Non a tutte le donne è piaciuta l’apologia della donna fatta da papa Francesco nel
corso dell’Incontro “sulla protezione dei minori nella Chiesa” quando,
intervenendo di sorpresa, ha detto che ascoltando parlare una donna – la sottosegretaria del dicastero dei
laici e della famiglia - aveva sentito
la Chiesa parlare di se stessa, delle sue ferite, perché la donna è l’immagine della Chiesa, che
è donna, è sposa, è madre, e la Chiesa stessa va pensata con le categorie della
donna; infatti senza la donna, senza il genio femminile, essa sarebbe forse un
sindacato, non un popolo.
Il disappunto è che sia tornata
anche in queste parole l’idealizzazione “della” donna, che le donne hanno
molto sofferto, essendo poi
misconosciute come persone.
Ci ha scritto dopo la nostra
lettera del 26 febbraio in cui parlavamo di questo, la teologa Marinella
Perroni: “Sono del tutto d’accordo - come peraltro sempre - con le riflessioni
proposte. Mi permetto però una considerazione critica, anche se non ho grande
fiducia di poter essere, se non capita, almeno ascoltata. Il discorso che Papa
Francesco ha fatto a braccio dopo la relazione di Linda Ghisoni ha messo in
luce, al di là delle sue migliori intenzioni, quanto anche lui resti totalmente
prigioniero di luoghi comuni che, sia pure con retoriche diverse, da secoli
impediscono alla chiesa di includere le donne (si veda per esempio al riguardo
la nota di Antonio Autiero sul blog del “regno-delle-donne”). L’esaltazione è
sempre stata l’altra faccia dell’esclusione. Era un discorso impregnato di
paternalismo patriarcale e, quindi, totalmente in linea con quel clericalismo
che dice di voler sconfiggere. Finché non si ascolterà il pensiero che le donne
hanno elaborato negli ultimi due secoli, la cultura delle donne, le istanze
delle donne e si continuerà a parlare “sulla” donna, non sarà possibile
liberare la chiesa dal clericalismo, che è una delle più tristi manifestazioni
del sessismo. Un giorno, forse, gli uomini di chiesa, chierici o laici poco
importa, accetteranno non di parlarne ma di ascoltare e, forse, capiranno che
aveva ragione Carlo Maria Martini quando diceva che sono rimasti duecento anni
indietro”.
Così scrive la nostra teologa
(“nostra” per affetto e per stima). Ma anche su Facebook si è accesa una
discussione sulla nostra lettera, a prova di quanto la questione sia patita. Ha
scritto per esempio Franca Morigi: “Posso mostrarmi perplessa e un po’
perturbata dalla donna madre-moglie figura o specchio della Chiesa? Molto più
significative le espressione ‘principio femminile, pensare con le categorie di
una donna’ e “diritto di Antigone, del più umile, vincolato ai nutrimenti
terrestri, alla pietà’. Pietà contro Maestà” .
È stata anche citata una poesia
di Anonima: “Io sono quella che cantano
i poeti… io sono parlata ma non parlo sono scritta ma non scrivo, io sono
dipinta, ritratta, scolpita, il pennello e lo scalpello mi sono estranei.
Nessuno ascolta le mie grida silenziose…... Io sono quella che non ha linguaggio,
non ha volto, non esiste… la donna”.
Quanto al blog del “Regno delle donne” edito “in collaborazione con il Coordinamento delle
teologhe italiane”, citato da Marinella Perroni, esso si chiede se si può
ancora pensare “ al soggetto ecclesiale secondo una linea di distinzione tra
maschile e femminile”.
No, non si può, non si può più. Un’esclusione delle donne dai
ministeri nella Chiesa basata sulla sola differenza di genere non è più
concepibile a questo punto della cultura, dell’antropologia e della storia. Lo
è stato per secoli, fino ad ora, fino alla Lettera
apostolica di Giovanni Paolo II “sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi
soltanto agli uomini” che dava per decisa “in modo definitivo” la
questione (ma senza alcun crisma di
autorità infallibile) con l’argomento che così avrebbe stabilito Cristo stesso
“chiamando solo uomini come suoi apostoli”, e agendo “in un modo del tutto libero e
sovrano”, che era come dire senza che umanamente se ne possa rendere ragione,
cosa di per sé incompatibile con tutta la pedagogia di Gesù.
In realtà i teologi, per fare stare in piedi la dottrina,
hanno cercato di darne ragione, ognuno con la cultura del suo tempo (sempre,
peraltro, sfavorevole alle donne), fino all’argomento novecentesco che Gesù era maschio, il sacerdote è lui, e così
devono esserlo tutti gli altri. Ma prima di questo, essi hanno insegnato per secoli – come ci ha
ricordato Giovanni Cereti, l’animatore della “Fraternità degli anawim” - che le
donne non potevano essere ordinate preti “ratione
servitutis”, a causa della condizione di servitù. Ossia, non erano libere; e tre erano le
categorie escluse dal sacerdozio per questo motivo: gli schiavi, gli Indios e
le donne. La ragione era che non avevano il “dominium sui”, la proprietà
cioè di sé e delle proprie azioni, in cui propriamente, secondo gli scolastici,
consisteva la libertà. Oggi nessuno più dice che gli schiavi non possono
diventare preti, perché la schiavitù è felicemente (almeno in punto di diritto)
abolita; di preti e vescovi indigeni ce n’è quanti se ne vuole; ma solo per le
donne, e solo “perché donne” la discriminazione è rimasta; e se non sono
padrone di sé, vuol dire che sono di qualche altro padrone. Né se ne può uscire
con l’espediente del ripristino delle donne diacone, in funzione del prete, o a
compensare la mancanza di clero; la discussione sul diaconato femminile non è
che una strategia della distrazione che non può durare; il vero problema sono i
ministeri nella Chiesa, ivi compreso il sacerdozio alle donne, e non come
imitazione del maschio, ma come capacità originaria divinamente fondata.
Però ci sono due buone ragioni a difesa dell’esternazione del
papa, che fanno anche di quel suo breve intervento all’Incontro romano una
gemma.
La prima è che, anche a voler introdurre questa novità nella
Chiesa, la sua scelta è di cambiare la Chiesa non per decreto, ma con la
Parola; e la parola nella Chiesa è performativa, opera ciò che dice, se non
resta isolata ed è seminata nel fecondo terreno della collegialità.
La seconda è che il papa è un uomo, e le donne devono
rassegnarsi ad essere pensate non solo come esse pensano se stesse, ma come
sono pensate dagli uomini. Non,
naturalmente, da quelli che le uccidono e vogliono farle da padroni, ma da
quelli che le amano,ciò che non è un fatto di sentimento, ma un’antropologia.
E, almeno finora, nell’immaginario maschile “la donna” , anche quella più vincolata
alla terra, “ai nutrimenti terrestri”, ha una sua potenza, un suo fascino
ideale, come il divino, che è molto raccontato ma anche apofatico, che non si
può dire. Come ha detto papa Francesco parlando un giorno della Genesi, Adamo,
prima di vedere la donna, “l’ha sognata”, diversa da tutto il resto. Ciò non
dovrebbe essere peraltro solo a riguardo della donna, ma di tutti gli esseri
umani, perché in tutti gli esseri umani bisognerebbe saper vedere il divino, riconoscere
l’arcano che è in loro, capire cosa significa per tutti essere “figlio e figlia
di Dio”. Ma forse ciò riesce meglio agli uomini nel pensare le donne, come
dicono i miti e le culture che nella donna hanno intravisto il divino, da Venere
alla donna biblica destinata a schiacciare la testa del serpente, dalla bella
Sulammita del Cantico dei Cantici, il cui amore è “fiamma di Jahvé, alla
“Celeste Aida, forma divina” che cantiamo spensieratamente nei nostri teatri.
Altro che “ratione servitutis”! O è solo poesia?. C’è una potenza delle donne
che forse nemmeno il femminismo è riuscito finora del tutto a pensare. Ma certo
qui è la storia che si deve dipanare.
Intanto la politica si incupisce. Il Movimento Cinque Stelle ha mancato il
momento opportuno per aprire la crisi di governo, mettendosi in mano a Salvini
e così, consegnato il popolo, votandosi alla fine.
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