Ieri 23 gennaio si sono svolti
nel Duomo di Mestre i funerali di Maria Vingiani, storica promotrice del
cammino e del pensiero ecumenico in Italia, pioniera dell’incontro tra
cristiani di Chiese sorelle, tra cattolici ed ebrei e poi anche tra persone di
religioni diverse. Noi la ricordiamo quando, all'inizio del Concilio, da
Venezia insieme a don Germano Pattaro venne a Bologna all'Avvenire d'Italia
per proporre l'iniziativa, allora rivoluzionaria, di dare avvio ed
impulso all'impresa
dell'ecumenismo
in Italia, cosa che appunto avvenne col SAE.
Maria Vingiani è
venuta a mancare dopo una vita meravigliosa anche se sofferente, all'inizio
della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani , in un momento
difficile per l'ecumenismo, che sembra aver perso nella nostra Chiesa l’impeto
originario e si sta assestando in una sorta di normalizzazione in cui il vero
dialogo ristagna. C'è infatti una contraddizione, perché mentre da parte di
papa Francesco si moltiplicano scelte e gesti di grande forza anche simbolica
sulla via della comunione ecumenica ed interreligiosa (fino alla novità di
associare ai suoi viaggi apostolici i massimi esponenti di altre confessioni,
come farà nel prossimo viaggio in Sud Sudan con il primate anglicano Welby),
sul piano istituzionale il processo sembra in pausa e l’approdo appare lontano.
Ciò dipende anche dal fatto che mentre si cerca un’unità tra le confessioni,
queste si dividono al loro interno: nell’Ortodossia orientale si è aperto un
grave conflitto tra le Chiese associate al Patriarcato di Mosca e quelle legate
al Patriarcato di Costantinopoli, nella confessione anglicana ci si divide sui
ministeri e sull’episcopato femminile, nella stessa Chiesa cattolica si annida
una sorda opposizione al luminoso magistero di papa Francesco, nell’Islam ci si
divide sulle pulsioni settarie e violente, nell’ebraismo permane l’ostacolo
dell’irrisolto intreccio tra il messaggio universale e salvifico del popolo
della Torah e il sionismo politico dello Stato israeliano che non fa vivere i
palestinesi.
Può darsi che tutto ciò sia il segnale
che l’ecumenismo come è stato vissuto finora - e nella Chiesa cattolica a
partire dal Concilio Vaticano II - ha dato i suoi frutti e non può andare molto
più in là: il conseguimento dell’unità piena è storicamente fuori della sua
portata e la stessa intercomunione, non tanto a livello di fedeli (dove già si
pratica) ma a livello di Chiese, allo stato attuale della teologia e delle
culture religiose sembra molto lontana se non improbabile. Ma poiché
l’ecumenismo e il rapporto interreligioso sono certamente nel piano di Dio, di
un Dio riconosciuto non più geloso delle scelte dei suoi figli, forse è il caso
di pensare che siamo a un cambio di paradigma: continuerà senza dubbio a svolgersi
un ecumenismo a vari livelli, ma quello da far proprio fin d’ora, nella storia
e nella vita, non è tanto quello del mito dell’unità organica (secondo una
«suicida» interpretazione fondamentalista dell’evangelico «un solo ovile e un
solo pastore»), ma è quello dell’accoglienza reciproca e dell’«armonia delle
differenze» proclamate nel documento di Abu Dhabi di papa Francesco e dell’Imam
di Al-Azhar sulla «fratellanza umana»; forse i suoi figli Dio li vuole anche
anglicani con le donne vescovo, luterani con la Santa Cena e ortodossi senza il
primato giurisdizionale del vescovo di Roma.
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