Ci
vuole il coraggio del papa per andare alla finestra domenica, nella giornata
mondiale dei poveri, ad annunciare la fine del mondo: non la catastrofe
ecologica che avverrebbe per colpa nostra, e che possiamo ancora evitare, ma la
fine escatologica che sta nei piani di Dio, quando i cieli e la terra
passeranno e il Signore verrà nella gloria e tutti vedranno il suo volto
raggiante d’amore. Si trattava in realtà del coraggio di annunciare il Vangelo,
opportuno o importuno che possa apparire.
Nessuno però avrebbe potuto accusare il papa di proporre ai poveri
l’alienazione di una ricompensa futura nei cieli ferma restando oggi la loro
infelicità sulla terra, perché in tutti i modi egli sostiene la causa della
loro liberazione e della loro lotta per avere giustizia già qui sulla terra.
Questo
ci suggerisce un criterio per intendere il messaggio evangelico che papa
Francesco sta riformulando nella sua globalità, in questo momento di svolta
della storia umana e della Chiesa. E il criterio è che come nel Vangelo - se si
vuole coglierne il senso profondo di rovesciamento rispetto al senso mondano e
comune - non si possono prendere le singole parole separate dal contesto
dell’insegnamento globale di Gesù, che è quello dell’amore, così si deve fare
coi predicatori del Vangelo che lo trasmettono non solo col loro corredo di
parole, ma attraverso la loro intera testimonianza. Tanto più questo avviene
con papa Francesco, che parla con un linguaggio vivido e figurato, e che per
far entrare il Vangelo nella testa e nel cuore della gente dice anche cose
sorprendenti e paradossali, come del resto erano paradossali le parabole. Dice
per esempio che la Chiesa è un ospedale da campo, che deve occuparsi degli
infarti prima che del colesterolo, o che il confessionale non è una sala di
tortura, o che la povertà è una prigione. Lo fa nel suo intento di rendere la
predicazione di Gesù come se fosse a noi contemporanea, come se il Vangelo
fosse scritto oggi.
Spesso,
come anche nel Vangelo, le parole o i termini di paragone sono tratti dal campo
penale. Succede per esempio nella rilettura sapienziale che nella catechesi del
mercoledì egli sta facendo di tutti e dieci i comandamenti, “le dieci parole”. Anzi,
parlando dell’ottavo, “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo
prossimo”, ha detto che sono parole che appartengono proprio al linguaggio
forense, e sono quelle che Gesù ha realizzato dando testimonianza alla verità nel
processo dinanzi a Pilato; in questa luce papa Francesco ha legato la verità
più all’amore che alla conoscenza, perché false relazioni impediscono l’amore, “dove c’è bugia non c’è amore, non può esserci
amore”. E qui il papa ha fatto ricorso a una delle sue iperboli quando ha detto
che “chiacchierare è uccidere” e che un chiacchierone o una chiacchierona è un
terrorista, perché getta la bomba e se ne va, ma quella bomba distrugge una
vita. È evidente che il papa non intendeva dire qui che bisogna consegnare i
maldicenti all’Antiterrorismo.
Questo
ci riporta a una precedente catechesi sui comandamenti, quella del 10 ottobre
sul “Non uccidere”. Lì il papa, improvvisando una frase fuori del discorso
scritto, disse che l’aborto è come “affittare un sicario”, e che interrompere
la gravidanza è un modo di dire che significa
“fare fuori uno”. Questa espressione di papa Francesco ha causato molto
dolore, soprattutto in quelli che più lo amano, e ci sono state risposte severe,
anche se rispettose, come quella dell’Ordine dei medici di Torino, di Dacia
Maraini, di note femministe, di altri. Effettivamente quelle parole del papa, trasposte
dal loro contesto a quello del discorso giuridico e politico venivano a colpire
in Italia (e non solo) un nervo scoperto, perché significavano riportare la tragedia
dell’aborto nell’abisso del diritto penale e fare delle donne, magari
perdonandole, delle assassine; “ sicario” è infatti una parola che rinvia al
codice penale, alla condanna, al carcere, all’ostracismo sociale.
Era
stato proprio per uscire da questi inferni, e non per fare dell’aborto “un
diritto”, come pretendeva la cultura laica del tempo, che in Italia nel 1978 avevamo
fatto la legge 194 in Parlamento; facemmo quella legge in dialettica con la “durezza
del cuore” della maggioranza del popolo, ma proprio con l’intento di riportare
l’aborto da reato alla sua vera realtà di millenaria tragedia in cui
massimamente è coinvolta la debolezza e la libertà delle donne; e la facemmo perché
lo Stato le sorreggesse in questa debolezza favorendone la maternità e nello
stesso tempo ne riconoscesse e rispettasse la congenita libertà. E se non tutte
le sue norme furono buone fu anche per la cieca chiusura del partito cattolico
che rifiutò di cooperare per volgerle al
bene e per allontanarle dal male. E quando si riuscì ad ottenere che venisse
cambiato insieme al contenuto anche il titolo della legge, non più solo come di
norme per l’aborto, ma di “Norme per la tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria della gravidanza”, non si fece ricorso a un modo
di dire per significare che si potessero far fuori i concepiti, ma si intese
tutelare la vita ed evitare che l’aborto
fosse usato come mezzo di controllo delle nascite; e furono introdotti
consultori e obiezione di coscienza così che la libertà di nessuno fosse lesa e
il volontariato fosse legittimato a sostenere le donne per una scelta positiva.
E
tuttavia nel ricordare o far sapere al papa queste cose, bisogna pur dire che
sarebbe tradire il suo pensiero se dalle parole “sicario” e “uccidere”, prese
alla lettera, si volesse dedurre un suo appello
alla giustizia penale, così da spedire i chiacchieroni all’Antiterrorismo e in
prigione le donne che abortiscono e i medici che le assistono. Il papa stesso,
la settimana successiva, è tornato sul quinto comandamento per mostrare, al di
là della lettera, l’ampiezza e la profondità del precetto divino del non
uccidere, citando il giudizio radicale di Giovanni, “Chiunque odia il proprio
fratello è omicida”, e la
reinterpretazione dell’antica legge fatta da Gesù, per il quale non solo chi
uccide è omicida, ma anche chi si adira con il proprio fratello o anche
semplicemente lo insulta chiamandolo stupido o pazzo: cosa che non può essere presa
alla lettera, non meno di quanto non si debba davvero cavarsi l’occhio o
tagliarsi la mano che inducono al peccato.
È
chiaro dunque che non può esserci nessun letteralismo nella ricezione del Vangelo e della parola di
chi lo annuncia; sarebbe “un suicidio del pensiero”, come ha affermato la
Pontificia Commissione Biblica; e dire “sicario” non era in quel caso meno
paradossale e immaginifico che dire “terrorista”; però segnalava che non si può
banalizzare l’aborto come se fosse un mezzo contraccettivo, c’è un problema
serio lì, vi sono in gioco delicatissime alternative di vita.
Nemmeno si tratta qui
di difendere la legge 194 che come tutte le leggi umane è scritta sulla sabbia.
Però è buona l’occasione per dire che le donne da secoli sono in credito con la Chiesa che, se è ospedale da
campo, dovrà pure assisterle e consolarle nei parti come negli aborti. E dovrà
riconoscere che la sua scelta per la vita del figlio intanto è una scelta
umana, in quanto è una scelta libera, come fu libero il sì della Vergine Maria
che pur si trovò incinta in modo inconsueto.
Decise in coscienza, senza imposizione di legge. La legge che nell’aborto
toglie di mezzo reati e sicari, serviva e ancora serve a questo, a far sì che a
nessun altro se non alla libertà di sua madre debba di essere venuto al mondo
ogni nato di donna. Per questo ora forse le donne si aspettano una nuova parola
dal papa. All’Angelus del 7 ottobre egli
ha detto che alla Chiesa non è chiesta subito e solo la condanna riguardo a
relazioni infrante nel matrimonio, così le donne a cui dolorosamente si è
infranto l’arco di vita dal concepimento al parto vorrebbero, prima che una
Chiesa giudice, una Chiesa che accanto a loro si senta “chiamata a vivere la
sua presenza di amore di carità e di misericordia per mettere al riparo di Dio
i cuori feriti e smarriti”.
Nessun commento:
Posta un commento