Mentre tutta l’attenzione dei media e nostra è trattenuta
da scenari apparentemente più determinanti per noi – la Nuova Zelanda del
terrorismo razzista, l’Inghilterra della Brexit, la Cina della “via della seta”
– uno sguardo assai distratto viene rivolto a quanto sta accadendo in America
Latina e alla stessa minaccia di un intervento militare americano in Venezuela,
come se lì si stesse svolgendo solo qualche psicodramma da Repubblica delle
banane. Invece si tratta di uno dei punti focali in cui la globalizzazione si
sta risolvendo in tragedia, e il demone della restaurazione sta rigettando la
storia e i popoli nella notte oscura da cui sono appena usciti. Il Brasile, in
cui decine di milioni di poveri erano stati restituiti alla vita, è tornato ad
essere un Paese che fa la fame, con 27 milioni di disoccupati, 30 milioni di
persone rimaste senza medici dopo la cacciata di diecimila medici cubani e 63.500
morti violente in un solo anno; l’Amazzonia, messi fuori gioco gli Indigeni,
apre lo scrigno delle sue ricchezze vitali alla dilapidazione privata; in
Argentina si respira di nuovo l’acre odore della dittatura; il Venezuela,
stremato dalle sanzioni statunitensi che funzionari dell’ONU hanno definito
come “crimini contro l’umanità”, è oggetto di un colpo di Stato diretto dall’esterno
e paga il prezzo dei trilioni di dollari di petrolio di cui il grande vicino
del Nord si vuole appropriare; in Messico il muro che Trump vuole a tutti i
costi costruire più alto della torre di Babele è un simbolo eloquente del
Grande Progetto classista di un mondo di eletti e scartati, di liberi e
prigionieri o, per dirla all’antica, di padroni e servi; e quanto agli Stati
Uniti, minacciati dalle strettoie anche culturali del loro capitalismo interno
e dall’aggressività di quello cinese, tornano alla loro primaria e proverbiale
opzione, di tenere intanto ben fermo il dominio sull’America Latina come sul
loro “cortile di casa”, il loro patio
trasero.
La cosa ci riguarda per molteplici motivi. In primo luogo
perché tutto ormai riguarda tutti. Ma in modo speciale perché l’America Latina
è stato il grande laboratorio di un cristianesimo della liberazione dopo il
Concilio, di là sono poi tornate indietro le caravelle di Colombo portando sulla
cattedra petrina il primo papa che si chiama Francesco, e perché un ruolo
particolarmente reazionario in questo momento vi stanno esercitando delle
frazioni di un cristianesimo ottuso e integrista, intriso e arricchito di
ingerenze straniere, al punto che un monaco appena giunto da lì ha parlato
della situazione politica del Paese, dopo l’incarcerazione di Lula e l’elezione
di Bolsonaro, come di una dittatura di chiese pentecostali. Secondo Frei Betto,
un protagonista della teologia della liberazione, queste esprimono “uno
spiritualismo disincarnato e lontano dalla realtà concreta” e occupano il 33
per cento di tutta la programmazione televisiva. Le analisi più preoccupate
descrivono lo stato odierno dell’America Latina come quello di un genocidio dei
poveri e di un geocidio della Madre Terra; né questo riguarda purtroppo solo
l’America Latina, come del resto ormai
hanno capito perfino i ragazzini. E dunque è evidente che non lo si può
affrontare solo con gli attrezzi della politica, ma ci vogliono quelli
dell’economia, della cultura, del diritto, della religione e della fede. Una
conversione non di una sola di queste cose, ma di tutte.
Di conversione parla Enrico Peyretti dopo la strage di
Christchurch: il rimedio è “unire le
differenze nella pari dignità”. Una conversione è suggerita anche da Tomaso
Montanari in una pagina del suo ultimo libro “L’ora d’arte” in cui rivisita un
mosaico, di fattura bizantina, che sta in cima alla facciata del vecchio
ospedale dell’Ordine “della Trinità e degli schiavi” sul monte Celio a Roma,
accanto alla chiesa di san Tommaso in Formis. C’è un Cristo glorioso che libera
dalle catene uno schiavo bianco e uno nero, perfettamente uguali, in perfetto
equilibrio, come se fossero dello stesso peso, sorretti come sono dalle braccia
del Cristo aperte come i bracci di una bilancia. Per quel Dio trinitario “quelle
vite hanno lo stesso valore”, bianchi e neri, uomini e donne di ogni lingua e
colore e nazione sono eguali, e tutti devono essere liberi, riscattati dalle
loro schiavitù. Quando, anni fa, nel pieno della lotta per la liberazione
dall’apartheid in Sudafrica, il vescovo anglicano Desmond Tutu trovandosi a
Roma fu accompagnato da don Matteo Zuppi, ora
arcivescovo di Bologna, a vedere il mosaico, cadde in ginocchio sulla
strada e pianse a lungo. Lì, su quel muro romano, aveva visto ciò per cui
combatteva, non solo un’opera di misericordia, ma di giustizia. Aveva visto la
rappresentazione di una grande promessa
messianica, oggi la più contrastata, l’unità e l’eguaglianza di tutta la famiglia
umana. Questa è anche la prima urgenza messa a tema della prossima assemblea
romana di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, che perciò ben potrebbe prendere
quel mosaico come suo emblema.
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