venerdì 29 aprile 2022

 

Lo spettro della vittoria

 

Se non si riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di una guerra. Si tratta di un mito antico: la vittoria è il premio della guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del condottiero, schiaccia l’elmo del vinto;  non è concepibile se non la vittoria come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose, come è stata teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito.
Perfino Gesù, che amava i nemici, ammetteva che la guerra si fa per vincerla: “quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano gli manda dei messaggeri per chiedergli pace”.
Ma in realtà non è affatto vero che, una volta precipitati nella guerra, la cosa migliore è vincerla. Se oggi celebriamo la vittoria del 25 aprile, è perché avevamo perso la guerra, ed era stata una fortuna, con i Tedeschi in casa! Chi oggi rimpiange di non aver vinto quella guerra? Nemmeno i fascisti. Altri orrori si sarebbero aggiunti agli orrori. E non avremmo avuto la Costituzione, la libertà, l’industria, il denaro, tutte le cose di cui oggi ci gloriamo.
Eppure siamo sempre là. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin nella loro fuggevole visita a Kiev di qualche giorno fa hanno promesso all’Ucraina di Zelensky di farle vincere la guerra, che poi  vuol dire che a vincerla saranno gli Stati Uniti. La stessa cosa aveva promesso qualche giorno prima il presidente Biden in un “tweet” (che sono le nuove dichiarazioni di guerra che una volta si consegnavano agli ambasciatori) enumerando le armi e i soldi che gli Stati Uniti avrebbero fornito all’Ucraina, mentre Lloyd Austin ha aggiunto che bisogna fiaccare la Russia in modo che non possa fare più nessuna guerra. Più vittoria di questa!
Naturalmente anche Putin vuole vincere, tanto più ora quando gli hanno detto in tutti i modi che in gioco c’è non solo la sua sopravvivenza ma quella stessa della Russia; però non sa come fare, perché certo non basta, come ha chiesto al ministro della Difesa Shoigu, non far volare nemmeno una mosca sull’acciaieria Azovstal (che non sembra la metafora di una vittoria).
E vincere vuole soprattutto Zelensky, ben contento che ora le armi, come ha detto, gli arrivino “in tempo reale”, cioè subito e quante ne vuole.
Ma l’Ucraina ha già pagato un alto prezzo al mito della vittoria, questo spettro che viene dal regno dei morti, dagli Stati Uniti attraversa l’Atlantico, da Ramstein si aggira per l’Europa e minaccia il mondo dal mucchio di cadaveri su cui sale in Ucraina. Già una rovina era stata per l’Ucraina aver insistito con puntiglio a volere la NATO, nonostante ci fossero ben più di ventimila russi  a premere sulla frontiera del Paese (e chissà per quale inconfessato disegno incoraggiati da Biden ad entrarvi, come sostengono Caracciolo e “Limes”). Ma la catastrofe è venuta per l’Ucraina quando ha cominciato a credere che la guerra poteva vincerla  davvero con tutti gli incoraggiamenti  e l’altruismo sospetto dell’Occidente, con gli aiuti di ogni genere, politici, militari, economici, sacrali, con il suo straziato popolo narrato come esercito, sia pure con lo stereotipo delle donne che accudiscono e portano in salvo i bambini mentre gli uomini restano o sono mandati indietro a combattere, e oltre cinque milioni di profughi, e le città bombardate e distrutte, e la fama di invitti su tutti i teleschermi e in molti Parlamenti del mondo, compreso il nostro.
In realtà, a questo punto della storia, dopo tutti gli errori che da una parte e dall’altra sono stati fatti, la vittoria, di chiunque essa sia, è la peggiore sciagura che possa capitare. Come dice il papa: che vittoria c’è sulle macerie? E Noam Chomski, nell’intervista a Truthout che gli chiede se siamo all’inizio di una nuova era di continuo confronto tra la Russia e l’Occidente risponde che è difficile sapere dove cadranno le ceneri, “e questa potrebbe non essere una metafora”. Infatti, secondo Chomski, “che piaccia o no, le opzioni ora si riducono o a un brutto risultato che premia piuttosto che punire Putin per l’atto di aggressione, o alla forte possibilità di una guerra terminale”. E  questa, secondo Chomski,  sarebbe “una condanna a morte per la specie, senza vincitori: siamo a un punto di svolta nella storia dell’umanità. Non lo si può negare. Non lo si può ignorare”.
“Senza vincitori”: perché che cosa sarebbe una vittoria per gli Stati Uniti e la NATO e l’Europa, se davvero essa dovesse consistere nell’accendere la miccia della terza guerra mondiale, mettendo fuori gioco la Russia, provocando la Cina e prospettando all’umanità intera un mondo fatto del solo Occidente?
E che cosa sarebbe una vittoria per la Russia, che andasse al di là della rivendicazione iniziale di un’interdizione della minaccia proveniente dall’Ovest, se ciò volesse dire diventare l’anatema delle nazioni, essere votata alla negazione genocida del suo esserci stesso, che si tratti del rublo, del popolo o del Lago dei cigni?
E che cosa sarebbe una vittoria per l’Ucraina se anche recuperasse la Crimea, e il Donbass,  quando pur sempre rimarrebbe lì, a fare da antemurale dell’Occidente contro la Russia che, Putin o non Putin, certamente non sparirebbe e sarebbe pur sempre una grande Potenza ansiosa di rivincita, mentre l’Ucraina sarebbe ancora lì, gloria sì del mondo libero, ma sua prima vittima sul monte Moria? E l’Oscar all’attore protagonista!
In questa situazione è del tutto irresponsabile fare il tifo per la vittoria dell’uno o dell’altro, comunque questa vittoria la si voglia chiamare, difesa della Patria o dominio del mondo; ed è un’insensata complicità voler essere nel campo dei vincitori. Vera sapienza è la ricerca di un’alternativa alla vittoria per mettere fine alla guerra. Tale alternativa sta nel dialogo, nel negoziato, nel riconoscere ciascuno le ragioni dell’altro, nello “scambiarsi con l’altro”, nel sapere che la sicurezza dell’altro è la sicurezza anche propria, perché la sicurezza non consiste in uno “status”, ma in un rapporto, o è di tutti o non è di nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell’ONU.
Tra le macerie di questa guerra c’è l’illusione, o la speranza, che si potesse costruire un nuovo ordine mondiale, fondato non sulla potenza ma sul diritto, non sulla ragion di Stato, ma sulle ragioni dei popoli, non sulle guerre vinte, ma sulla guerra ripudiata. In ogni caso si può sempre ricominciare di nuovo. Come ha scritto in una sua poesia il politico Pietro Ingrao, “leva in alto la sconfitta”. Il vero germe della vocazione spirituale dell’Occidente, sia nella versione greca che in quella cristiana come ci ha  suggerito Simone Weil, non è la gloria dei vincitori, ma è il sentimento della miseria umana, che è una condizione della giustizia e dell’amore: in Grecia, sostiene la Weil, per il trauma non rimosso del crimine della distruzione di Troia (l’Iliade!), nella tradizione cristiana perché al patimento della miseria umana neppure uno spirito divino può sottrarsi se unito alla carne (i Vangeli!), ciò  che vuol dire non soggiacere al dominio della forza, il   rifiuto di tutti i rapporti di dominio. Come ha ricordato papa Francesco celebrando la “resistenza e resa” della Pasqua, “con Dio si può sempre tornare a vivere”.

Raniero La Valle

 

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