Raccontare
padre Benedetto a Camaldoli
Paternità, esodo e amore. Nell’itinerario
del camaldolese Benedetto Calati una singolare anticipazione del magistero
profetico di papa Francesco. La Chiesa come pedagogia, la Bibbia non come un
simulacro, la “benedetta differenza” nell’unità di maschile e femminile non
ridotta al rapporto di coppia
Raniero La Valle
Pubblichiamo
il “racconto” che a partire da due fonti inedite è stato fatto a Camaldoli su
padre Benedetto Calati il 2 novembre 2018 nell’ambito del colloquio “Abitare il
futuro”, ovvero “I robot a immagine di Dio”, promosso dal gruppo “Oggi la
parola”, e dedicato all’intelligenza artificiale e al “potenziamento”
dell’umano.
Sono
grato per l’invito a parlare stasera di padre Benedetto Calati, nell’ambito di
un colloquio che esplora il tema “Abitare il futuro”. Mi sono chiesto però che
ragione c’è di parlare di padre Benedetto proprio qui a Camaldoli, dove si sa
tutto di lui, se non altro perché ha passato 70 anni della sua vita in questi
monasteri ed è stato Superiore generale dei camaldolesi per 18 anni; dunque si
direbbe che almeno per i monaci non c’è niente di nuovo che si possa dire di
lui.
Per
quanto riguarda invece i partecipanti al Colloquio ci si può chiedere che cosa
c’entra padre Benedetto con un convegno in cui si parla del futuro, di quello
che sarà questo millennio, che si annuncia così diverso dai millenni precedenti
perfino nella concezione dell’umano, un
futuro che non sembra corrispondere a nessuna delle visioni profetiche e delle
promesse messianiche su cui padre Benedetto ha impostato tutta la vita, un
futuro che semmai sembra rientrare piuttosto nel genere della letteratura
apocalittica.
Per
poter svolgere con una certa tranquillità il mio intervento, devo perciò prima rispondere
a queste due domande.
Quanto
alla prima, vorrei dire che di padre Benedetto non è mai esaurito il discorso.
Ciò vale del resto per ciascuno di noi. Noi siamo un mistero anche per noi
stessi; come per Dio di cui siamo immagine c’è per ciascuno di noi un
apofatismo, un’impossibilità di descriverci e di definirci fino al più profondo
di noi stessi. Così anche per padre Benedetto; non se ne può archiviare
l’eredità come se fosse in se stessa conclusa, non c’è un lascito oggettivo
che, una volta ricevuto, si possa mettere negli scaffali dell’Antica Farmacia.
Vorrei dire che la Parola vivente che è stata la sua vita più la si legge, più
cresce con chi la legge, come lui diceva della Parola di Dio con la famosa
citazione di san Gregorio Magno.
Quanto
alla seconda domanda, riguardo al futuro, la risposta è che la vita di
padre Benedetto è stata vissuta come un
esodo, parlava del futuro. L’esodo vuol dire lasciare la condizione presente e andare verso un futuro
ignoto. L’esodo comporta che il futuro non lo si improvvisi, ma lo si
costruisca con enorme cura, senza fermarsi per paura, senza correre alla rovina
per azzardo. L’esodo è stato il luogo in cui padre Benedetto è sempre stato, il
suo “locus theologicus”. Si direbbe, data la sua condizione monastica, che il
suo luogo, la sua modalità di vita fosse la stabilità, e invece è stata
l’instabilità, il movimento, spesso impercettibile, ma continuo e
inarrestabile, fino alla fine della sua vita. Il suo non è stato un lungo
permanere, ma è stata un lungo andare, una vita in condizioni di esodo, vissuta
con una coscienza da esilio, come in attesa di un altrove.
Parlerò
di questo più avanti. Ma intanto vorrei anticipare che alla fine di questo
esodo di padre Benedetto egli non ha lasciato solo una memoria, ma ha aperto
due o tre squarci sul futuro che potrebbero propiziare risposte decisive sul
mondo e la Chiesa che stiamo costruendo, sul mondo e la Chiesa di domani.
Due fonti inedite
Infine,
ancora come premessa, se posso presumere che la narrazione che farò di padre
Benedetto non sia già tutta scontata, è perché la faccio a partire da due fonti
inedite, che perciò ancora nessuno conosce. Sono due fonti non della stessa
entità, come le due cannelle della fontana di Camaldoli, una debole e sottile,
l’altra rigogliosa e forte. La prima è la
mia personale esperienza di padre Benedetto; l’altra, quella maggiore, è una
lunga conversazione che don Benedetto ha avuto con don Innocenzo Gargano e
Filippo Gentiloni (che allora era informatore religioso del Manifesto), i quali lo interrogarono a
lungo a Camaldoli nel 1994, quando lui aveva 80 anni.
Di
questa conversazione io conservo da allora una trascrizione stenografica, molto
grezza, che ora mi propongo di pubblicare. È un testo prezioso in cui, con
sincerità e senza ombra di censura padre Benedetto, interrogato dai due amici,
ricostruisce tutto il suo itinerario e la sua vita.
Queste
due fonti poi sono in realtà una fonte sola, perché vengono dalla stessa
sorgente; anche in Concilio, partito con l’idea delle “due fonti”, si accorsero che di fonti della Rivelazione ce
n’è solamente una, che è la Parola di Dio che è all’opera in ogni persona e nel
mondo; e Benedetto è stato appunto parola vivente di Dio, e dunque la vera
fonte dei discorsi che si fanno di lui è questa.
In
ogni caso da queste fonti cercherò di enucleare alcuni temi che mi sembrano
centrali, con l’avvertenza che sono appunto solo alcuni temi, e non tutti quelli
che da queste due fonti si potrebbero attingere.
1
– IL TEMA DELLA PATERNITÀ
Il primo tema è quello
della paternità. Noi diciamo sempre “padre Benedetto, padre Benedetto” ma
“padre” suona come una qualifica che scivola via, come se facesse parte del
nome, don o padre fanno lo stesso; e invece padre è proprio il primo e globale
titolo con cui Benedetto può essere definito.
Personalmente io l’ho
subito percepito come padre, appena l’ho conosciuto, e lui stesso dice di me, nella conversazione
con don Innocenzo e Gentiloni rievocando i suoi anni romani: “Raniero era un
figlio per me”.
Quando, nei primi anni
50, poco più che ventenne, io ho conosciuto padre Benedetto che sedeva nel coro
di san Gregorio al Celio a Roma, il padre l’avevo perduto ormai fin da bambino,
e subito riconobbi Benedetto come il vero nuovo padre che la vita mi aveva dato
dopo la perdita del mio.
Ma se questa paternità
è stata l’esperienza più forte di ciò che Benedetto è stato per me, credo di
poter dire che è stata l’esperienza anche di moltissime altre persone, monaci e
non monaci, che in padre Benedetto hanno
avuto un padre, e non un “padre spirituale” come egli non ha mai voluto essere
per timore di invadere la sfera della coscienza altrui, ma un padre vero, che
nei figli e nelle figlie vedeva uomini e donne interi d’anima e di carne.
Ed era un padre
talmente buono che alla sua morte una delle sue discepole, Maria Cristina
Bartolomei, disse: se padre Benedetto era così buono, figuriamoci come deve
essere Dio.
Padre Benedetto era un
padre buono, perché perdonava sempre. Io per esempio l’avevo preso come
confessore, ma poi ho smesso di confessarmi da lui, perché mi diceva sempre che
avevo ragione. Ed era un padre buono, perché benediceva ogni amore. Per esempio l’amore tra
il biblista Giuseppe Barbaglio e Carla Busato, che aveva cominciato un suo percorso
alla Cittadella di Assisi, un amore
visto con ovvia contrarietà alla Cittadella, l’ha benedetto lui e poi l’ha
consacrato nel matrimonio, che è stato un bellissimo matrimonio.
2
– IL TEMA DELL’ESODO
Il
secondo tema, che parla non tanto di un’identità quanto di una condizione di
padre Benedetto, è il tema dell’esodo.
E
la prima cosa da dire, a questo proposito, è che la vita in esodo, cioè in
continua uscita, di padre Benedetto, corrisponde in modo sorprendente alla
Chiesa in uscita di papa Francesco. Io credo che Benedetto abbia anticipato in
molte cose questo momento magico che la Chiesa sta vivendo col pontificato di
papa Francesco. Benedetto ha vissuto in anticipo il messaggio radicale della
Chiesa in uscita di papa Francesco. e lo dico perché mentre ancora non sappiamo
come andrà a finire questa Chiesa in uscita di Francesco, così tormentata com’è
e in se stessa divisa, invece sappiamo com’è andata la vita in uscita di padre Benedetto, una vita
vissuta in perfetta pace, con una coscienza indivisa, e forse da come è stata
la vita in uscita di padre Benedetto possiamo immaginare e sperare che così
sarà ricomposta la Chiesa in uscita voluta da papa Francesco.
Ma
di che uscita si tratta? Uscire, d’accordo, ma da dove? L’uscita di padre
Benedetto è stata tutta un percorso dalla soggezione alla libertà.
Nell’esodo si parte da una terra per
raggiungerne un’altra, si esce da una condizione per guadagnarne un’altra. In
questo esodo di padre Benedetto e speriamo domani della Chiesa intera, c’è
un’uscita da una condizione di cattività, ossia di prigionia, di obbedienza, di
letteralismo legalistico o biblico, per l’approdo a una condizione di libertà.
Niente di strano, in ciò: si può dire che la libertà è il paradigma stesso del
Vangelo. Ma non è mica facile!
È
molto importante però per noi trovare la libertà alla fine del percorso di padre Benedetto e non al suo inizio.
Perché si fa presto a dire: don Benedetto era un uomo libero, era un maestro
della libertà di coscienza, si fa presto a dire che la libertà nello Spirito è
il suo lascito. Ma questa libertà che riconosciamo in lui non è un dato, è una
conquista, arriva attraverso un lunghissimo travaglio, attraverso aneliti e
paure, di esperienza in esperienza, di lettura in lettura e, trattandosi di
Benedetto discepolo di san Gregorio, vorrei dire di Padre in Padre, di
Scrittura in Scrittura. Attraverso questo itinerario padre Benedetto ha
perseguito la libertà. Attraverso questi passaggi delicati e difficili, il
cammino di padre Benedetto è stato un cammino ascendente attraverso quelle che
Dietrich Bonhoeffer ha chiamato, dal carcere di Tegel dove era rinchiuso,
“stazioni sulla via della libertà”. Per Bonhoeffer quelle stazioni erano:
disciplina, sofferenza, azione e infine la visione oltre la morte. Padre Benedetto
si è soffermato a lungo nella stazione della disciplina, ha resistito nella
stazione della sofferenza, ma quando è giunto alla stazione dell’azione davvero
si può dire, con Bonhoeffer, che abbia “fatto ed osato non il qualsiasi ma il
giusto e non sia rimasto ad ondeggiare nel possibile, ma abbia afferrato ardito
il reale”, sempre nella visione che certo oltrepassava la morte.
Possiamo
mettere dei nomi a queste stazioni sulla via della libertà, e ogni nome è un
capitolo di storia, della sua storia: la povertà di Pulsano, il suo paese
natale; la durezza dei monasteri e dell’eremo; la disciplina di vent’anni in
biblioteche mai prima frequentate, per la lettura autodidatta dei testi, e poi
Roma, san Gregorio, la scoperta della storia e del pensiero politico,
l’insegnamento universitario, il Concilio, le amicizie non convenzionali, e
infine la libertà da qualunque soggezione, anche monastica o religiosa, che non
fosse veicolo alla pedagogia della fede, all’immersione nella storia salvifica
in atto.
Ora
vediamo alcune di queste stazioni.
Il primo esodo
Cominciamo
dalla prima stazione. Il primo esodo Benedetto, che allora si chiamava Giggino
(con due g, non so perché) lo ha fatto da ragazzo dalla Chiesa del suo paese,
in cui si avvicendavano preti di grande valore ma anche preti a cui piacevano i
ragazzini. Il problema della pedofilia è esploso oggi nella Chiesa, quando finalmente
si è deciso di combatterla, ma c’era anche allora, e i ragazzi ne erano
traumatizzati. La prima uscita, spinta anche dalla povertà della sua famiglia,
è per Giggino a 12 anni verso il collegio dei carmelitani di Mesagne, in Puglia;
non è per lui un soddisfacente approccio alla religione e alla fede, ma lì il
giovane studente acquisisce un attrezzo che gli sarà decisivo per la vita:
impara il latino, grazie a cui sarà l’unico che a Camaldoli potrà leggere in
lingua originale i Padri latini. Il tarlo dell’uscire è però al lavoro già lì,
nel collegio di Mesagne, dove lui sente parlare della vita contemplativa e
dell’eremo di Camaldoli, e a 16 anni con un compagno fugge dal Sud, per
raggiungere in treno Roma e di lì Camaldoli.
Il secondo esodo
È il secondo esodo, simile a quello doloroso di tanti uomini del
Sud, simile a quello cantato nella poesia di un uomo del Sud come Salvatore
Quasimodo, che così scrive in una lettera alla madre: “Mater dulcissima,
finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte con il
mantello corto e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore, lo
uccideranno un giorno in qualche luogo”.
Anche per Benedetto fuggito
col mantello corto e un Dio sognato in tasca, approdato nelle foreste del Nord,
comincia la dura prova dell’estraneazione. Anche per lui, come scrive Quasimodo
alla madre, qui “gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve”, e si
accende la nostalgia; e così Benedetto racconta a Gentiloni e a don Innocenzo
l’esperienza di quel suo esodo, di quel suo primo arrivo a Camaldoli: “A
Camaldoli – dice Benedetto (siamo nel 1931, lui aveva sedici anni) – non c’era
un cenobio formato, c’era l’infermeria e basta. Tutti erano indirizzati
all’eremo. Appena arrivati alla farmacia ci diedero un bicchierino e una
caramella, e poi a piedi, in luglio, era una bella giornata, salimmo all’eremo.
Ci facevano passare per i sentieri più impervi. Madonna mia!... C’era un
entusiasmo infantile, ma anche il fatto che la comunità, al di là del rigore,
aveva un’umanità. Pur alzandoci di notte, mangiando in cella, c’era una vita
familiare buona. Questo fu quello che mi ha salvato a Camaldoli, la cella fu
pesante per me; appena arrivato, subito in cella. Quaranta giorni di
postulantato, prima del noviziato. Una vita molto dura. C’era la carta
geografica e misuravo la distanza Arezzo-Taranto, e dicevo: ma cos’ho fatto,
cos’ho fatto?”
Il terzo esodo
E qui comincia il terzo
esodo di padre Benedetto che durerà vent’anni, dal ‘31 al ‘51. A Camaldoli,
dopo il noviziato, conosce don Anselmo, che sarà poi Padre generale prima di
lui. Anselmo era entrato all’eremo a 15 anni ed era critico di quella vita
segregata, sterile, era convinto che la tradizione camaldolese fosse molto più
vitale e più ricca, poneva domande, studiava, e per questa ragione, perché non
si insuperbisse, fu allontanato dal monastero e mandato in Francia. Benedetto
trova un sodalizio con don Anselmo che, come dice nell’intervista che sto
citando, “mi ha aiutato a crescere nel senso critico”. E con don Anselmo scoprì
la trappola in cui la tradizione camaldolese, romualdina, fatta dei “tria bona”
- eremo, cenobio e missione - era
caduta, quando la Chiesa dei chierici aveva preteso di ridurla al solo modello
della vita eremitica. Come dice don Innocenzo Gargano la Chiesa del tempo
viveva nel clima della società gerarchica e totalitaria del fascismo, e vi si
uniformava eleggendo il modello eremitico, ereditato dalla spiritualità
medioevale, come una specie di assicurazione sulla vita del potere sacrale; la riserva
eremitica era come un’aristocrazia religiosa messa fuori della società e della
storia a rappresentare il vertice della gerarchia spirituale, in nome e
all’ombra della quale poi la Chiesa mondana poteva dominare la terra. La lotta
contro la mitizzazione della perfezione eremitica,a scapito del cenobio, cioè
della vita comunitaria, e della missione al popolo, attraverserà tutta la vita
di padre Benedetto che alla fine porterà a compimento la conversione anche
dell’eremo in cenobio e in comunità di fratelli.
Ma per far questo bisognava
riscoprire la tradizione camaldolese; è quello che lui fa: infatti, fresco d’arrivo,
si trincera in biblioteca, trova gli Annali camaldolesi, 9 volumi in folio, con
i documenti più antichi e tutti gli archivi camaldolesi dal secolo X fino al
1700; e trova i Padri greci e latini. Benedetto li può leggere direttamente in
latino e lì resta per 20 anni, leggendo qua e là, spinto da un autore
all’altro, da autodidatta col suo fiuto, e gli si apre un mondo da cui resta
affascinato. I Padri greci, ma poi soprattutto i Padri latini, san Gregorio,
Agostino, fino a Pier Damiani; e il patrimonio si arricchisce perché intanto
arriva la biblioteca di san Gregorio al Celio, che viene aggregato a Camaldoli
in quel tempo, e si aggiunge anche Fonte Avellana, e arrivano le collezioni dei
Padri raccolte dai Maurini, che erano i monaci della congregazione benedettina
di Saint Maure, in Francia.
Racconta Benedetto: “Ho
cominciato a leggere i volumi in folio che trovavo in biblioteca, quelli dei Maurini,
ottima raccolta all’eremo. Mi divertivo a queste pagine, andavo agli indici per materia dei
Maurini, che sono stupendi. Poi attraverso gli Acta Sanctorum andavo oltre,
iniziavo a trovare la mia soddisfazione, un lavoro molto autodidatta. E dagli Annali
sono andato alla storia, ho iniziato con manualetti come la storia di don
Bosco, con quello che trovavo lì; della Bibbia avevamo ancora quella del
Martini e niente altro, anche se questa la leggevo poco. C’era la liturgia
tutta in latino”.
La Bibbia padre Benedetto
la scopre a Fonte Avellana, dove è bibliotecario e maestro dei novizi; lì c’è
la Bibbia poliglotta, comincia a leggere l’ebraico. Però la Bibbia non la legge
tutta, alcuni libri, il Levitico, i Numeri, non li leggerà mai, almeno
interamente, come confessa ai suoi due interlocutori nel 1994. Però legge la
Bibbia nel modo in cui la leggevano i Padri, “ho fatto cioè una distinzione -
dice Benedetto – fiutavo tra Gesù Cristo e la Bibbia”. E questo è decisivo.
E dagli Annales sono
andato alla storia, dice padre Benedetto. Ma era la storia di ieri, non era la
storia di oggi. E per vent’anni niente giornali: mentre fuori c’era il
fascismo, la guerra, le leggi razziali.
Il quarto esodo
La
storia, quella vera, il rapporto col mondo, il mondo di oggi, la rivelazione
della politica, della vita reale degli uomini e delle donne del suo tempo
arriveranno nel 1951 quando Benedetto viene a Roma come Procuratore generale
dei camaldolesi e Superiore di san Gregorio al Celio, e comincia il suo quarto
esodo, una nuova stazione sulla via della libertà.
A
Roma, mentre insegna a sant’Anselmo, va a fare la catechesi alla vicina
parrocchia della Navicella e qui incontra il gruppo dei filosofi politici, i
cosiddetti cattolici comunisti, Felice Balbo, Giorgio Sebregondi, Fred Ostiani,
Baldo Scassellati. Nasce un’amicizia. Racconta Benedetto: “Io non mi sono mai
interessato del percorso politico, loro andavano per conto loro, insieme
facevamo un discorso di formazione morale. Io diedi la regola di san Benedetto
a Felice Balbo”. A un politico che era impegnato in un processo di rivoluzione
Benedetto che cosa fa? Gli dà la regola di san Benedetto. “Con loro – dice - mi
fermavo sulla lettura della Bibbia, che approfondivo sempre ulteriormente, sui
Padri che io insegnavo. Anche con un gruppo che abitava a Santa Prisca feci
incontri settimanali, leggevamo la Bibbia come la leggevano i Padri. Furono per
me gli anni formativi, non come gli anni in cui ero maestro dei chierici al
monastero e avevo dovuto spiegare la Regola. Qui io trovavo me stesso”.
Innocenzo
gli chiede: “che cosa ti hanno fatto scoprire queste persone?”.
Dice
padre Benedetto: “Il semplice fatto che loro” (parla dei cattolici comunisti) “sono
rimasti talmente fedeli! Io ero l’unico confidente di Felice Balbo, Sebregondi,
Fred Ostiani, Scassellati e altri che lavoravano all’IRI, che rinasceva allora.
Alcuni matrimoni li ho fatti io. C’era Raniero, era un figlio per me. Le
amicizie erano importanti. Non chiedevo mai conto di quello che facevano. Mai,
mai, mai, libertà. Io della loro situazione politica non mi occupavo a loro
interessava il mio discorso spirituale, la mia amicizia; io parlavo loro del
monachesimo, della regola di san Benedetto, loro mi parlavano dei loro problemi
spirituali. Felice Balbo era critico verso la Chiesa, erano gli ultimi anni del
pontificato di Pio XII; è un travaglio che abbiamo vissuto, nasce il senso
critico della Chiesa”.
Qualche
volta però venivano a chiedere consiglio anche per le loro scelte politiche.
“Una volta, alla vigilia delle elezioni politiche del 53, venne Sebregondi a
dirmi che non si sentiva di votare DC” (la DC era il partito dell’unità dei
cattolici) “e mi chiese: cosa debbo fare, io penso di votare Repubblicani, io
gli dissi: fai quello che vuoi. Io con questi discorsi rinascevo. Ho fatto
molto più che nel noviziato”.
Innocenzo
gli chiede: “Perché rinascevi? Cos’è che ti davano?”
E
padre Benedetto risponde: “Un respiro”. E Innocenzo: “Di che tipo?” Benedetto:
“Che ti debbo dire, era il rapporto che mi maturava e mi apriva gli occhi alla
storia”. Gentiloni: “Probabilmente il contatto con la storia che ti era
mancato”.
E
questa storia diventa maestra di libertà. Ha altri incontri, Fanfani, La Pira,
Dossetti, Baget Bozzo, Claudio Leonardi, man mano padre Benedetto si libera, e
agli altri insegna la libertà. Come aveva fatto con Sebregondi nel ’53, fece
nel 1976 con me quando accettai la candidatura come indipendente nelle liste
del partito comunista.
Nell’intervista
del ’94 Innocenzo chiede a Benedetto quale fosse stata la sua reazione alla mia
candidatura, dal momento che dalla scelta di Raniero, dice Innocenzo, “veniva
direttamente una provocazione a noi, perché lui era amico da sempre della
comunità”. Un bel problema per la comunità avere per amico uno che va coi
comunisti! E Benedetto risponde: “Stemmo fino a mezzanotte a parlare e io gli
dissi: ‘la gerarchia non ha niente a che fare qui, la tua coscienza. Sempre più
mi confortava – aggiunge – grazie a queste amicizie la centralità della
coscienza. La tua coscienza”.
Il quinto esodo
Ma
questo cammino dalla soggezione alla libertà va ben al di là del rapporto con
la storia, con la politica, e raggiunge la sua massima profondità quando deve
misurarsi con la sostanza stessa della fede, con la Scrittura, con la liturgia,
con la Chiesa.
Ed
è chiaro che qui, ad attivare questo quinto esodo, c’è l’evento dirompente del
Concilio, che esplode letteralmente a san Gregorio e trova in padre Benedetto
il terreno più fertile per attecchire, perché quel terreno era stato già arato
per la libertà.
Ma
c’è un problema. Padre Benedetto non è un temerario, anzi è pieno di paure, non
vuole sfidare l’istituzione, sente la responsabilità del suo ruolo. Il cammino
della liberazione deve misurarsi con ostacoli serissimi. Lo dice lui stesso:
“Io come carattere sono stato sempre timoroso. Anche sino all’eccesso. Paura di
passi eccessivi, di venir meno ai miei doveri. Le mie prese di posizione
venivano lentamente, le mie riflessioni, le mie notti”. Andava coi piedi di
piombo, andava lentamente, aveva paura.
La
prima decisione fu quella di mettere l’altare rivolto al popolo. La chiesa di
san Gregorio fu chiusa per tre mesi, l’altare del 700 fu lasciato contro il
muro, si fece un lavoro di smottamento. Fu la prima chiesa a farlo. “Io non
dormivo la notte – dice padre Benedetto - perché facevo sogni agitati, sognavo
scontri col cardinale di Genova, Siri”. Siri era il campione della fissità. La
crisi esplode coi giovani. I giovani vogliono cambiare la liturgia. Abbandonare
il latino, lasciare il gregoriano, vogliono la messa in italiano, le chitarre;
Padre Benedetto non vuole. “Noi eravamo attaccati al gregoriano, al latino”.
Allora i giovani monaci decidono di rompere gli indugi, nella cappella di
sant’Andrea, attigua alla chiesa di san Gregorio, fanno una liturgia
clandestina, la messa in italiano, canti e chitarre. Telefona allarmatissimo il
cardinale Dell’Acqua, vicario di Roma, a cui uno zelante di passaggio aveva
fatto la spia. Benedetto è furibondo, convoca il capitolo, rimprovera i
giovani, e alle loro resistenze si alza, si fionda in cella, e non si fa più
vedere, non scende neanche in refettorio per il pranzo. Dopo una notte i giovani
pensano che si deve trovare una mediazione, e mandano Innocenzo da padre
Benedetto per tentare di ricucire. Innocenzo va nella sua camera, e ha una
sorpresa, Benedetto gli dice: Va bene, allora da domani la liturgia si fa come
dite voi. Così la riforma liturgica, bloccata nella Chiesa, esplode a san
Gregorio.
Dice
Benedetto: “non sono stato un pioniere ma ascoltavo e capivo”. E spiega: “Per
me il gregoriano, quando sono venuto a Camaldoli nel ’31, era stata una
conquista Mi ero affezionato. Ma c’è da
capire. È chiaro poi che di fronte a una chiesa che prega avrei bruciato tutti
i gregoriani immaginabili e possibili”.
D’altronde
egli aveva sentito come un’umiliazione il fatto che mentre a Camaldoli si
cantava il gregoriano i Laureati Cattolici che ci venivano per le loro
settimane teologiche “se ne stavano lì a
braccia conserte, inerti, venivano ai concerti”. Non si era ancora arrivati a riconoscersi
tutti insieme come popolo di Dio.
La
libertà del ripensamento doveva però esplodere ben al di là della riforma
liturgica.
L’evento
del Concilio, l’ecumenismo, il dialogo con le religioni, l’ecclesiologia di
comunione, fanno cambiare prospettiva a padre Benedetto anche nelle sue letture
dei suoi amatissimi padri, di san Gregorio, della Sacra Scrittura, del
monachesimo celibatario, della Chiesa stessa.
Però
non era un precipizio, era uno scivolo da ciò che lui era sempre stato.
Si
accorge che san Gregorio aveva vissuto un tempo che si poteva considerare analogo
al nostro. “Razionalizza”, cioè comprende meglio, tutto quello che per anni
aveva studiato e letto di lui. E dice: “Gregorio è l’epilogo di un cammino
della storia della Chiesa. Gregorio fa in Occidente tutta una ricapitolazione
della dottrina di Agostino e dei padri orientali. Ma Gregorio si trova alla
fine dell’impero. Gregorio si trova con i Barbari… Lui percepiva il tramonto
della Chiesa costantiniana, c’era una Chiesa che nasceva coi Barbari. E nella
Bibbia, dice Benedetto, Gregorio trova la ricchezza, ne estrae il messaggio
profetico. E il messaggio profetico è questo: “la centralità dell’amore, della
carità, la carità come chiave ermeneutica
della Parola di Dio contro ogni letteralismo”. Questa è la scoperta
culminante, interpretare tutto col criterio della carità. In questo
sdoganamento della Parola, c’è il Benedetto definitivo come ci sarà poi
l’annuncio definitivo di papa Francesco. La carità non solo come una delle
virtù teologali, ma come la chiave ermeneutica di tutto.
E
così padre Benedetto rilegge la tradizione, rilegge anche i Padri in un altro
modo. In san Bernardo per esempio ammira l’eredità patristica, ma trova che è
ambivalente, carico di contraddizioni: “Bernardo non ha capito i movimenti
popolari, era legato al mondo feudale in un modo feroce, fa l’elogio della
guerra santa”. Comincia la presa di distanza, la critica nei confronti dei
grandi Padri.
Dei
mistici, come i grandi mistici spagnoli del ‘500 - ‘600, san Giovanni della
Croce, Teresa d’Avila, dice che sono persone grandi, ma non avvertono i limiti
di “una Chiesa fortemente clericale, fortemente gerarchizzata, mondanizzata. La
loro è una mistica astorica, una mistica troppo preoccupata dei problemi
personali, dell’io, l’individualismo”. Non si accorgono di Alessandro VI
Borgia, o di Leone X dei Medici, quello delle indulgenze, non si accorgono
della cacciata degli Ebrei e dei Mori. A fronte di questi mistici astorici che
non hanno gridato per gli ebrei (e Bonhoeffer dirà: “chi non ha gridato per gli
ebrei non può cantare il gregoriano”) Benedetto scopre Dostoevskij, cita Aliosha che è il monaco nel mondo,
l’Aliosha dei Fratelli Karamazov “che si accorge dei fratelli che vivono una
tragedia enorme, che esce dal monastero, si prosterna e bacia la terra
esprimendo una mistica della storia che in Occidente non abbiamo”. E contro
ogni estenuazione spiritualistica della mistica, Benedetto definisce la mistica
così: la mistica è il rapporto esperienziale con Dio, presente nella cosmicità
che il Nuovo Testamento rivela, è il senso del mistero che rompe le logiche del
potere e che si esprime come diaconia: per me la carità – dice Benedetto – è al
fondo l’espressione della mistica.
In
questo modo Benedetto fa i conti con la tradizione, e pone un problema nuovo, il
problema di una “teologia della tradizione”, che vuol dire non accettarla a
scatola chiusa, come se fosse un deposito inerte.
E
a questo punto c’è il problema più serio, c’è la stazione più importante in
questo cammino verso la libertà, c’è la libertà riguardo alle Scritture, e di
conseguenza riguardo alla Chiesa.
Qui
c’è il problema grandissimo dell’Antico Testamento. Per salvare tutto
dell’Antico Testamento i Padri, di cui Benedetto si era imbevuto, avevano fatto
una lettura tipologica del testo sacro. Si sa cos’è la lettura tipologica. Si
legge un testo ma non lo si prende per quello che dice, alla lettera, ma come
“tipo”, come allusione, come rinvio a un’altra realtà. I Padri nell’Antico
avevano cercato il “tipo”, la prefigurazione o precognizione del Nuovo, e
avevano letto la Bibbia ebraica in modo spirituale, allegorico, estraendone
sempre quello che secondo loro ne era il senso nascosto, cioè Gesù Cristo.
Questo naturalmente non poteva piacere agli Ebrei, che venivano defraudati del
senso proprio delle loro Scritture, ma aveva fatto sì che i Padri, come notava
padre Benedetto, avessero finito per commentare più l’Antico Testamento che il
Nuovo.
D’altro
lato però questa lettura di una Bibbia nascosta, carsica, fatta dai Padri,
sublimando ogni parola del testo sacro, comportava il rischio del letteralismo
biblico, comportava di salvarne ogni parola, anche la più urtante, perfino le
parole di sterminio, perché tanto il senso era un altro.
Padre
Benedetto rigetta il letteralismo; quando un monaco amico – molto amico! - va a
san Gregorio dopo il Concilio, ancora a
proporre un letteralismo biblico, padre Benedetto confessa: “l’avrei
strozzato”.
“La
Scrittura, dice Benedetto, deve essere correttiva di se stessa, nelle varie
interpretazioni che una Chiesa storica si propone di fare”. È nel rapporto con
gli Ebrei, nel dialogo ebraico – cristiano, che Benedetto matura il suo
giudizio critico sul metodo tipologico con cui i Padri della Chiesa leggevano
il Vecchio Testamento. È incalzato da don Innocenzo così risponde sulla lettura
tipologica dell’Antico Testamento:
“Queste
forzature (le forzature cioè dei Padri) determinano ulteriormente il mio
discorso. Penso che il Nuovo Testamento vada ricollocato nel Primo, e nel primo
testamento non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono degli eventi nel
Vecchio Testamento che determinano l’interpretazione e l’ermeneutica: l’esodo e
l’esilio. Vorrei che gli amici ebrei riscoprissero un pochino meglio questo
aspetto”. Qui padre Benedetto accenna, senza entrarvi, al problema dello Stato
ebraico, e si richiama ai capitoli 9 e 10 della lettera ai Romani, che parlano
della permanenza degli Ebrei, ma non nel senso di una restaurazione politica.
“Si tratta – dice padre Benedetto – di una provocazione profetica–storica che è
di insegnamento di tutte le Chiese per tutta la storia. Perché Israele rimane
un paradigma permanente”. Ma quale Israele? “È la legge dell’esilio, che è
purificazione e nello stesso tempo pone Israele come evangelizzatore, il
monoteismo di Israele diventa la Sapienza. Il cammino metastorico profetico innesta
il Nuovo Testamento esclusivamente nell’esilio”. A questo punto, dice
Benedetto, si può perdere tutta la teologia del tempio, la teocrazia
veterotestamentaria. Per questo il Levitico e i Numeri non li ha mai letti, e
invece si radica nei canti del servo sofferente, ma non a livello pietistico–moralistico
(che poi scade nel messianismo socio–politico) ma a livello profetico. Sono
queste le tentazioni del messianismo politico che Gesù rifiuta, dice Benedetto,
quando nella sinagoga di Nazaret legge il capitolo 61 di Isaia, ma lo rovescia
nell’universalismo, fa la scelta della missione tra i poveri, sale a
Gerusalemme per la croce e la Pasqua. In questo senso, a questo punto il
Vecchio Testamento diventa profezia”.
E
a questo punto – conclude padre Benedetto – è chiaro che non posso accettare tutti
i Salmi, il letteralismo dei Salmi e degli altri libri, mi rifiuto, soprattutto nel momento in cui noi ci poniamo
come segno di un compimento; ossia a questo punto Gesù non è il Gesù dei
cristiani, è un Gesù veramente universale, perché la legge di Gesù è l’amore a
Dio e al prossimo.
Questa
dunque è la proposta cruciale e riassuntiva di tutto, che guarda al futuro, al
futuro della Chiesa, a un modo diverso di annunciare la fede, di viverla, di
comprenderla: la Scrittura, quella che secondo san Gregorio cresce con chi la
legge, è tutta rivissuta come esodo ed esilio in prospettiva escatologica, e si
manifesta come carità.
E
così è anche per la vita della Chiesa e così è anche per la vita di ciascuno.
Quanto
alla Chiesa, alla fine di questo itinerario, essa rimane, dice Benedetto, come pedagogia della fede. Papa Francesco dice
addirittura ospedale da campo, la relativizza, la disgela, lui dice “è
pedagogia”: la Chiesa “dovrebbe educare a fare a meno della Chiesa”. E quanto
alla persona, alla singola persona umana, nella libertà della sua coscienza essa
è il terminale dello Spirito Santo, è storia santa in atto. Ciascuno di noi,
ciascuno di voi è il terminale dello Spirito Santo, e in questo senso è storia
santa in atto.
Questo
è il messaggio di Benedetto. E a me pare che questa sia la proposta più carica
di futuro che egli ha lasciato per la Chiesa ma anche per Camaldoli, e che io
credo è ancora tutta da attuare; a cominciare ad esempio dalla lectio biblica,
che forse si potrebbe cominciare a fare con minore minuziosità filologica, e
con maggiore aderenza alla cultura e alle situazioni di oggi, come se la Bibbia
fosse scritta oggi per noi e oggi per la prima volta ci parlasse
E questo è appunto ciò che fa ora papa Francesco.
Basta ricordare quello che ha detto nel discorso al Consiglio per la nuova
evangelizzazione, l’11 ottobre 2017, quando ha chiesto che nel catechismo venisse
condannata come inammissibile e in se stessa contraria al Vangelo la pena di
morte, finora ammessa dalla dottrina. Ha detto Francesco che “non è
sufficiente trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è
necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono
per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che,
pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce”. E qui il
papa ha citato san Vincenzo di Lérins: «Forse qualcuno dice: dunque nella
Chiesa di Cristo non vi sarà mai nessun progresso della religione? Ci sarà
certamente, ed enorme. Infatti, chi sarà quell’uomo così maldisposto, così
avverso a Dio da tentare di impedirlo?» (Commonitorium, 23.1: PL
50). Ed ha aggiunto Francesco: “La
Tradizione è una realtà viva e solo una
visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico.
La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di
una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è
una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso
un compimento che gli uomini non possono fermare… Non si può conservare la
dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e
immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo”, mentre “Gesù di
Nazareth cammina con noi per introdurci con la sua parola e i suoi segni nel
mistero profondo dell’amore del Padre”.
3
– IL TEMA DELLA DONNA E DELL’AMORE
Il
terzo tema che è necessario evocare per scoprire la personalità di padre
Benedetto è quello, inconsueto perché tradizionalmente il più soggetto alla
censura ecclesiastica, della donna e dell’amore. È questa l’altra proiezione
veramente profetica sul futuro, quell’altro squarcio che può aprire a un
diverso percorso e può rappresentare anche un punto fermo di verità nei
confronti del mondo che stiamo costruendo che, come dimostra questo colloquio,
sta forse perdendo la nozione stessa dell’umano.
Padre
Benedetto si imbatte per la prima volta in questo problema a Pulsano, dove
c’era un prete pedofilo, che lui scrivendo poi al vescovo tenterà invano di far
rimuovere. Ma la patologia finisce lì. Tutta la vita di padre Benedetto è
pervasa da una contemplazione estatica della donna e dell’amore; dice un giorno,
come se fosse un paradosso, ma non tanto: “a settant’anni ancora mi innamoro”.
E questa non è una specialità di padre Benedetto, anch’io, fino a 87 anni,
ancora mi innamoro.
Nella
conversazione con don Innocenzo e Gentiloni il tema viene introdotto quando si
parla dell’inizio della sua vocazione monastica, dell’arrivo a Camaldoli. Padre
Benedetto dice di non aver razionalizzato la decisione di farsi monaco, non
tutto si fa d’altra parte sotto dettatura della ragione. Lui praticava la
preghiera di Gesù, “Gesù mio, mia misericordia”, e si è trovato monaco. E poi è stato sempre sostenuto dalla
comunità, all’eremo non ha mai voluto starci, nemmeno da Generale, gli è sempre
sembrato “un assurdo per come è fatto”, esso può essere concepito solo come uno
spazio di libertà.
È
a questo punto che don Innocenzo pianta
la domanda: “E la donna, quando eri giovane?” E Benedetto risponde: “Io da
ragazzo ero adorato dalle ragazze”. Innocenzo: “Certo eri bello, ma tu cosa
sentivi?”. Benedetto: “Ho sempre sentito l’attrattiva della donna, sempre,
sempre”. Innocenzo: “Come hai fatto che
non si vedeva anima viva?”. Benedetto: “Questi sono i travagli, queste sono le
croci, ecco perché non facevo penitenza, questa era già una penitenza. Le
coscientizzazioni (cioè le ragioni non dette) venivano dopo. Non tutto avviene
a livello coscienziale”.
Innocenzo
dice: “Tanti anni vissuti così?”. E Benedetto risponde: “Le amicizie le ho
sempre fatte. Ero contento quando potevo baciare una donna. E non mi sono
scandalizzato se gli altri avessero delle amicizie. Non ho questo rimorso, poi
piano piano ho orientato ad avere delle amicizie”.
Gentiloni
gli chiede: come mai questo passaggio da una vita monastica intesa all’inizio
in modo rigido e chiuso e questo trionfo della libertà che è la tua
caratteristica dopo?
E
Benedetto risponde: “È stato un passaggio, è stato un crescere. Io non ricordo
di aver sofferto, ero contento di essere monaco, avrei sempre scelto di nuovo
di fare il monaco, magari differentemente, non rinchiuderei i giovani
nell’eremo …”.
E
Innocenzo introduce il tema del desiderio e chiede: “Non hai mai avuto il
desiderio di una famiglia, dei figli?”.
E
Benedetto risponde: “No, un’amicizia vera con una donna, questo sì”.
Il
tema antropologico della sessualità entra nella conversazione tra Benedetto e i
suoi due interlocutori quando si parla del viaggio di padre Benedetto in India,
dove si apre tutto il problema dell’inculturazione del Vangelo e della stessa
presenza camaldolese in India. Padre Benedetto rimane stordito, non capisce
subito, dice che gli ci vogliono sempre tre o quattro giorni per capire, una grande riflessione, magari
capisce un mese dopo.
In
India, dice Benedetto, ho scoperto che c’è un altro mondo. Ho cominciato a
capire quello che è nel battesimo di Giovanni, la propedeutica a Gesù, un mondo
che si apre.
Don
Innocenzo lo interroga sulla sessualità in India, vissuta in maniera così
diversa che da noi. Padre Benedetto risponde: “Quello che trovi in India sono
tutti i simboli sessuali; e questo mi serviva a demitizzare tutto il
puritanesimo in cui siamo stati educati. Quando vidi nel tempio dell’Università
di Benares (che è la città santa dell’induismo) tutto il gocciolio dell’acqua
nella vasca che era il simbolo proprio della genitalità femminile, dico: ah,
che bellezza! Sussultai di gioia dentro di me, di fronte a questo recupero
dell’unitarietà dell’uomo a fronte di una religione moralistica, manichea,
catara, di fuga sessuale”.
Questi
discorsi tra Benedetto e i suoi interlocutori non potevano non portare al tema
del celibato dei preti. Qui padre Benedetto dice che “la legge del celibato ci
può essere, volontariamente accettata, con una maturità affettiva non comune,
ma mai il celibato può essere reso oggetto di una legge. Diverso è il caso del
monacato, qui ci deve essere tutta una propedeutica e tutta un’educazione. Ma
per i preti non si può generalizzare. In Africa posso dire, perché l’ho visto,
che tutti hanno una doppia vita. È una cultura: in Africa la genitalità la vedi
nelle piante, tu metti un seme, il giorno dopo già c’è il fiore. Un celibato
non è proprio capito. Nelle mie riflessioni capivo la cultura indiana. Lo
stesso problema si pone in America Latina. Ma c’è un problema anche da noi,
quando nei seminari si addita un’immagine di una donna asessuata di fronte al
seminarista, che non può baciare la donna; queste sono cose ignobili – dice
Benedetto – e mi rifiuterei veramente”.
E
qual è la conclusione che Benedetto ne ricava, quale il consiglio da dare ai
preti in difficoltà, gli domandano.
“Prima
di tutto il Vangelo” dice Benedetto. “La libertà evangelica è maestra della
libertà, la centralità della coscienza che attraversa il Nuovo Testamento
significa la presenza dello Spirito Santo in noi. La responsabilità personale.
Questa è la ricchezza del Vangelo, se il Vangelo non è questo io dico che è
annullata la legge del Vangelo”.
Da
qui Benedetto torna al tema dell’amicizia: “Il Vangelo educa. Gesù ha avuto
degli amici e delle amiche, questo mi ha sempre colpito, dal cap. 13 di Giovanni
in poi c’è un discepolo che Gesù ama, è un anonimo che si trova ai piedi della croce. Dopo la
resurrezione è apparso a Maria. Cosa vuol dire “Non mi toccare”? Bisogna fare
l’analisi esegetica: le dette un bacio, secondo lo stile del tempo, poi le dice:
vai ad annunziare che io sono con voi per sempre. L’amicizia fondata su
questo”. E naturalmente Benedetto ricorre qui alla grande letteratura
spirituale, soprattutto monastica, parla delle lettere in cui magari non
sapevano che dirsi ma scrivevano dicendo: scrivimi dicendomi che non hai niente
da scrivermi, e ricorda “tutti gli
indirizzi delle lettere di san Bonifacio che dicono: sono stretto al tuo collo,
ti bacio. Sono rapporti erotici, dovevano avere dei movimenti nei loro corpi,
dico io, nelle membra si muovevano! Tutto questo è amore”.
Innocenzo
lo provoca: “L’amicizia che però non esclude l’eros, lo coinvolge e lo supera”.
E
Benedetto: “È chiaro, è liberante, lo purifica. Qui c’è il discernimento, con
l’educazione, anche l’amore deve essere educato, non nella proibizione ma
nell’evocare la coscienza. Io avverto che un amore senza l’eros è impossibile.
Ma l’eros va educato. È chiaro che il comportamento che ha il marito verso la
moglie non può averlo verso le altre”.
E
qui è chiaro che Benedetto allude a un amore, che non è solo quello della
singola coppia umana, ma investe l’intero rapporto tra l’universo maschile e
l’universo femminile.
Più
avanti, quando si parla della Chiesa come pedagogia, padre Benedetto parla di
una pedagogia che, come dicevano i vecchi scolastici, passa dalla fede alla
gloria. Questo passa attraverso la carne di Gesù. Dice Benedetto: “La
resurrezione c’è nella carne di Gesù. E la carne è la visuale totale dell’uomo,
della persona, nella sua carnalità, sessualità, sentimenti, tenerezza, in
tutto, questa è la vittoria della Pasqua del Signore”. E qui, aggiunge, si apre
anche lo spazio alla poesia, al metarazionale. «Quando leggo Dante: “Vergine
madre figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura … nel ventre tuo si
riaccese l’amore …”, noi avremmo detto: nel tuo spirito si accese l’amore, non
nel tuo ventre. Qui c’è poesia, sessualità, corporeità … Nel ventre della
donna; nel ventre tuo si accese l’amore, questo è formidabile». E Benedetto
aggiunge: “La mistica, i devoti dell’arte nuova sono molto importanti perché
recuperano l’unità” e parla di Geltrude. “Chi è questa Geltrude?” domandano. “È
una mistica benedettina del XII secolo che coincide con lo stilnovo in
Germania. Di nobile famiglia. Fatte monache da quando avevano cinque anni in
poi, trovavano una sublimazione della loro corporeità nel rapporto fisicistico
con Cristo.
Innocenzo
chiede: “Che cosa significa rapporto fisicistico?”.
“Erotico.
Quando sviene, sono svenimenti erotici… lei sta in coro e sviene, allora Gesù
va da lei e l’abbraccia. Qui mi sfugge, non so come poter dire questo – confessa
padre Benedetto – però rimane emblematico questo linguaggio che la nostra
cultura odierna dovrebbe forse recuperare”.
E
alla fine Innocenzo dice a Benedetto: “Mentre parli vedo che tu fai un problema
molto serio del corpo e del sesso, molto serio, quasi come una cartina di
tornasole della libertà. Perché?”
E
Benedetto risponde: “Perché è la totalità della persona, la totalità della
persona, la totalità della persona che si deve trovare, questa è la bontà,
perché noi qui dobbiamo superare quella tradizione secondo la quale la
concupiscenza inficia l’uomo nella sua natura. La libertà è la totalità, e io
dico di non aggiungere croci a croci”.
E
qui mi permetto di aggiungere una chiosa a questo tema della donna e dell’amore
a cui padre Benedetto ci ha condotto e che mi pare introduca una ricca novità, rispetto al futuro, rispetto a un
progetto umano
Mi
pare che attraverso questo discorso padre Benedetto ci riporti, pur senza
citarlo, al capitolo secondo della Genesi, quando Dio destina l’uomo e la
donna, creati a sua immagine, ad essere due in una carne sola.
Mi
pare che padre Benedetto voglia dirci che quell’essere due in una sola carne
non riguardi il solo rapporto indissolubile di coppia, a cui già provvede il
diritto canonico, mi pare che voglia dirci che quella Parola creatrice non può
ridursi a sacralizzare il matrimonio trasformando ogni amore in gelosia, mi
pare invece ci dica che quell’essere due in una sola carne, l’umanità maschile
e l’umanità femminile, è un annuncio di
pienezza e di salvezza, dell’uomo e della donna come tali; è il mandato divino
per il quale la donna e l’uomo mai si devono separare, per il quale deve essere
conservata e custodita l’unità antropologica tra il mondo maschile e il mondo
femminile, contro le culture del possesso esclusivo ed escludente, della
separazione e del ripudio, contro l’indifferenziazione sessuale del modo di produzione
fordista; ed è anche la notizia dell’impossibile separazione dello spirito
dalla carne nel rapporto tra il maschile e il femminile in tutte le sue figure,
anche nei rapporti di amicizia, certo con modalità diverse secondo la diversa
natura delle relazioni.
E
questa mi pare che sia la contestazione decisiva dell’ideologia che insegue
l’intelligenza artificiale, come se si trattasse di una nuova creazione
dell’umano.
Nel
modello che la scienza, la tecnologia e il potere che oggi le domina hanno
adottato come prototipo dell’umano, l’uomo che vorrebbero duplicare veramente
non c’è, perché non c’è la donna, non c’è la differenziazione sessuale, il
robot non è né maschile né femminile, è neutro, il cervello artificiale non
conosce il dualismo tra maschile e femminile.
E
in questa visione dell’uomo e della donna indifferenziati, in questa perdita
della differenza di genere, in questa unificazione dell’umano in un uomo
generico, neutro e non differenziato, il femminismo è sconfitto non più solo in
quella sua rivendicazione della parità che è ancora una rivendicazione modesta,
ma nella sua ben più ambiziosa rivendicazione della differenza. Qui stiamo
programmando un mondo in cui non sarà più nemmeno necessaria la donna, non sarà
più necessario l’utero, non sarà più necessario il ventre della donna per fare
dei figli, non si potrà più dire indifferentemente di ogni essere umano “nato
da donna”, perché secondo le progettazioni non sarebbe più così.
E
allora io credo che contro questa perdita della differenza, contro questa
perdita della dualità, gridi quest’ultima eredità di padre Benedetto. E mi
sembra che essa abbia previsto e anticipato quello che papa Francesco avrebbe
detto vent’anni più tardi, quando nel discorso dell’anno scorso all’assemblea
generale della Pontificia Accademia
della Vita sulla “differenza benedetta” tra l’uomo e la donna, si espresse
così:
“Il
racconto biblico della Creazione va riletto sempre di nuovo, per apprezzare
tutta l’ampiezza e la profondità del gesto dell’amore di Dio che affida
all’alleanza dell’uomo e della donna il creato e la storia. Questa alleanza è
certamente sigillata dall’unione d’amore, personale e feconda, che segna la
strada della trasmissione della vita attraverso il matrimonio e la famiglia.
Essa, però, va ben oltre questo sigillo. L’alleanza dell’uomo e della donna è
chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società. Questo è un
invito alla responsabilità per il mondo, nella cultura e nella politica, nel
lavoro e nell'economia; e anche nella Chiesa. Non si tratta semplicemente di
pari opportunità o di riconoscimento reciproco. Si tratta soprattutto di intesa
degli uomini e delle donne sul senso della vita e sul cammino dei popoli.
L’uomo e la donna non sono chiamati soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi,
con amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi nella
luce dell’amore di Dio per ogni creatura. Parlarsi e allearsi, perché nessuno
dei due – né l’uomo da solo, né la donna da sola – è in grado di assumersi
questa responsabilità. Insieme sono stati creati, nella loro differenza
benedetta; insieme hanno peccato, per la loro presunzione di sostituirsi a Dio;
insieme, con la grazia di Cristo, ritornano al cospetto di Dio, per onorare la
cura del mondo e della storia che Egli ha loro affidato.
“Insomma,
è una vera e propria rivoluzione culturale quella che sta all’orizzonte della
storia di questo tempo. E la Chiesa, per prima, deve fare la sua parte. In tale
prospettiva, si tratta anzitutto di riconoscere onestamente i ritardi e le mancanze. Le forme di
subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne vanno
definitivamente abbandonate. Un nuovo inizio dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può
farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza. L’ipotesi
recentemente avanzata di riaprire la strada per la dignità della persona
neutralizzando radicalmente la differenza sessuale e, quindi, l’intesa
dell’uomo e della donna, non è giusta. Invece di contrastare le interpretazioni
negative della differenza sessuale, che mortificano la sua irriducibile valenza
per la dignità umana, si vuole cancellare di fatto tale differenza, proponendo
tecniche e pratiche che la rendano irrilevante per lo sviluppo della persona e
per le relazioni umane. Ma l’utopia del “neutro” rimuove ad un tempo sia la
dignità umana della costituzione sessualmente differente, sia la qualità personale della
trasmissione generativa della vita. La manipolazione biologica e psichica della
differenza sessuale, che la tecnologia biomedica lascia intravvedere come
completamente disponibile alla scelta della libertà – mentre non lo è! –, rischia
così di smantellare la fonte di energia che alimenta l’alleanza dell’uomo e
della donna e la rende creativa e feconda”.
Così papa Francesco. Mi pare questa la critica più radicale
dell’ideologia del “potenziamento” artificiale umano che non conosce più
differenza tra uomo e donna e ci propone un uomo indifferenziato che
rassomiglia a un uomo ma uomo non è.
Raniero La Valle
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