianità consapevole. Se il ruolo storico è di fermare la fine, allora questo deve essere assunto come un compito. In questo caso, noi che facciamo?

Raniero La Valle

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